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Francesca Grippaldi
Medicina Generale indirizzo Endocrinologico, Ospedale Civile Maggiore, Verona
Servizio di Diabetologia, Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, Negrar (VR)

 

Gli inibitori dell'assorbimento intestinale dei carboidrati comprendono una classe di farmaci denominati inibitori dell'alfa-glucosidasi.
Questi pseudo-carboidrati (acarbosio, voglibosio e miglitol), ottenuti da processi di fermentazione di microorganismi (per acarbosio: Actinoplanes Utahensis), inibiscono competitivamente l'enzima alfa-glucosidasi presente sull'orletto a spazzola degli enterociti, che idrolizza gli oligosaccaridi non assorbibili e i polisaccaridi in monosaccaridi assorbibili (1). L'acarbosio viene principalmente eliminato nelle feci, in parte intatto e in parte (circa 30%) in seguito a fermentazione della flora microbiotica residente, in minima parte viene assorbito (2).
Dato il loro meccanismo d'azione nel prevenire la digestione dei carboidrati complessi, gli inibitori dell'alfa-glucosidasi devono essere assunti all'inizio del pasto. Il loro effetto determina una riduzione della glicemia post-prandiale e un calo dell'HbA1c dello 0.6% (3). Alcuni studi hanno dimostrato una regressione da alterata tolleranza ai carboidrati (IGT) a normale tolleranza (4) e una riduzione del 49% del rischio relativo di sviluppare eventi cardiovascolari nei pazienti con IGT (5). Riducendo l'iperglicemia post-prandiale, riducono le citochine pro-infiammatorie e stabilizzano la placca carotidea, con conseguente prevenzione delle complicanze micro e macrovascolari del diabete (6).
L'acarbosio è indicato nei pazienti affetti da diabete mellito non insulino-trattato in terapia dietetica o in terapia con ipoglicemizzanti orali e nei pazienti affetti da diabete mellito insulino-trattato già in trattamento con terapia insulinica, nei quali non vi è un buon controllo della glicemia post-prandiale o un HbA1c non a target (7). È controindicato nei pazienti con nota ipersensibilità al farmaco, nella chetoacidosi diabetica, nelle malattie infiammatorie intestinali, nelle ulcerazioni intestinali, nelle ostruzioni intestinali, nelle malattie intestinali croniche associate a disturbi della digestione o dell'assorbimento, nei pazienti con insufficienza renale grave (eGFR < 25 mL/min).
Si raccomanda di iniziare con una dose di acarbosio di 25 mg per tre volte al giorno, passando poi gradualmente (nel giro di 4-8 settimane) a 50 mg per tre volte al giorno, per arrivare alla dose di mantenimento di 100 mg per tre volte al giorno.
Gli effetti collaterali (dose-dipendenti), per la maggior parte gastrointestinali, comprendono flatulenza, diarrea, dolore gastro-intestinale e addominale (comuni); nausea, vomito, dispepsia, aumento degli enzimi epatici, edema, reazioni cutanee (rari); subileo/ileo, trombocitopenia, epatite fulminante (frequenza non nota).

 

Bibliografia

  1. Puls W. Pharmacology of glucosidase inhibitors. Oral Antidiabetics. Springer, Berlin 1996, 119: 497-525.
  2. Bischoff H. Pharmacology of alpha-glucosidase-inhibitors. In: Drugs in development: alpha-glucosidase inhibition: potential use in diabetes. Vassell J, Maggio C, Scriabine A (eds), Neva Press, Branford 1993: 3-13.
  3. Chiasson J-L, Josse RG, Hunt JA, et al. The efficacy of acarbose in the treatment of patients with non-insulin-dependent diabetes mellitus. A multicenter controlled clinical trial. Ann Intern Med 1994, 121: 928-35.
  4. Kawamori R, Tajima N, Iwamoto Y, et al. Alpha-glucosidase inhibitor for the prevention of type 2 diabetes mellitus: a randomised, double blind trial in Japanese subjects with impaired glucose tolerance. Nihon Rinsho 2009, 67: 1821-5.
  5. Chiasson JL, Josse RG, Gomis R. STOP-NIDDM Trial Research Group. Acarbose treatment and the risk of cardiovascular disease and hypertension in patients with impaired glucose tolerance. JAMA 2003, 290: 486-94.
  6. Kataoka Y, Yasuda S, Miyanoto Y, et al. DIANA study investigators. Effects of voglibose and nateglinide on glycemic status and coronary atherosclerosis in early-stage diabetic patients. Circ J 2012, 76: 712-20.
  7. American Diabetes Association. Standards of medical care in diabetes: 2012. Diabetes Care 2012, 35 suppl 1: S11-63.
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Francesca Grippaldi
Medicina Generale indirizzo Endocrinologico, Ospedale Civile Maggiore, Verona
Servizio di Diabetologia, Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, Negrar (VR)

 

Meccanismo d’azione
Inibitore dell'alfa-glicosidasi intestinale, enzima che scinde i carboidrati complessi e i disaccaridi trasformandoli in monosaccaridi. Ritarda l'assorbimento dei carboidrati dal tratto gastrointestinale, riducendo conseguentemente le escursioni glicemiche post-prandiali.

 

Preparazioni, via di somministrazione, posologia
Compresse da 50 mg (Acarbosio DOC, Acarbosio Tecnigen, Acarphage, Glucobay) e 100 mg (Acarbosio DOCAcarbosio Tecnigen, Acarphage, Glucobay).
Iniziare con 1 compressa da 50 mg x 3 volte al giorno all'inizio del pasto (eventualmente anche 25 mg x 3 volte al giorno). Dopo 4-8 settimane aumentare la posologia a 1 compressa da 100 mg x 3 volte al giorno per la fase di mantenimento. Se necessario, si può aumentare, sotto stretto controllo medico, fino a 2 compresse da 100 mg x 3 volte al giorno. Qualora si manifestino effetti indesiderati, nonostante il rispetto scrupoloso della dieta prescritta, si consiglia di non aumentare il dosaggio del farmaco ed eventualmente ridurlo.

 

Indicazioni
Diabete mellito non-insulino-dipendente in pazienti sottoposti a trattamento mediante la sola dieta o con l'associazione di dieta e ipoglicemizzanti orali.
Diabete mellito insulino-dipendente in pazienti sottoposti a terapia insulinica e dietetica.

 

Contro-indicazioni
Ipersensibilità al principio attivo o ad uno qualsiasi degli eccipienti.
Gravidanza ed allattamento.
Enteropatie croniche associate a disturbi della digestione e dell'assorbimento.
Età inferiore ai 18 anni.
Pazienti gastroresecati.
Stati patologici che possono essere aggravati da un aumento della produzione di gas a livello intestinale, quali sindrome di Roemheld, grosse ernie, ostruzioni o ulcerazioni intestinali.
Pazienti con grave compromissione della funzionalità renale (clearance della creatinina < 25 mL/min).

 

Effetti collaterali
Molto comuni: flatulenza.
Comuni: diarrea, dolore gastro-intestinale e addominale.
Non comuni: nausea, vomito, dispepsia.
Rari: aumento degli enzimi epatici.
Molto rari: ittero, edema, reazioni cutanee allergiche, disturbi epatici, stitichezza, occlusione intestinale, trombocitopenia. Non nota la frequenza di epatite.
Gli effetti collaterali a carico dell'apparato gastrointestinale sono dose-dipendenti e tendono ad essere accentuati dal mancato rispetto della dieta ipoglucidica prescritta.

 

Limitazioni prescrittive
Nessuna.

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Chiara Di Loreto
UOS Diabetologia, Distretto del Perugino, USL Umbria 1

(aggiornato al 6 marzo 2024)

 

Fisiopatologia e meccanismo d’azione
I farmaci di questa classe (detti anche gliflozine) agiscono sul riassorbimento del glucosio a livello del tubulo contorto prossimale del rene.
Il glucosio viene normalmente filtrato dal glomerulo e riassorbito sino al 90% a livello del tubulo prossimale, grazie al co-trasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT-2). Quando la quantità di glucosio filtrata supera la soglia di attività del SGLT-2, compare glicosuria (in genere per glicemia intorno a 160-180 mg/dL). Questo meccanismo di difesa, che garantisce l’omeostasi glicemica nel soggetto normoglicemico, risulta enfatizzato nel soggetto diabetico-iperglicemico, con iperespressione degli SGLT-2, che iper-riassorbono glucosio a livello tubulare, innescando un loop iperfiltrazione-iperriassorbimento-iperglicemia-aumento della glicosuria. Questa up-regulation degli SGLT-2 nel diabetico risponde in realtà alla mancata utilizzazione del glucosio a livello periferico e, pertanto, alla ridotta disponibilità metabolica del glucosio (anche se relativa). Inibire gli SGLT-2 rappresenta una strategia terapeutica valida, alternativa, che prescinde dalla riserva pancreatica ß-cellulare e può essere pertanto sfruttata in ogni momento della storia del diabete di tipo 2 (DM2). All’inibizione della funzione del co-trasportatore, consegue un ridotto riassorbimento di glucosio dal tubulo renale: circa il 40% del glucosio filtrato viene eliminato con le urine e la glicemia si riduce.
Le molecole attualmente disponibili in Italia appartenenti a questa classe sono canagliflozin, dapagliflozin, empagliflozin ed ertugliflozin. Altre molecole sono in studio per le indicazioni cardio-renali o commercializzate in altri Paesi per l’indicazione diabete e scompenso cardiaco (ipragliflozin, luseogliflozin, sotagliflozin, tofogliflozin) (1-3), ma visto il loro mancato utilizzo nel nostro Paese, non saranno più citate.

 

Efficacia
Diversi studi randomizzati hanno dimostrato l’efficacia di questi farmaci sulla riduzione dell’HbA1c, sia in mono-terapia (riduzione di circa 0.79%), sia in associazione a altro ipoglicemizzante orale (circa 0.61%) (4).
I vantaggi di tali molecole sono molteplici (4):

  • agiscono con un meccanismo totalmente indipendente dalla presenza di insulina;
  • in mono-terapia non sono associate ad aumentato rischio ipoglicemico;
  • determinano glicosuria (cioè perdita di energia);
  • sono associate a significativo calo ponderale (-1.8 kg);
  • l’effetto diuretico comporta una dimostrata attività ipotensiva (riduzione pressione sistolica - 4 mm Hg e diastolica - 2 mm Hg).

L’analisi combinata degli eventi cardio-vascolari (CV) maggiori registrati durante gli studi clinici di fase III, effettuata dall'Agenzia Europea per i Farmaci nel processo di registrazione, non ha mostrato alcun rischio (5,6). Un importante studio pubblicato nel 2015 (EMPA-REG OUTCOME) ha dimostrato che, rispetto al placebo, il trattamento con empagliflozin in pazienti con DM2 a elevato rischio CV riduce del 14% gli eventi CV maggiori, del 38% la mortalità CV, del 32% la mortalità totale e del 35% l’ospedalizzazione per scompenso cardiaco, con miglioramento del rischio già evidente dopo soli 3 mesi di terapia (7). Inoltre, l’analisi più approfondita dei dati sembra indicare che tale farmaco, in pazienti con DM2 ad elevato rischio CV, riduce di circa il 39% il rischio di incidenza e progressione di nefropatia, in particolare con riduzione del rischio di progressione verso micro-albuminuria, dell’incidenza di raddoppio della creatininemia e di inizio della terapia sostitutiva renale (5,6).
Il raggiungimento di endpoint secondari o esplorativi sul rischio di scompenso e di progressione della malattia renale negli studi di esito CV, ha dato il via a trial con esiti su scompenso e malattia renale cronica. Ad esempio, lo studio DAPA-HF (8) ha evidenziato che la riduzione di ospedalizzazione per scompenso cardiaco è presente anche nei pazienti non affetti da DM2. Anche in questo studio i benefici dell’aggiunta di dapagliflozin cominciano a comparire già dopo poche settimane.
Stessa protezione si è verificata sulla malattia renale cronica negli studi con esiti renali (9). Anche in questi studi la riduzione del rischio dell’endpoint composito (progressione della perdita di filtrato glomerulare, progressione dell’albuminuria, ricorso alla dialisi, morte renale e ricovero per cause renali) è molto precoce, fin dalle prime settimane. Questi dati hanno entusiasmato, oltre ai cardiologi, anche i nefrologi, che hanno finalmente la disponibilità di molecole da utilizzare per frenare l’evoluzione verso la nefropatia terminale. E la descritta transitoria caduta di filtrato nelle prime settimane, constatata negli studi e nella pratica clinica, non allarma.
Non sono ancora chiari i meccanismi attraverso cui si realizza la protezione cardio-renale. Sembrano coinvolti diversi ambiti: il metabolismo energetico cardiaco, l’entità di riduzione della ritenzione idrica e l’effetto sullo scambiatore sodio/idrogeno, che potrebbe avere un effetto protettivo contro il rischio di aritmie e morte improvvisa.

 

Effetti collaterali
Le infezioni del tratto genitale sono risultate più comuni con gli inibitori SGLT-2 rispetto al placebo o ai comparatori (1-3).
Nei primi anni del loro utilizzo, verosimilmente per incauta sospensione dell’insulina (cui questi farmaci venivano spesso associati), è stata segnalata la possibilità di aumento del rischio di cheto-acidosi, soprattutto quando gli inibitori SGLT-2 venivano usati fuori dalle indicazioni (10). Nei successivi studi su esiti CV e renali tale fenomeno è risultato del tutto eccezionale e paragonabile al placebo (7,8).
La stessa rassicurazione negli studi successivi al 2020 è stata fornita in merito al possibile aumento del rischio di fratture, osservato con canagliflozin, verosimilmente per tipologia di pazienti reclutati, ma escluso per le altre molecole.

 

Conclusioni
La real life ci restituisce dati di efficacia sul rischio cardio-renale di alcune molecole della classe, in particolare quelle che negli ultimi anni hanno ottenuto la rimborsabilità in Italia anche per lo scompenso cardiaco e l’indicazione per la malattia renale cronica. L’endocrinologo-diabetologo ha la grande opportunità di prescrivere con nota 100 le gliflozine in regime di rimborsabilità nei soggetti diabetici, sapendo di ottenere beneficio sulla glicata e protezione nei soggetti a rischio di scompenso cardiaco e nei pazienti con insufficienza renale e/o albuminurici, andando oltre il mero approccio glicemologico. I dati disponibili di efficacia e relativa sicurezza, associati anche agli effetti positivi sul peso corporeo e di protezione CV e renale, hanno rivoluzionato le linee guida e gli algoritmi terapeutici delle principali società scientifiche diabetologiche-cardiologiche-renali (11-15) per la terapia del DM2. Gli SGLT-2 inibitori sono da preferire indubbiamente agli inibitori di DPP-4 e da associare o utilizzare prima degli agonisti GLP-1 nei pazienti con scompenso cardiaco e malattia renale cronica. L’unica zona di dubbio rispetto ai GLP-1 RA resta il paziente con DM ad alto rischio CV, in cui entrambe le classi sono consigliate. Sarà l’expertise dello specialista in funzione delle caratteristiche del paziente ad individuare il farmaco migliore per ciascun paziente. L’auspicio sarebbe l’utilizzo sinergico per supposti effetti complementari.

 

Riassunto delle indicazioni e criteri di rimborsabilità degli SGLT2-i (consultazione RCP al 6 marzo 2024)
Dapagliflozin      Indicazioni

DM2

In adulti e bambini ≥ 10 anni, non adeguatamente controllati, in aggiunta a dieta ed esercizio:

  • in mono-terapia quando l’impiego di metformina è ritenuto inappropriato a causa di intolleranza;
  • in aggiunta ad altri medicinali per il trattamento del DM2.

Insufficienza cardiaca

Negli adulti per il trattamento dell’insufficienza cardiaca cronica sintomatica.

Malattia renale cronica

Negli adulti per il trattamento della malattia renale cronica

Studi registrativi a supporto   DAPA-HF (8)
DELIVER (16)
DAPA-CKD (17)
Posologia 10 mg 10 mg 10 mg
Compromissione renale In pazienti con GFR < 25 mL/min, a causa dell'esperienza limitata, non è raccomandato iniziare il trattamento con dapagliflozin. Nei pazienti con DM2 l'efficacia ipoglicemizzante di dapagliflozin è ridotta quando GFR è < 45 mL/min, ed è probabilmente assente nei pazienti con insufficienza renale grave. Pertanto, nei pazienti con DM2, se GFR scende < 45 mL/min, se è necessario un ulteriore controllo glicemico, deve essere preso in considerazione un ulteriore trattamento ipoglicemizzante. In pazienti con GFR < 25 mL/min, a causa dell’esperienza limitata, non è raccomandato iniziare il trattamento con dapagliflozin.
Compromissione epatica In pazienti con compromissione lieve o moderata, non è necessario alcun aggiustamento della dose.
In pazienti con compromissione grave, è raccomandata una dose di partenza di 5 mg; se ben tollerata, può essere aumentata a 10 mg.
Rimborsabilità Nota 100 Piano terapeutico AIFA Piano terapeutico AIFA
Empagliflozin      Indicazioni

DM2

In adulti e bambini ≥ 10 anni, non adeguatamente controllati, in aggiunta a dieta ed esercizio:

  • in mono-terapia quando l’impiego di metformina è ritenuto inappropriato a causa di intolleranza;
  • in aggiunta ad altri medicinali per il trattamento del DM2.


Insufficienza cardiaca

Negli adulti per il trattamento dell’insufficienza cardiaca cronica sintomatica. 

Malattia renale cronica

Negli adulti per il trattamento della malattia renale cronica. 

Studi registrativi a supporto   EMPEROR-REDUCED (18)
EMPEROR PRESERVED (19) 
EMPA-KIDNEY (20) 
Posologia  10-25 mg  10 mg  10 mg
Compromissione renale In pazienti con GFR < 20 mL/min, a causa dell'esperienza limitata, non è raccomandato iniziare il trattamento con empagliflozin.
Nei pazienti con eGFR < 60 mL/min la dose giornaliera di empagliflozin è di 10 mg.
Nei pazienti con DM2, l’efficacia ipoglicemizzante di empagliflozin è ridotta nei pazienti con eGFR < 45 mL/min e probabilmente assente con eGFR < 30 mL/min. Pertanto, se l’eGFR scende < 45 mL/min, se necessario, deve essere preso in considerazione un ulteriore trattamento ipoglicemizzante. 
In pazienti con GFR < 20 mL/min, a causa dell’esperienza limitata, non è raccomandato iniziare il trattamento con empagliflozin.  
Compromissione epatica In pazienti con compromissione lieve o moderata, non è necessario alcun aggiustamento della dose.
Nei pazienti con compromissione severa, l’esposizione a empagliflozin è aumentata e l’esperienza terapeutica è limitata; pertanto, l’utilizzo in questa popolazione non è raccomandato.  
Rimborsabilità Nota 100 Piano terapeutico AIFA Non rimborsato AIFA
Canagliflozin Indicazione

DM2

Negli adulti non adeguatamente controllati, in aggiunta a dieta ed esercizio:

  • in mono-terapia quando l’impiego di metformina è ritenuto inappropriato a causa di intolleranza;
  • in aggiunta ad altri medicinali per il trattamento del DM2.
 -     -    
Posologia Iniziare con 100 mg/die.
Nei pazienti che tollerano il farmaco e richiedono un controllo glicemico addizionale, si può aumentare a 300 mg.
Compromissione renale Per eGFR 30-60 mL/min, usare 100 mg.
Per eGFR < 30 mL/min, continuare con 100 mg se già in corso (fino alla dialisi o al trapianto renale), ma non iniziare ex novo.
Compromissione epatica In pazienti con compromissione lieve o moderata, non è necessario alcun aggiustamento della dose.
In pazienti con compromissione grave, canagliflozin non è stato studiato e non è raccomandato.
Rimborsabilità Nota 100
Ertugliflozin Indicazione

DM2

Negli adulti non adeguatamente controllati, in aggiunta a dieta ed esercizio:

  • in mono-terapia quando l’impiego di metformina è ritenuto inappropriato a causa di intolleranza;
  • in aggiunta ad altri medicinali per il trattamento del DM2.
 -     -    
Posologia La dose iniziale raccomandata è 5 mg una volta al giorno. Nei pazienti che la tollerano e che necessitano di controllo glicemico addizionale, può essere aumentata a 15 mg una volta al giorno.
Compromissione renale Nei pazienti con eGFR tra 45 e 60 mL/min, iniziare con 5 mg con titolazione fino a 15 mg, se necessario per il controllo glicemico.
Poiché l’efficacia ipoglicemizzante è ridotta nei pazienti con compromissione renale moderata e probabilmente assente con compromissione renale severa, se è necessario un ulteriore controllo glicemico, deve essere presa in considerazione l’aggiunta di altri agenti anti-iperglicemici.
L’inizio della terapia non è raccomandato in pazienti con eGFR < 45 mL/min e la terapia deve essere interrotta se eGFR costantemente < 30 mL/min.
Non deve essere usato in pazienti con compromissione renale severa, con malattia renale allo stadio terminale o dializzati, poiché non sono disponibili dati clinici a supporto dell’efficacia in questi pazienti.
Compromissione epatica In pazienti con compromissione lieve o moderata, non è necessario alcun aggiustamento della dose.
In pazienti con compromissione grave, ertugliflozin non è stato studiato e non è raccomandato.
Rimborsabilità Nota 100

 

Bibliografia

  1. Seino Y. Luseogliflozin for the treatment of type 2 diabetes. Expert Opin Pharmacother 2014, 15: 2741-9.
  2. Bhatt DL, et al. Sotagliflozin in patients with diabetes and recent worsening heart failure. N Engl J Med 2021, 384: 117-28.
  3. Jung CH, Jang JE, Prak JH. A novel therapeutic agent for type 2 diabetes mellitus: SGLT2 inhibitor. Diabetes Metab J 2014, 38: 261-73.
  4. Vasilakou D, Karagiannis T, Athanasiadou E, et al. Sodium-glucose cotrasporter 2 inhibitors for type 2 diabetes: a systematic review and meta-analysis. Ann Intern Med 2013, 159: 262-74.
  5. European Medicines Agency. Public assessment report for canagliflozin. 19 september 2013.
  6. European Medicines Agency. Public assessment report for dapagliflozin. Aggiornamento 6/2/2024.
  7. Zinman B, et al; EMPA REG OUTCOME Investigators. Empagliflozin, cardiovascular outcome and mortality in type 2 diabetes. N Engl J Med 2015, 373: 2117-28.
  8. McMurray JJV, et al. Dapagliflozin in patients with heart failure and reduced ejection fraction. N Engl J Med 2019, 381: 1995-2008.
  9. Wanner C, Inzucchi SE, Lachin JM, et al, EMPA REG OUTCOME Investigators. Empagliflozin, and progression of kidney disease in type 2 diabetes. N Engl J Med 2016, 375: 323-34.
  10. Taylor SI, Blau JE, Rother KI. SGLT2 inhibitors may predispose to ketoacidosis. J Clin Endocrinol Metab 2015, 100: 2849-52.
  11. Linea Guida della Società Italiana di Diabetologia (SID) e dell’Associazione dei Medici Diabetologi (AMD). La terapia del diabete mellito di tipo 2. Versione aggiornata a dicembre 2022.
  12. Davies MJ, et al. Management of hyperglycaemia in type 2 diabetes, 2022. A consensus report by the American Diabetes Association (ADA) and the European Association for the Study of Diabetes (EASD). Diabetes Care 2022, 45: 2753-86.
  13. 2023 ESC Guidelines for the management of cardiovascular disease in patients with diabetes: Developed by the task force on the management of cardiovascular disease in patients with diabetes of the European Society of Cardiology (ESC). Eur Heart J 2023, 44, 4043-140.
  14. Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) Diabetes Work Group. KDIGO 2022 clinical practice guideline for diabetes management in chronic kidney disease. Kidney Int 2022,102 (5S): S1-127.
  15. Grunberger G, et al. American Association of Clinical Endocrinology clinical practice guideline: the use of advanced technology in the management of persons with diabetes mellitus. Endocr Pract 2021, 27: 505-37.
  16. Solomon SD, et al. Dapagliflozin in heart failure with mildly reduced or preserved ejection fraction. N Engl J Med 2022, 387: 1089-98.
  17. Heerspink HJL, et al. Dapagliflozin in patients with chronic kidney disease. N Engl J Med 2020, 383:1436-46.
  18. Packer M, et al. Cardiovascular and renal outcomes with empagliflozin in heart failure. N Engl J Med 2020, 383: 1413-24.
  19. Anker SD, et al. Empagliflozin in heart failure with a preserved ejection fraction. N Engl J Med 2021, 385: 1451-61.
  20. EMPA-KIDNEY Collaborative Group. Empagliflozin in patients with chronic kidney disease. N Engl J Med 2023, 388: 117-27.
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Silvio Settembrini
Unità di Malattie Metaboliche, Diabetologia Endocrinologia, ASL Napoli 1 Centro, Napoli

(aggiornato al 2 aprile 2019)

 

Un’analisi comparativo-differenziale tra le tre molecole disponibili della classe degli SGLT-2 inibitori (1) richiede una premessa. Gli esiti conseguiti dagli studi di esito CV con empagliflozin (EMPAREG, 2), canagliflozin (CANVAS, 3) e dapagliflozin (DECLARE-TIMI 58, 2) devono essere valutati tenendo conto delle caratteristiche peculiari di ciascuno studio, i cui disegni, obiettivi e finalità sono sostanzialmente diversi. Dall’analisi dei risultati dei tre studi, si potrà definire un algoritmo e un profilo d’impiego di ciascuna gliflozina: quale molecola a chi e perché, sulla base degli effetti clinici conseguiti, indipendentemente da criteri farmacologici di comparazione (superiorità o inferiorità di una molecola rispetto all’altra, su indicatori di farmaco-dinamica o farmaco-cinetica o biotrasformazione).

 

Tabella 1
Studi clinici randomizzati di fase 3-4 sugli SGLT-2 inibitori
  EMPA-REG OUTCOME CANVAS e CANVAS-R DECLARE-TIMI 58
Farmaco Empagliflozin Canagliflozin Dapagliflozin
Dosi analizzate (mono-somministrazione) 10 e 25 mg 100 e 300 mg 30 mg
Follow-up mediano (anni) 3.1 2.4 4.2
Partecipanti 7020 10142 17160
Età media 63.1 63.3 63.9
Donne 28.5% 35.8% 37.4%
ASCVD stabilizzata 100% 65.6% 40.6%
Anamnesi di scompenso cardiaco 10.1% 14.4% 10%
eGFR < 60 mL/min/1.73 m2 25.9% 20.1% 7.4%

 

L’elemento fondamentale per un inquadramento dei tre studi (tab 1) è la ripartizione percentuale del numero di pazienti con malattia CV aterosclerotica (ASCVD) stabilizzata: 7020 (100%) nell’EMPA-REG, 6656 (65.6%) nel CANVAS, 6974 (40.6%) nel DECLARE-TIMI 58. Ciò introduce il differenziale in termini di end-point CV maggiori (MACE): gli autori della revisione (1) sottolineano al riguardo, in termini generali come effetto di classe, che gli SGLT-2 inibitori sviluppano benefici moderati sui MACE limitatamente ai pazienti con ASCVD stabilizzata, ma che hanno un’importante riduzione delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco e una riduzione della progressione della nefropatia cronica. Pertanto, leggendo i risultati dei tre studi secondo la tipologia di pazienti reclutati, possiamo affermare che sono studi ben diversificati: pazienti ad alto rischio CV e dunque in prevenzione secondaria quelli dell’EMPA-REG, ad alto rischio CV solo per il 65% quelli del CANVAS, in maggioranza a basso rischio CV (60%) e dunque in prevenzione primaria quelli del DECLARE-TIMI 58. Altri elementi rilevanti, oltre alle differenze di numerosità e di lunghezza del follow-up, sono le differenze nel numero dei pazienti con nefropatia cronica e con storia di scompenso cardiaco.
Per quanto riguarda i MACE (tab 2), in tutti e tre gli studi il beneficio delle gliflozine, stratificato per la presenza di ASCVD stabilizzata, è moderato, ma non nei pazienti con fattori multipli di rischio (ma a basso rischio) dove non c’è superiorità vs. il placebo. Occorre sottolineare che non tutti i ricercatori considerano i MACE particolarmente idonei per l’utilizzo negli studi d’intervento CV, perché includono l’ictus, che ha meccanismi patogenetici e di risposta ai farmaci diversi dal contesto cardio-renale.

 

Tabella 2
Metanalisi degli studi con SGLT-2 inibitori su MACE (composito di infarto, ictus e morte CV)
con stratificazione in relazione alla presenza di ASCVD
Studio Eventi per 1000 pz/anno Peso relativo (%) HR IC95%
Trattamento Placebo
Pazienti con ASCVD
EMPA-REG OUTCOME 37.4 43.9 29.4 0.86 0.74-0.99
CANVAS 34.1 41.3 32.4 0.82 0.72-0.95
DECLARE-TIMI 58 36.8 41.0 38.2 0.90 0.79-1.02
Modello con effetti fissi per ASCVD (p = 0.0002) 0.86 0.80-0.93
 
Pazienti con fattori multipli di rischio
CANVAS 15.8 15.5 25.9 0.98 0.74-1.3
DECLARE-TIMI 58 13.4 13.3 74.1 1.01 0.86-1.2
Modello con effetti fissi per fattori multipli di rischio (p = 0.98) 1.00 0.87-1.16

 

Andando invece a valutare (tab 3) ricoveri per scompenso cardiaco e mortalità per scompenso cardiaco stratificati per ASCVD, si evince come l’efficacia sia comune nei tre studi nei pazienti con ASCVD, ma pure (ed è questo l’elemento caratterizzante) nei pazienti a basso rischio con fattori di rischio multipli, sia nel CANVAS che nel DECLARE.

 

Tabella 3
Metanalisi degli studi con SGLT-2 inibitori su ricovero per scompenso cardiaco e morte CV,
con stratificazione in relazione alla presenza di ASCVD
Studio Eventi per 1000 pz/anno Peso relativo (%) HR IC95%
Trattamento Placebo
Pazienti con ASCVD
EMPA-REG OUTCOME 19.7 30.4 30.9 0.66 0.55-0.79
CANVAS 21.0 27.4 32.8 0.77 0.65-0.92
DECLARE-TIMI 58 19.9 23.9 36.4 0.83 0.71-0.98
Modello con effetti fissi per ASCVD (p < 0.0001) 0.76 0.69-0.84
 
Pazienti con fattori multipli di rischio
CANVAS 8.9 9.8 30.2 0.83 0.58-1.19
DECLARE-TIMI 58 7.0 8.4 69.8 1.01 0.86-1.2
Modello con effetti fissi per fattori multipli di rischio (p = 0.0634) 0.84 0.69-1.01

 

Altre evidenze di efficacia si segnalano (tab 4) su ricoveri per scompenso cardiaco e morte CV stratificati per storia di scompenso cardiaco, con maggior impatto positivo sui pazienti con storia di scompenso cardiaco (HR 0.71), specie per il canagliflozin, ma anche senza storia di scompenso cardiaco (HR 0.79), specie per l’empagliflozin.

 

Tabella 4
Metanalisi degli studi con SGLT-2 inibitori su ricovero per scompenso cardiaco e morte CV,
con stratificazione in relazione al pregresso scompenso
Studio Eventi per 1000 pz/anno Peso relativo (%) HR IC95%
Trattamento Placebo
Pazienti con pregresso scompenso
EMPA-REG OUTCOME 63.6 85.5 23.6 0.72 0.50-1.04
CANVAS 35.4 56.8 34.1 0.61 0.46-0.80
DECLARE-TIMI 58 45.1 55.5 42.4 0.79 0.63-0.99
Modello con effetti fissi con pregresso scompenso (p < 0.0001) 0.71 0.61-0.84
 
Pazienti senza pregresso scompenso
EMPA-REG OUTCOME 15.5 24.9 30.0 0.63 0.51-0.78
CANVAS 13.6 15.2 32.4 0.87 0.72-1.06
DECLARE-TIMI 58 8.9 10.5 37.6 0.84 0.72-0.99
Modello con effetti fissi senza pregresso scompenso (p < 0.0001) 0.79 0.71-0.88

 

Elemento molto rilevante della metanalisi (tab 5) è l’evidenza di forte protezione renale sugli end-point compositi di peggioramento della funzione renale, insufficienza renale terminale e morte renale, stratificati per presenza di ASCVD e fattori di rischio multipli, laddove, ed è questo il dato eclatante, l’efficacia è superiore con fattori di rischio multipli rispetto all’ASCVD (soprattutto per dapagliflozin), come a dire che la protezione renale da gliflozine è maggiore quanto più precoce è il suo impiego nel paziente a basso rischio.

 

Tabella 5
Metanalisi degli studi con SGLT-2 inibitori sul composito di progressione del danno renale, nefropatia terminale e morte renale, con stratificazione in relazione ad ASCVD stabilizzata
Studio Eventi per 1000 pz/anno Peso relativo (%) HR IC95%
Trattamento Placebo
Pazienti con ASCVD
EMPA-REG OUTCOME 6.3 11.5 31.0 0.54 0.40-0.75
CANVAS 6.4 10.5 35.6 0.59 0.44-0.79
DECLARE-TIMI 58 4.7 8.6 33.4 0.55 0.41-0.75
Modello con effetti fissi per ASCVD (p < 0.0001) 0.56 0.47-0.67
 
Pazienti con fattori multipli di rischio
CANVAS 4.1 6.6 29.5 0.63 0.39-1.02
DECLARE-TIMI 58 3.0 5.9 70.5 0.51 0.37-0.69
Modello con effetti fissi con fattori multipli di rischio (p < 0.0001) 0.54 0.42-0.71

 

Quando poi si valutano (tab. 6, sezioni A - B - C) gli end-point compositi renali, cardiaci e MACE, stratificati per livelli di filtrato glomerulare, si mantiene l’efficacia, specie con peggiori livelli di eGFR.

 

Tabella 6
Metanalisi degli studi con SGLT-2 inibitori sul composito di progressione del danno renale, nefropatia terminale e morte renale (A), ricovero per scompenso cardiaco (B) e MACE (C), con stratificazione in relazione a eGFR
Studio Eventi per 1000 pz/anno Peso relativo (%) HR IC95%
Trattamento Placebo
A
eGFR < 60 mL/min/m2
EMPA-REG OUTCOME  ND  ND 33.5 0.66 0.41-1.07
CANVAS  11.4  15.1  39.6  0.74 0.48-1.15
DECLARE-TIMI 58  8.9 15.2 27  0.60 0.35-1.02
Modello con effetti fissi per eGFR < 60 mL/min/m2 (p = 0.0054 ) 0.67 0.51-0.89
 
eGFR 60-90 mL/min/m2
EMPA-REG OUTCOME  ND ND 16.8  0.61 0.37-1.03
CANVAS  4.6 7.4  34.4 0.58 0.41-0.84
DECLARE-TIMI 58  4.2 7.8 48.9 0.54 0.40-0.73
Modello con effetti fissi per eGFR 60-90 mL/min/m2 (p < 0.0001)
 0.56 0.46-0.70
 
eGFR ≥ 90 mL/min/m2
EMPA-REG OUTCOME  ND  ND 11.7  0.21 0.09-0.53
CANVAS  3.8 8.1 27.5 0.44 0.25-0.78
DECLARE-TIMI 58  2.5 4.9 60.8  0.50 0.34-0.73
Modello con effetti fissi per eGFR > 90 mL/min/m2 (p < 0.0001)  0.44 0.32-0.59
 
B
eGFR < 60 mL/min/m2
EMPA-REG OUTCOME 14.9 25.8 36.5 0.59 0.39-0.88
CANVAS 11.6 21.3  36.1  0.55 0.37-0.83
DECLARE-TIMI 58  12.3  19.3 27.4 0.70 0.44-1.12
Modello con effetti fissi per eGFR < 60 mL/min/m2 (p < 0.0001) 0.70 0.47-0.67
 
eGFR 60-90 mL/min/m2
EMPA-REG OUTCOME  8.4 11.7 21.3  0.72 0.48-1.07
CANVAS  4.6 6.1 23.4  0.76 0.52-1.12
DECLARE-TIMI 58  6.5 9.9 55.2 0.65 0.51-0.84
Modello con effetti fissi per eGFR 60-90 mL/min/m2 (p < 0.0001)
0.69
0.57-0.83
 
eGFR ≥ 90 mL/min/m2
EMPA-REG OUTCOME  5.4  7.9  11.3 0.67 0.31-1.44
CANVAS  3.7 5.1 15.7  0.76 0.40-1.47
DECLARE-TIMI 58  5.1 5.4 73.0  0.94 0.79-1.26
Modello con effetti fissi per eGFR > 90 mL/min/m2 (p = 0.31 ) 0.88
0.68-1.13
 
C
eGFR < 60 mL/min/m2
EMPA-REG OUTCOME  52.7 60.5 36.2  0.88 0.69-1.13
CANVAS 36.3 49.5  36.6 0.69 0.54-0.89
DECLARE-TIMI 58  37.3 43.1 27.2  0.92 0.69-1.23
Modello con effetti fissi per eGFR < 60 mL/min/m2 (p = 0.0077) 0.60
 0.47-0.77
 
eGFR 60-90 mL/min/m2
EMPA-REG OUTCOME 30.8 40.6 22.5 0.76 0.61-0.94
CANVAS 26.8 29.0 32.8  0.95 0.80-1.13
DECLARE-TIMI 58 24.5 25.8 44.7 0.95 0.82-1.09
Modello con effetti fissi per eGFR 60-90 mL/min/m2 (p = 0.0520)
0.91
0.82-1.00
 
eGFR ≥ 90 mL/min/m2
EMPA-REG OUTCOME  35.4 32.2 15.1 1.10 0.77-1.57
CANVAS  20.8 23.6 21.1  0.84 0.62-1.13
DECLARE-TIMI 58 18.8 19.7  63.7 0.94 0.80-1.10
Modello con effetti fissi per eGFR > 90 mL/min/m2 (p = 0.35) 0.94
0.82-1.07

 

In sintesi, questa metanalisi documenta l’efficacia delle gliflozine in prevenzione secondaria (studi EMPA-REG e CANVAS) su mortalità per tutte le cause, mortalità CV, ricovero per scompenso cardiaco, protezione renale. Nello studio DECLARE-TIMI 58, a prevalenza (60%) di prevenzione primaria, il trattamento con dapagliflozin ha ridotto in modo significativo mortalità CV e ospedalizzazioni per scompenso cardiaco. Lo scompenso cardiaco è la prima causa di ospedalizzazione in Italia, con mortalità del 50% dopo 5 anni dalla diagnosi. I diabetici di tipo 2 hanno un rischio 2-5 volte maggiore di scompenso cardiaco e malattia CV rispetto ai non diabetici. Nello studio DECLARE-TIMI 58 il numero delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco è stato ridotto di oltre il 30% nei pazienti trattati con dapagliflozin, sia in prevenzione primaria che secondaria. Mentre negli studi EMPA-REG e CANVAS l’efficacia si esplica nei soggetti ad alto rischio CV e a rischio elevato-intermedio, le evidenze emerse dallo studio DECLARE-TIMI 58 suggeriscono l’utilizzo di dapagliflozin anche in prevenzione primaria. Questo introduce un cambiamento nella gestione dei pazienti affetti da DMT2, caratterizzati da un rischio molto elevato di scompenso cardiaco, infarto miocardico, ictus, nefropatia cronica: la possibilità di interferire con la malattia diabetica in una fase pre-clinica rispetto agli eventi CV. Nel paziente diabetico appare sempre più necessario andare oltre l’obiettivo del solo controllo glicemico, per un approccio più integrato alle sue complicanze cardiache e renali, utilizzando gli SGLT-2 inibitori in una fase sempre più precoce. Anche se le gliflozine hanno un’attività di protezione in tutte le categorie considerate nei tre studi (ASCVD stabilizzata, scompenso cardiaco, nefropatia cronica, basso rischio con fattori di rischio multipli), per trasferire alla clinica un algoritmo d’impiego delle gliflozine suggeriamo di utilizzare:

  • empagliflozin nei diabetici ad alto rischio CV;
  • canagliflozin nei diabetici a rischio alto-intermedio;
  • dapagliflozin nei diabetici a basso rischio.

Le gliflozine in prevenzione secondaria hanno un impatto tanto più rilevante su mortalità per tutte le cause, mortalità CV ed eventi (scompenso cardiaco) quanto più è complicato il paziente, mentre la protezione cardio-renale (su mortalità CV, ricoveri per scompenso cardiaco e nefro-protezione in termini di progressione di danno renale) si sviluppa anche in categorie a rischio minore. Il messaggio è che obiettivo della terapia con gliflozine, al di là della glicemia, dovrà essere prevenire, arrestare e ridurre il danno d’organo, che è la tappa intermedia tra esposizione ai fattori di rischio e gli eventi CV.

 

Bibliografia

  1. Zelniker TA, et al. SGLT2 inhibitors for primary and secondary prevention of cardiovascular and renal outcomes in type 2 diabetes: a systematic review and meta-analysis of cardiovascular outcome trials. Lancet 2018, 393: 31-9.
  2. Wiviott SD, et al, for the DECLARE–TIMI 58 Investigators. Dapagliflozin and cardiovascular outcomes in type 2 diabetes. N Engl J Med 2019, 380: 347-57.
  3. Zinman B, et al, for the EMPA-REG OUTCOME Investigators. Empagliflozin, cardiovascular outcomes, and mortality in type 2 diabetes. N Engl J Med 2015, 373: 2117-28.
  4. Neal B, et al, for the CANVAS Program Collaborative Group. Canagliflozin and cardiovascular and renal events in type 2 diabetes. N Engl J Med 2017, 377: 644-57.
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Chiara Di Loreto
UOS Diabetologia, Distretto del Perugino, USL Umbria 1

 

Meccanismo d’azione
Inibizione selettiva del cotrasportatore sodio-glucosio (SGLT-2) a livello renale. Nel paziente affetto da diabete mellito, nonostante l'iperglicemia, il riassorbimento del glucosio a livello renale persiste e il SGLT-2 è sovra-espresso. L'inibizione dello SGLT-2 provoca glicosuria, con riduzione sia della glicemia a digiuno, sia di quella post-prandiale, indipendentemente dai livelli di insulina.

 

Preparazioni, via di somministrazione, posologia

  • Dapagliflozin: compresse rivestite da 5 e 10 mg (dapagliflozin TEVA, dapagliflozin Viatris, Edistride, Forxiga)
    • in combinazione con metformina: (Ebimect, Xigduo) cp 5/850 mg, 5/1000 mg
    • in combinazione con saxagliptin: (Qtern) cp rivestite 10/5 mg
  • Canagliflozin: compresse da 100 e 300 mg (Invokana).
    • in combinazione con metformina: (Vokanamet) cp 50/850 mg, 50/1000 mg, 150/850 mg, 150/1000 mg
  • Empagliflozin: compresse da 10 e 25 mg (Jardiance)
    • in combinazione con metformina: (Synjardy) cp 5/850 mg, 5/1000 mg, 12.5/850 mg, 12.5/1000 mg
    • in combinazione con linagliptin: (Glixambi) cp 10/5 mg, 10/25 mg
  • Ertugliflozin: compresse rivestite da 5 e 15 mg (Steglatro)
    • in combinazione con metformina: (Segluromet) cp 2.5/850 mg, 2.5/1000 mg, 7.5/850 mg, 7.5/1000 mg
    • in combinazione con sitagliptin: (Steglujan) cp 5/100 mg, cp 15/100 mg

Le compresse non associate a metformina, sono da assumere per os una volta al giorno, indipendentemente dai pasti.
Le compresse associate a metformina vanno assunte due volte al giorno.
Tutti i dosaggi sono efficaci sia in monoterapia, sia in associazione con altri ipoglicemizzanti orali o insulina. In caso di elevati valori glicemici, è possibile iniziare subito con la dose più alta di gliflozina.
Dati recenti dimostrano una maggiore efficacia della associazione tra dapaglifozin e GLP-1 rispetto al trattamento con i singoli medicinali, in aggiunta alla metformina. Negli studi di registrazione è stata dimostrata l’efficacia dell’associazione di empagliflozina + linagliptin in aggiunta a metformina, rispetto alla sola associazione linagliptina + metformina.

 

Indicazioni
Diabete tipo 2: in adulti e bambini ≥ 10 anni, non adeguatamente controllati, in aggiunta a dieta ed esercizio:

  • in mono-terapia quando l’impiego di metformina è ritenuto inappropriato a causa di intolleranza;
  • in aggiunta ad altri medicinali per il trattamento del DM2.

Insufficienza cardiaca cronica sintomatica negli adulti (solo dapagliflozin ed empagliflozin).
Malattia renale cronica negli adulti (solo dapagliflozin ed empagliflozin).

 

Contro-indicazioni
Ipersensibilità al principio attivo o agli eccipienti (la compressa contiene lattosio anidro).
Non utilizzare nella terapia del diabete mellito tipo 1 e in caso di chetoacidosi diabetica.
Non utilizzare in gravidanza e durante l'allattamento.

 

Precauzioni
Compromissione renale:

  • dapagliflozin:
    • eGFR < 45 mL/min: efficacia ridotta
    • eGFR < 25 mL/min: non iniziare il trattamento
  • empagliflozin:
    • eGFR < 60 mL/min: utilizzare 10 mg
    • eGFR < 45 mL/min: efficacia ridotta
    • eGFR < 20 mL/min: non iniziare il trattamento
  • canagliflozin:
    • eGFR 30-60 mL/min: utilizzare 100 mg
    • eGFR < 30 mL/min: continuare con 100 mg se già in corso (fino alla dialisi o al trapianto renale), ma non iniziare ex novo
  • ertugliflozin:
    • eGFR 45-60 mL/min: iniziare con 5 mg 8e titolare se n recessario fino a 15 mg
    • eGFR < 45 mL/min: non iniziare il trattamento
    • eGFR < 30 mL/min:interrompere il trattamento

Compromissione epatica:

  • dapagliflozin: se moderata-lieve non necessario aggiustamento del dosaggio; se grave iniziare con 5 mg (aumentabile a 10 se ben tollerata)
  • empagliflozin, canagliflozin, ertugliflozin: se moderata-lieve non necessario aggiustamento del dosaggio; se grave non utilizzare.

Per l’indicazione diabete si raccomanda l’abbondante idratazione e  attenzione all’uso combinato con i diuretici dell'ansa, che vanno detitolati/sospesi o massima allerta in tutte le condizioni intercorrenti che possano causare deplezione di volume.
In pazienti trattati con inibitori di SGLT-2, sono stati segnalati rari casi di chetoacidosi diabetica (DKA); nella maggior parte di questi casi la presentazione della condizione era atipica, con aumento di glicemia solo moderato (< 250 mg/dL). È importante considerare la DKA in presenza di sintomi non specifici, come nausea, vomito, anoressia, dolore addominale, sete eccessiva, difficoltà a respirare, confusione, sonnolenza, indipendentemente dai livelli ematici di glucosio. Prima di iniziare il trattamento con gliflozine è necessario considerare fattori anamnestici che possano predisporre alla DKA. Sono ad alto rischio di DKA pazienti con ridotta attività residua delle cellule β (es. LADA, pazienti con DM2 e bassi livelli di peptide C, pazienti con storia di pancreatite), pazienti con condizioni che comportano ridotto apporto di cibo o grave disidratazione, pazienti per i quali le dosi di insulina sono state ridotte o pazienti che richiedono un aumento di insulina a causa di malattie acute, interventi chirurgici o abuso di alcool.

 

Effetti collaterali
Comuni: vulvo-vaginiti, balaniti e infezioni genitali correlate; infezioni delle vie urinarie. Poliuria, polidipsia. Aumento dell'ematocrito, dislipidemia. Dolori alla schiena. Ipoglicemia (se usato con sulfaniluree o insulina).
Non comuni: prurito vulvo-vaginale, deplezione di volume, costipazione, iperidrosi, nicturia, aumento dei livelli ematici di creatinina e/o di urea.
Nella pratica clinica l’incidenza di infezioni è sovrapponibile a quella degli studi registrativi. È necessario fornire consigli adeguati al paziente per minimizzare il rischio infettivo e consigliare terapia adeguata e/o la sospensione temporanea del farmaco in caso di infezioni derivanti da SGLT2-i.

 

Limitazioni prescrittive
Nota 100 per il DM2.
Piano terapeutico AIFA per le altre indicazioni (empagliflozin non rimborsato per malattia renale).

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Alberto Mormile
SC Endocrinologia, Diabetologia e Malattie del Metabolismo, AO Ordine Mauriziano di Torino

 

Un capitolo sul tema "Altri farmaci per la terapia del diabete mellito" viene preso in considerazione solo nell'algoritmo per il trattamento del diabete mellito pubblicato nel 2013 dalla "American Association of Clinical Endocrinologists" (1). Le linee guida o consensus delle altre maggiori società scientifiche non fanno riferimento a tali opzioni nei loro algoritmi terapeutici (2-5).

Colesevelam è un sequestrante degli acidi biliari che riduce il colesterolo LDL. Attraverso un meccanismo sconosciuto riduce in modo lieve la glicemia. I valori di HbA1c si riducono di circa lo 0.4-0.6%. Il colesevelam non causa ipoglicemia, nè aumenta il rischio ipoglicemico se associato ad altri ipoglicemizzanti orali. Il maggior effetto collaterale è l'intolleranza gastrointestinale, tipica di questa classe di farmaci. Può causare aumento dei trigliceridi, elemento che può essere problematico in alcuni pazienti (1). Il colesevelam non è commercializzato in Italia.

Bromocriptina mesilato a dosi tra 1.6 e 4.8 mg/die controlla il metabolismo glucidico e riduce i valori di HbA1c di circa lo 0.6-0.7%. Riduce anche gli acidi grassi liberi a digiuno e post-prandiali e i livelli di trigliceridi. Il meccanismo d'azione della bromocriptina sul metabolismo glucidico è ancora da chiarire. Può essere utilizzata in monoterapia o associata a uno o più ipoglicemizzanti orali e insulina (1). È disponibile negli Stati Uniti nella forma QR (quick-release formulation) in compresse da 0.8 mg. La dose iniziale è di 0.8 mg. Va somministrata al risveglio, non causa ipoglicemia, ma può provocare nausea e ipotensione ortostatica che ne limitano l'utilizzo. È controindicata in associazione a farmaci anti-psicotici. Dati preliminari suggeriscono che nei diabetici tipo 2 riduca gli eventi cardiovascolari (1,6,7).

Pramlintide è un analogo dell'amilina per l'utilizzo clinico terapeutico. L'amilina è un peptide cosecreto con l'insulina dalle ß-cellule del pancreas in un rapporto circa 1:100 molare. Il pramlintide agisce come amilino-mimetico: modula lo svuotamento gastrico, previene l'aumento post-prandiale del glucagone e agisce sul senso di sazietà. Il pramlintide è efficace nel controllo dell'iperglicemia post-prandiale e viene somministrato sc prima dei pasti (che contengano almeno 30 g di carboidrati) sia nel diabete tipo 1 che nel diabete tipo 2. Visto che può dare nausea, la dose iniziale nel diabete tipo 1 è di 15 μg sc x 3, con incrementi ogni 3 giorni di 15 μg, sino a 60 μg x 3. Nel diabete tipo 2 la dose iniziale è di 60 μg x 3 sino a 120 μg x 3. Gli effetti collaterali sono nausea, cefalea, vomito, anoressia, solitamente di lieve entità, e tendono ad attenuarsi nel tempo. Nel diabete mellito tipo 2 il pramlintide può essere associato a terapia insulinica basale e agli ipoglicemizzanti orali (7). Si raccomanda inizialmente di ridurre la dose di analogo rapido dell'insulina ai pasti di circa il 25-50%, per ridurre il rischio di ipoglicemia. In nessuno degli algoritmi terapeutici delle maggiori società scientifiche per il trattamento del diabete mellito tipo 2 viene citato il pramlintide come opzione terapeutica (1-5). Non è in commercio in Italia.

 

Bibliografia

  1. Garber AJ, et al. American Association of Clinical Endocrinologists' comprehensive diabetes management algorithm 2013 consensus statement. Endocr Pract 2013, 19 536-57.
  2. AMD-SID. Standard italiani di cura del diabete mellito. 2014.
  3. ADA. Standards of medical care in diabetes - 2014. Diabetes Care 2014, 37 suppl 1: S14-80.
  4. The Canadian Diabetes Association 2013 Clinical Practice Guidelines for the Prevention and Management of Diabetes in Canada. Can J Diabetes 2013, 37: S1-S212.
  5. International Diabetes Federation Guideline Development Group. Global guideline for type 2 diabetes. Diabetes Res Clin Pract 2014, 104: 1-52.
  6. DeFronzo RA. Bromocriptine: a sympatholityc, d2-dopamine agonist for the treatment of type 2 diabetes. Diabetes Care 2011, 34: 789-94.
  7. Grunberger G. Novel therapies for management of type 2 diabetes mellitus: Part 1. Pramlintide and bromocriptine-QR. J Diabetes 2013, 5: 110-7.
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Sandra Di Marco1 & Laura Molteni2
1UOSD Diabetologia Fermo ASUR Marche Area Vasta 4
2
Centro Ambulatoriale di Diabetologia ed Endocrinologia, Ospedale Sacra Famiglia - Fatebenefratelli, Erba (CO)

(aggiornato al 2 gennaio 2022)

 

Il diabete mellito (DM) è una malattia cronica di proporzioni pandemiche e in continua crescita, gravata da una costellazione di complicanze croniche e acute, che rendono conto, unitamente alle ospedalizzazioni che esse comportano, del suo alto costo sociale ed economico. Le più recenti linee guida diabetologiche stanno promuovendo nuove strategie terapeutiche per migliorare la gestione della malattia diabetica, abbandonando progressivamente l’approccio scalare (stepwise) della terapia ipoglicemizzante, a favore di terapie di combinazione, con le quali ottenere un controllo glicemico precoce e persistente e ridurre quindi il rischio di complicanze (1-4).
Pur rimanendo la metformina farmaco di prima scelta in associazione al cambiamento dello stile di vita per il vantaggioso rapporto costo-beneficio, quando il trattamento di prima linea non è sufficiente a raggiungere l’obiettivo glicemico e/o in caso di comorbilità viene raccomandata una terapia di combinazione precoce fin dal primo riscontro di DM. Questo nuovo approccio terapeutico è stato favorito dall’introduzione di nuove classi farmacologiche, che all’efficacia ipoglicemizzante uniscono il minor rischio di ipoglicemia, il controllo del peso corporeo e soprattutto straordinari effetti di protezione cardio-vascolare e renale, che li rendono particolarmente utili in presenza di tali complicanze ma con evidenze crescenti anche in prevenzione primaria (5-9). Inibitori del DPP-4, agonisti del GLP-1, inibitori del SGLT-2, nuove formulazioni di insulina basali e rapide, da soli o in combinazione pre-costituita o estemporanea hanno arricchito l’armamentario farmacologico del diabetologo, favorendo un approccio alla cura del malato diabetico che è al tempo stesso “sartoriale” e “globale”, cioè rivolto al controllo di  tutte le componenti del rischio cardio-nefro-metabolico che grava il decorso della malattia. La combinazione di diversi farmaci ipoglicemizzanti trova il suo razionale nella complementarietà di azione degli stessi, sia sul controllo della glicemia, che riguardo ai loro effetti ancillari, con dimostrata efficacia nel controllo dei principali fattori di rischio associati al DM. Va inoltre sottolineato che tali combinazioni permettono la semplificazione della terapia, laddove risulta indispensabile un’associazione duplice o triplice per raggiungere l’obiettivo glicemico individuale, con indubbi vantaggi sull’aderenza terapeutica.
È dimostrato che qualsiasi nuova classe farmacologica non insulinica addizionata all’iniziale terapia con metformina riduce generalmente l’HbA1c di 0.7-1.0% (10,11). Se l’obiettivo glicemico non viene raggiunto dopo circa 3 mesi di terapia, la metformina va combinata con altri ipoglicemizzanti e la scelta si baserà sugli effetti farmaco-specifici e sui fattori di rischio e di fragilità del paziente.
Le associazioni pre-costituite o estemporanee dei farmaci di nuova generazione (DPP4-i, GLP-1 RA, SGLT2-i) con gli ipoglicemizzanti orali “classici” (metformina, sulfaniluree, pioglitazone) e con l’insulina basale sono da tempo regolamentate in termini di rimborsabilità dall’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), mediante la compilazione di appositi piani terapeutici (PT). La rimborsabilità è limitata:

  • DPP-4i: limiti di HbA1c e di associazione farmacologica;
  • GLP-1 RA: limiti di HbA1c (solo in prevenzione CV primaria) e di associazione farmacologica;
  • SGLT2-i: limiti di associazione farmacologica.

Nei diabetici di nuova diagnosi la terapia combinata DPP4-i + metformina è in grado di apportare benefici in termini di riduzione precoce e duratura dell’HbA1C: è dimostrato ad esempio che il trattamento precoce del DM2 con la combinazione vildagliptin + metformina (studio VERIFY) riduce la quota di fallimento secondario rispetto all’utilizzo della sola metformina o dell’associazione sequenziale di metformina e vildagliptin (12). Negli ultimi anni EMA (Agenzia Europea per i Medicinali) ed FDA (Food and Drug Administration) hanno approvato combinazioni pre-costituite o estemporanee anche tra ipoglicemizzanti di “nuova generazione” e per alcuni di essi anche con le insuline basali. Alcune associazioni sono rimborsabili da AIFA.

 

Combinazioni GLP-1 RA + SGLT2-i
Sono tra le prime combinazioni approvate dalle autorità regolatorie americane ed europee. La diversa modalità di somministrazione (iniettivi e orale) ne impedisce l’associazione pre-costituita, rendendo quindi possibile solo la combinazione estemporanea, ma offre notevoli vantaggi sul controllo glicemico e sulla riduzione degli eventi CV, grazie ai diversi meccanismi d’azione, con effetti se non additivi senz’altro sinergici, che favoriscono anche il calo ponderale:

  • gli SGLT2-i agiscono attraverso la riduzione della soglia di riassorbimento tubulare del glucosio con conseguente deplezione del substrato energetico, il glucosio;
  • i GLP1-RA stimolano la secrezione insulinica e inibiscono quella di glucagone in modo glucosio-dipendente, oltre a ridurre la velocità di svuotamento gastrico; agiscono inoltre sul senso di sazietà.

Lo studio principale che ha valutato questa combinazione è il DURATION 8, dove in 695 pazienti con DM2 già trattati con metformina veniva valutato l’effetto di 24 settimane di trattamento con exenatide + placebo, dapagliflozin + placebo o exenatide + dapagliflozin, con un’estensione dello studio a 52 settimane (13,14). Nel gruppo combinato si osservava una riduzione dell’HbA1c di circa due punti percentuali (dal basale di 9.2% al 7.2% dopo 28 settimane) nel 45% dei pazienti trattati, maggiore di quella ottenuta con i singoli principi attivi, e una riduzione di peso di 4 kg dopo 4 settimane, modesta ma duratura, come evidenziato nel follow-up, dove il gruppo trattato continuava a perdere peso. Lo stesso studio mostrava un effetto additivo sulla riduzione della pressione arteriosa sistolica e soprattutto confermava la sicurezza della combinazione farmacologica in termini di rischio di ipoglicemia, che non aumentava rispetto alle mono-terapie.
Nello studio AWARD-10 l’aggiunta di dulaglutide alla terapia con un inibitore di SGLT-2, con o senza metformina, si è rivelata sicura ed efficace nel migliorare il compenso glicemico in pazienti con DM2 non adeguatamente controllati (15).
Nello studio SUSTAIN 9 l’aggiunta di semaglutide (GLP1-RA iniettivo settimanale) alla terapia con SGLT-2i migliora significativamente il controllo glicemico e riduce il peso corporeo nei pazienti con DM2 non adeguatamente controllato, generalmente con una buona tolleranza (16).
Attualmente in Italia le combinazioni GLP1-RA + SGLT-2i rimborsabili da piano terapeutico sono:

  • dulaglutide sc settimanale + SGLT-2i (senza specifica della molecola);
  • semaglutide orale giornaliera + SGLT-2i (senza specifica della molecola);
  • exenatide sc settimanale + dapagliflozin (non altri SGLT-2i).

Inoltre da dicembre 2020 c’è l’indicazione in scheda tecnica all’associazione di semaglutide sc settimanale con un SGLT-2i (senza specifica della molecola), ma attualmente non c’è ancora la rimborsabilità da piano terapeutico.
La forza delle evidenze scientifiche più recenti favorisce l’impiego precoce di queste combinazioni nei pazienti con malattia CV stabile, in associazione alla metformina (13-15).

 

Combinazioni DPP4-i + SGLT2-i
È un’altra combinazione efficace e sicura per l’intensificazione terapeutica. Due RCT hanno dimostrato l’azione complementare e potenzialmente additiva delle due classi farmacologiche, sia per l’effetto ipoglicemizzante (con basso rischio di ipoglicemia) che per gli effetti ancillari (17,18):

  • i DPP-4i inibiscono la degradazione incretinica (GLP-1 e GIP), favorendo la secrezione insulinica e inibendo quella del glucagone in maniera glucosio-dipendente, e hanno effetto neutrale sul peso (piano terapeutico gliptine);
  • gli SGLT2-i hanno azione glicosurica e favoriscono il calo ponderale e pressorio (piano terapeutico SGLT2-i).

Nell’ottobre 2019 è stata approvata la prescrivibilità e la rimborsabilità delle associazioni a dose fissa empagliflozin (10 o 25 mg) + linagliptin (5 mg) e dapagliflozin (10 mg) + saxagliptin (5 mg), entrambi indicati nei pazienti con DM2 ≥ 18 anni per migliorare il controllo della glicemia quando metformina e/o sulfanilurea (SU) e uno dei mono-componenti di entrambe le combinazioni non forniscono un adeguato controllo della glicemia o già in trattamento con la combinazione libera di empagliflozin e linagliptin. Entrambe le combinazioni (in mono-somministrazione giornaliera) sono prescrivibili con piano terapeutico da rinnovare ogni 6 mesi e senza limiti di HbA1c. I profili di sicurezza di queste associazioni sono quelli delle singole molecole. Da segnalare il riscontro di una minore incidenza dei più comuni effetti avversi correlati all’uso di SGLT-2i, come le infezioni genitali.
Nello studio VERTIS Factorial (19), uno dei nove studi di fase III del programma di sviluppo clinico di ertugliflozin, la co-somministrazione di ertugliflozin + sitagliptin è risultata più efficace rispetto ai singoli farmaci, sul controllo glicemico, sul peso corporeo e sulla pressione, con effetti mantenuti fino alla 52° settimana:

  • HbA1c: -1.5% nel gruppo co-trattato (ertugliflozin 5 mg o 15 mg + sitagliptin 100 mg), -1.0% con ertugliflozin 5 mg, -1.1% con ertugliflozin 15 mg e -1.1% con sitagliptin;
  • HbA1c < 7.0%: co-trattati 52.3% e 49.2% (con le 2 dosi), rispetto alle coorti di terapia con i singoli principi attivi (26.4%, 31.9% e 32.8%, rispettivamente).

Nel dicembre 2019 è stata approvata la prescrivibilità e rimborsabilità dell’associazione ertugliflozin + sitagliptin, con o senza metformina. In Italia tale combinazione al momento è possibile solo in estemporanea, con PT separati per ciascuna molecola (è possibile un unico PT solo nella regione Marche).

 

Combinazione insulina basale + ipoglicemizzanti orali
Nonostante l’associazione di due o tre farmaci ipoglicemizzanti non insulinici sia razionale e molto spesso efficace nel condurre al raggiungimento degli obiettivi glicemici, la natura progressiva del DM2 rende spesso indispensabile il ricorso alla terapia insulinica. Quando si decide di intensificare la terapia orale mediante insulina, gli Standard 2021 dell’American Diabetes Association raccomandano l’utilizzo di un’insulina basale (la cosiddetta Basal-Oral therapy) (20).
L’insulina è da sempre considerata il farmaco ipoglicemizzante più potente, in grado di consentire il raggiungimento degli obiettivi glicemici nella maggior parte dei pazienti indipendentemente dai valori iniziali di HbA1c. Infine, è stato dimostrato che, contrariamente al progressivo fallimento della terapia orale, l’insulina basale può mantenere l’HbA1c intorno a 7% per anni (21).
La posologia iniziale dell’insulina basale può essere stimata in base al peso corporeo (0.1–0.2 U/kg/die) e al grado di iperglicemia, con successiva titolazione personalizzata secondo necessità nel giro di giorni o settimane. Gli analoghi basali di seconda generazione ad azione prolungata (glargine U-300 o degludec) sono da considerare di prima scelta, in quanto in combinazione con agenti orali hanno dimostrato di conferire un minor rischio di ipoglicemia rispetto a glargine U-100 (soprattutto per quanto riguarda le ipoglicemie notturne) e una minore variabilità glicemica, a parità di efficacia nel ridurre i livelli di HbA1c (22-23).
Lo studio 4T ha confrontato efficacia e sicurezza dell’avvio della terapia insulinica nel DM2 mediante insulina basale, prandiale o pre-miscelata (24-25). A distanza di 3 anni dalla randomizzazione, non sono state rilevate differenze significative in termini di controllo glicemico complessivo (HbA1c compresa tra 6.8-7.1% nei tre bracci, p = 0.28). Sono state tuttavia rilevate alcune differenze tra i 3 bracci di trattamento: come atteso, l’approccio con insulina basale ha avuto un maggiore effetto sulla glicemia a digiuno che sulla prandiale, mentre sia la terapia insulinica prandiale che quella basale hanno condotto a valori ottimali di HbA1c (< 6.5%) più frequentemente rispetto alla terapia con insuline pre-miscelate. L’approccio con insulina basale è risultato associato a minor frequenza di ipoglicemie e minor incremento ponderale ed è sicuramente più semplice da gestire per il paziente. Per questo motivo, ancora oggi la terapia insulinica basale rappresenta un cardine della terapia farmacologica del DM2 al fallimento secondario da farmaci ipoglicemizzanti non insulinici o quando sono controindicate altre terapie ipoglicemizzanti (es. insufficienza renale ed epatica avanzata).
Ci sono tuttavia alcuni aspetti critici nella terapia di associazione tra ipoglicemizzanti orali e insulina basale: il controllo della glicemia post-prandiale, il rischio di ipoglicemia, il controllo del peso corporeo e la corretta titolazione dell’insulina. Per risolvere questi aspetti critici, è fondamentale la corretta scelta dell’ipoglicemizzante orale da associare alla terapia insulinica basale: gli inibitori di DPP-4 e gli inibitori di SGLT-2 sono considerati i farmaci più adatti per l’associazione con insulina basale e metformina nella pratica clinica; viceversa, vi è consenso sul fatto che le sulfaniluree sono inappropriate in associazione con insulina basale, a causa dell'alto rischio di ipoglicemia (26-27). I dati dello studio DARWIN T2D hanno però documentato che le sulfaniluree sono ancora troppo frequentemente associate all’insulina basale (28).
Nella pratica clinica è dunque importante che, al momento dell’aggiunta della terapia insulinica basale alla terapia orale, venga effettuata una revisione critica dei farmaci assunti in quel momento dal paziente, eventualmente sospendendo le sulfaniluree in atto, in modo da consentire una corretta titolazione dell’insulina senza incrementare il rischio di ipoglicemie. È inoltre importante assistere il paziente nella corretta titolazione dell’insulina, eventualmente impiegando algoritmi per l’auto-titolazione che tengano conto delle caratteristiche fenotipiche del paziente (fragile, insulino-resistente, ecc) e dell’obiettivo prefissato di glicemia a digiuno: è infatti esperienza clinica routinaria che il solo avvio della terapia insulinica basale raramente conduce ai benefici clinici desiderati, se non seguito da un’adeguata titolazione. Va viceversa evitata una sovra-titolazione dell’insulina basale per il mancato raggiungimento dell’obiettivo glicemico post-postprandiale.
Va infine ricordato che la Basal-Oral Therapy è frequentemente utilizzata nei pazienti fragili affetti da insufficienza renale cronica: la gestione di questi pazienti rappresenta una sfida significativa, perché nel caso di ridotta filtrazione glomerulare la maggior parte degli agenti ipoglicemizzanti deve essere ridotta di dosaggio o interrotta. Prima del passaggio a terapia insulinica basal-bolus, nei pazienti anziani o con particolari fragilità può essere considerata l’associazione tra insulina basale e DPP-4i.
Un’altra associazione molto usata nei pazienti in insulina basale è quella con SGLT-2 inibitori, con o senza metformina. L’efficacia degli SGLT2-i come aggiunta alla terapia insulinica è stata valutata mediante studi clinici randomizzati (29-31): anche se sono disponibili risultati per tutte e quattro le molecole autorizzate in Italia, al momento è rimborsabile l’associazione di insulina con canagliflozin, dapagliflozin ed empagliflozin, ma non è ancora rimborsabile l’associazione con ertugliflozin.
Sicuramente, la recente possibilità di poter utilizzare alcuni SGLT2-i anche in caso di insufficienza renale severa (per esempio attualmente canaglifozin può essere proseguito a 100 mg/die sino alla dialisi), rende l’associazione insulina-SGLT2-i un’ulteriore e innovativa opportunità terapeutica nel paziente nefropatico, che può giovarsi della spiccata attività di nefro-protezione di questi farmaci.
Poiché la classe delle gliflozine ha un meccanismo di azione totalmente insulino-indipendente, la loro assunzione permette di mantenere un controllo della glicemia soddisfacente o discreto anche in presenza di bassa insulina ed elevato glucagone. È tuttavia importante ricordarsi di non utilizzare SGLT2-i come “sostituto” dell’insulina nel diabete tipo 2 che necessitano di una basalizzazione insulinica: sono infatti stati segnalati casi di chetoacidosi euglicemica, un evento molto raro, ma con precisi fattori di rischio: bassa riserva di cellule che secernono insulina, condizioni che limitano l’assunzione di cibo o possono portare a grave disidratazione, improvvisa riduzione di insulina o aumentata richiesta di insulina (32). È quindi fondamentale, in caso di pazienti con bassa riserva ß-cellulare, non sospendere mai l’eventuale insulina basale in caso di associazione con SGLT2-i.

 

Combinazione insulina + agonisti recettoriali del GLP-1
Nonostante gli evidenti vantaggi della terapia insulinica basale associata a ipoglicemizzanti orali, le statistiche mostrano che una percentuale consistente di pazienti in terapia basal-oral rimane lontano dagli obiettivi terapeutici. È quindi opportuno considerare quali schemi terapeutici alternativi possano essere messi in atto in pazienti con DM2 e insufficiente controllo glicemico dopo ottimizzazione dell’insulina basale. Per rispondere a questo quesito clinico, negli ultimi anni è stata ampiamente sviluppata l’associazione tra insulina basale e GLP-1RA.
Esiste un razionale ben chiaro in questa associazione. La terapia con GLP-1RA è in grado di agire sull’iperglicemia post-prandiale e rappresenta quindi un complemento all’azione dell’insulina basale sulla glicemia a digiuno. Inoltre, grazie all’effetto anoressante, la terapia con GLP-1RA riesce a contenere l’incremento ponderale tipicamente associato all’avvio e alla titolazione dell’insulina basale. Infine, grazie all’azione insulino-tropica glucosio-dipendente, l’uso dei GLP-1RA è associato a un basso rischio di ipoglicemie (33). Per tali ragioni, l’aggiunta di un GLP-1RA alla terapia con insulina basale rappresenta una valida alternativa all’intensificazione mediante insulina prandiale (34).
Numerosi studi e metanalisi hanno dimostrato non solo l’efficacia della combinazione tra insulina basale e analoghi del GLP-1, ma la sua superiorità rispetto alla terapia con insulina basale e insulina pronta ai pasti, in termini di compenso glicemico, controllo del peso corporeo e rischio ipoglicemico (35-37). Quando comparata alla sola titolazione dell’insulina basale, l’associazione di insulina basale + GLP-1 RA, sia in combinazione libera che nelle formulazioni a rapporto fisso, si associa a una significativa riduzione dello 0.53% dei livelli di HbA1c senza aumentare il rischio di ipoglicemia, ma con una maggiore proporzione di pazienti a target (HbA1c < 7%) e un effetto favorevole sul peso corporeo (-1.9 kg) (36). Questo dato è stato confermato da una meta-analisi di 26 RCT (durata 12-52 settimane per un totale di 11425 pazienti), che ha dimostrato migliore efficacia dell’associazione insulina + GLP-1RA rispetto alle terapie iniettive di confronto (37): HbA1c - 0.47%, maggiore percentuale di pazienti a target, rischio sovrapponibile di ipoglicemie e maggior riduzione del peso corporeo (-2.5 kg). Nell’analisi di sottogruppo, la terapia di combinazione insulina basale + GLP-1RA mostra efficacia sovrapponibile a quella dei regimi insulinici basal-plus (un’iniezione di insulina basale associata a un analogo ad azione rapida dell’insulina al pasto principale) o basal-bolus (un’iniezione di insulina basale associata a tre iniezioni di analogo ad azione rapida ai pasti) nel ridurre l’HbA1c, con percentuale simile di pazienti a target, associata però a significativa riduzione del rischio di ipoglicemie (RR 0.66, IC95% 0.46-0.93) e del peso corporeo (-4.7 kg, IC95% da -6.9 a -2.4).
Date quindi le solide evidenze della letteratura a sostegno dei vantaggi di questa associazione, questo regime terapeutico è entrato di diritto in tutte le nuove linee guida, suggerendone un utilizzo precoce e alternativo all’insulina basal-bolus. Questa associazione sembra particolarmente vantaggiosa rispetto a uno schema insulinico multi-iniettivo in alcune categorie di pazienti: sovrappeso o obesi, a elevato rischio di ipoglicemie, con difficoltà di gestione del trattamento multi-iniettivo con il relativo auto-monitoraggio glicemico intensivo. Questo tipo di associazione, inoltre, consente di utilizzare un farmaco (il GLP1-RA) con dimostrati effetti di cardio- e nefro-protezione, che può essere utilizzato in pazienti con compromissione renale (dulaglutide, semaglutide e liraglutide possono essere utilizzati fino a eGFR di 15 mL/min).
L’associazione insulina e agonista recettoriale del GLP-1 può essere effettuata utilizzando separatamente i due farmaci oppure mediante associazione pre-costituita. L’associazione estemporanea, rispetto all’associazione pre-costituita, presenta:

  • vantaggi: consente di sfruttare al massimo la potenza del GLP1-RA (che può essere portato alla massima posologia) e di titolare al meglio l’insulina basale;
  • svantaggi: anche quando la terapia iniettiva venga accettata, l’aumento del numero di iniezioni e l’utilizzo di dispositivi differenti e con diversa cadenza temporale (giornaliero quello dell’insulina, settimanale quello di molti GLP1-RA) potrebbe generare confusione, che si traduce in minore aderenza.

Nel caso di associazione estemporanea di insulina basale e GLP1-RA, al momento sono prescrivibili e rimborsabili le associazioni di insulina basale con liraglutide, dulaglutide, semaglutide, lixisenatide, exenatide LAR.

Recentemente sono state commercializzate in Italia due associazioni fisse pre-costituite tra un analogo del GLP-1 e una insulina basale:

  • IdegLira contiene 100 U/mL di insulina degludec (Ideg) e 3.6 mg/mL di liraglutide (Lira) in una penna pre-riempita di 3 mL;
  • IglarLixi è disponibile in due formulazioni con penna pre-riempita entrambe contenenti 100 U/mL di insulina glargine (Iglar): una con 50 μg/mL di lixisenatide (Lixi) e l’altra con 30 μg/mL di lixisenatide.

Ciascuna di queste due combinazioni deve essere titolata in maniera simile all’insulina basale. La titolazione permette un graduale aumento nella dose di GLP-1RA, riducendo, in tal modo, il rischio di nausea, l’effetto avverso più comune legato all’uso di questa categoria.
Efficacia e sicurezza di queste associazioni a dosi fisse sono state dimostrate nei rispettivi studi registrativi, DUAL per IdegLira e LixiLan per IglarLixi, che hanno incluso popolazioni molto eterogenee di pazienti con DM2, da quelli naïve al trattamento insulinico a quelli in terapia con insulina o con ipoglicemizzanti orali.

Al momento in Italia la rimborsabilità di IdegLira e IglarLixi è limitata all’utilizzo nei pazienti in terapia con insulina basale, in associazione o meno con altri ipoglicemizzanti orali (al di fuori degli SGLT-2 inibitori, nonostante il razionale e le elevate potenzialità di questa associazione): piano terapeutico IdegLira e piano terapeutico IglarLixi.

Concludendo, la terapia di combinazione insulina basale + GLP-1RA, sia in associazione libera che in combinazione fissa, rappresenta un’opzione terapeutica scientificamente valida, efficace e sicura, indicata dalle correnti linee guida per il trattamento del DM2 in caso di fallimento della terapia con insulina basale. La sinergia di azione dei suoi due componenti sui diversi meccanismi patogenetici alla base del diabete e la maggiore semplicità e fruibilità rispetto alla tradizionale terapia multi-iniettiva ne fanno una valida alternativa terapeutica. Infine, la disponibilità di formulazioni pre-costituite può fornire un’ulteriore semplificazione, con impatto favorevole sulla qualità di vita.

 

Prescrivibilità e rimborsabilità delle combinazioni di farmaci approvate per la terapia del DM2
  Metformina Gliflozine Gliptine GLP-1 RA Sulfaniluree Glitazonici Insulina
Metformina    R R R R  R  R
Gliflozine R    R*  R* NR NR R*
Gliptine  R R*   NP  R R* R*
GLP-1 RA  R  R* NP    R R R*
Sulfaniluree R NR R  R   R NR
Glitazonici  R  NR R* R R    R
Insulina  R  R*  R* R* NR  R  
Legenda: NP = non prescrivibile; NR = non rimborsabile; R = rimborsabile; R* = rimborsabile con limitazioni in base alla molecola

 

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Sara Angiulli, Giuseppe Ancona, Emanuela Setola
Unità Cardio-Metabolica e Trials Clinici, Dipartimento di Medicina Interna, Ospedale San Raffaele, Milano

(aggiornato al settembre 2023)

 

Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un drammatico aumento della prevalenza del diabete mellito a livello mondiale: stime attuali prevedono che per il 2045 nella popolazione tra i 20 e i 75 anni ci saranno 700 milioni di diabetici nel mondo (1).
Il diabete mellito di tipo 2 (DMT2) è stato da sempre considerato una malattia cronica e progressiva, con un background fisiopatologico complesso associato a fattori genetici e ambientali, la cui associazione si riteneva rendesse tale condizione come migliorabile ma non curabile (2).
Negli ultimi anni, si sta progressivamente prendendo coscienza della possibilità di remissione della malattia diabetica: l’approccio più efficace per ottenere tale remissione è la perdita di peso (raggiunta tramite interventi di chirurgia bariatrica e approcci dietetici di vario tipo, assieme a modifiche dello stile di vita in generale).

 

DEFINIZIONE
La terminologia appropriata da utilizzare è stata oggetto di ampia discussione, trattandosi di una malattia cronica: ad oggi non si ritiene opportuno parlare di “guarigione” della malattia diabetica, poiché tale termine suggerisce un ritorno stabile e permanente alla situazione di normalità; si ritiene più appropriato parlare di “remissione”, intesa come transitoria condizione di libertà da malattia. Questo è un termine più bilanciato, in grado di rendere l’idea di una condizione non sempre attiva, ma da seguire strettamente nel tempo, in modo da poter individuare un’eventuale recidiva di alterazione dei valori glicemici (3).
In questi anni sono stati proposti diversi criteri per definire lo stato di remissione in ambito diabetologico. La prima consensus sull’argomento dell’American Diabetes Association (ADA) risale al 2009. In questo contesto vennero individuate tre categorie di remissione (3):

  • parziale, con il mantenimento di valori di HbA1c al di sotto della soglia diagnostica per malattia diabetica (ossia 6.5% o 48 mmol/mol) in assenza di farmacoterapia ipoglicemizzante per almeno un anno;
  • completa, in caso di ripristino dello stato di euglicemia, con valori di HbA1c < 6.0% (42 mmol/mol) o di glicemia a digiuno < 100 mg/dL in assenza di farmacoterapia ipoglicemizzante per almeno un anno;
  • prolungata, se questo stato si manteneva per 5 anni o più in assenza di terapia farmacologica.

Tali definizioni sono state riviste e rielaborate nel tempo, sino all’ultimo consensus ADA del 2021 (4): oggi si parla di remissione nel momento in cui il paziente presenta uno stato di euglicemia (attestato da valori di HbA1c al di sotto della soglia diagnostica per il DM, ossia 6.5% o 48 mmol/mol) dopo almeno 3 mesi dalla sospensione di ogni terapia ipoglicemizzante attiva. Viene puntualizzato che in condizioni in cui il dosaggio di emoglobina glicata risulta poco affidabile (come in caso di anemia, uremia, emoglobinopatie, ecc), viene considerata come valida alternativa, la misurazione della glicemia nelle 24h misurata tramite sensore (continuous glucose monitoring, CGM), e l’HbA1c stimata tramite CGM (eA1C) (5), anche detta GMI (glucose managment indicator) (6). Sono considerati meno affidabili altri parametri, come la glicemia a digiuno o il test da carico orale di glucosio (OGTT), in virtù soprattutto della variabilità tra misurazioni ripetute (senza contare il fatto che alcuni interventi di chirurgia bariatrica possono alterare i pattern di risposta all’OGTT). La diagnosi di remissione può essere posta unicamente dopo che tutti i farmaci con effetto ipoglicemizzante sono stati sospesi e dopo che è passato il tempo necessario per non risentire più dell’effetto farmacologico.
Il timing in cui valutare l’HbA1c per definire lo stato di remissione del DM varia in base al tipo di intervento a cui il paziente è stato sottoposto (4):

  • in caso di approccio farmacologico o chirurgico, può essere utile il dosaggio dell’HbA1c dopo 3 mesi dal termine della terapia farmacologica o dall’intervento;
  • in caso di modifiche sullo stile di vita, in considerazione dei tempi più lunghi per ottenere un adeguato calo ponderale, si ritiene utile il dosaggio a 6 mesi da quando si è messo in atto il cambiamento.

 

FISIOPATOLOGIA
Per comprendere i meccanismi della remissione del DM, già nel 2008 è stata formulata l’ipotesi del “ciclo gemello” o twin-cycle hypothesis. Secondo tale ipotesi fisiopatologica, l’eccesso di carboidrati nella dieta determina un incremento della lipogenesi, favorendo l’accumulo di grasso epatico e, di conseguenza, promuovendo l’insulino-resistenza epatica, con successivo aumento dell’esportazione di trigliceridi in eccesso. I grassi tenderanno, dunque, ad accumularsi in svariati organi, tra cui anche le ß-cellule pancreatiche, portando all’alterazione della secrezione insulinica in risposta all’ingestione di cibo, con conseguente tendenza all’iperglicemia post-prandiale. La stessa iperglicemia comporta un aumento dello stimolo alla secrezione di insulina, che a sua volta stimola la lipogenesi: in questo modo il meccanismo patologico tende ad auto-mantenersi (7). Considerando tale ipotesi fisiopatologica della malattia diabetica, è ragionevole ipotizzare che un’improvvisa restrizione calorica potrebbe comportare l’inversione di tali meccanismi con l’interruzione del circolo vizioso: il deficit calorico condurrebbe all’utilizzo nel fegato dei lipidi in eccesso, con conseguente decremento del grasso intra-cellulare e successiva minore esportazione al pancreas delle lipoproteine e dei trigliceridi, oltre al miglioramento dell’insulino-sensibilità epatica. Si osserverebbe, dunque, minore accumulo lipidico a livello del pancreas stesso, con successivo miglioramento della capacità di secrezione di insulina (8).
Un interessante trial (Counterpoint) si è proposto di testare in vivo tale ipotesi: una severa restrizione calorica (800 kcal/die) in 11 partecipanti affetti da DMT2 ha portato a significativo calo ponderale in 8 settimane (15 ± 3 kg). Nel periodo di osservazione, i valori di glicemia a digiuno si sono rapidamente normalizzati, con importante riduzione dei livelli di grasso epatico e pancreatico, accompagnata da consistente miglioramento dell’insulino-sensibilità epatica da un lato e della risposta insulinica post-prandiale dall’altro: questi dati sono fortemente a supporto dell’ipotesi fisiopatogenetica descritta (9).
È ben noto che nel DMT2 si assiste al progressivo declino della funzionalità delle ß-cellule pancreatiche. Sicuramente l’incrementata apoptosi di tali cellule gioca un ruolo, ma l’apoptosi in sé non è sufficiente a spiegare la profonda disfunzione delle insule. Uno dei meccanismi ipotizzati è la de-differenziazione delle ß-cellule: lo stress metabolico che si verifica nel sovraccarico nutrizionale può condurre alla ridotta espressione di fattori di trascrizione chiave, con conseguente alterazione del fenotipo delle ß-cellule, non più capaci, dunque, di mantenere un’adeguata produzione insulinica. A 24 mesi dalla diagnosi di remissione del DM è stato dimostrato che le ß-cellule pancreatiche presentano un lento e progressivo miglioramento della prima fase della secrezione insulinica (10). Tali meccanismi dipendono anche dalla distanza dal momento di insorgenza della malattia diabetica: man mano che aumenta la durata della malattia, sembra che venga raggiunto un punto di non ritorno nella progressione verso l’apoptosi o de-differenziazione o differenziazione verso linee cellulari alternative, con conseguente perdita irreversibile della massa e funzionalità ß-cellulare.

 

FATTORI PREDITTIVI DI REMISSIONE
Non tutti i pazienti sono in grado di raggiungere gli esiti desiderati: esistono fattori che possono influenzare la probabilità di remissione della malattia diabetica. Qualsiasi sia l’approccio utilizzato, alcuni fattori influenzano negativamente la probabilità di ottenere la remissione del DM: lunga durata di malattia, gravità della malattia, basso BMI, età avanzata, scarso controllo glicemico e bassi valori di C-peptide (11).

 

STRATEGIE TERAPEUTICHE

Chirurgia bariatrica
Secondo le linee guida ADA del 2021, la chirurgia metabolica è:

  • raccomandata per il trattamento del DMT2 nei pazienti obesi con BMI ≥ 40 kg/m2 (o ≥ 37.5 kg/m2 negli asiatici) e negli adulti con BMI di 35-39.9 kg/m2 (32.5-37.4 kg/m2 negli asiatici) che non raggiungono perdita di peso adeguata e miglioramento delle comorbilità, con approcci non chirurgici;
  • può essere presa in considerazione nei pazienti con BMI tra i 30.0–34.9 kg/m2che non ottengono adeguata perdita di peso con strategie non chirurgiche.

Svariati studi hanno dimostrato la superiorità della chirurgia metabolica nell’ottenimento della remissione della malattia diabetica rispetto ai trattamenti convenzionali. Per fare alcuni esempi, nello studio “Swedish Obesity Subjects” (SOS), la remissione della malattia diabetica veniva raggiunta dopo due anni nel 72% dei pazienti trattati chirurgicamente contro il 16% di quelli trattati con terapie convenzionali (12). In un altro studio (STAMPEDE) i pazienti obesi venivano randomizzati in tre gruppi: terapia farmacologica, sleeve gastrectomy (SG) e Roux-en-Y gastric bypass (RYGB). Dodici mesi dopo il trattamento la percentuale di pazienti che raggiungeva valori di HbA1c < 6.0% era del 12% nel gruppo sottoposto a terapia medica, contro il 37% dei pazienti sottoposti a SG e il 42% di quelli sottoposti a RYGB (13). Uno studio del 2012 (14) ha riportato risultati simili, con remissione della malattia diabetica nel 75% dei pazienti sottoposti a RYGB e nel 95% dei pazienti sottoposti a diversione bilio-pancreatica (BPD); nel follow-up a 10 anni degli stessi pazienti (15), il 37% ha mantenuto la remissione, mentre il 58% di quelli precedentemente in remissione ha avuto una nuova evoluzione verso iperglicemia, mantenendo tuttavia un discreto controllo glicemico a distanza di 10 anni (HbA1c media = 6.7%).
Tali vantaggi metabolici sono sicuramente in parte legati alla perdita di peso; tuttavia sono stati postulati anche meccanismi peso-indipendenti, quali l’incremento dei livelli post-prandiali di GLP-1 o modifiche del microbiota legate alla chirurgia.

 

Approcci dietetici e modifiche dello stile di vita
Un ruolo fondamentale sulla remissione della malattia diabetica è sicuramente ricoperto dalla dieta e dalla perdita di peso. Sono stati valutati diversi tipi di regimi dietetici: a basso introito di energia (low-energy diet, LED), a basso introito di carboidrati (low-carbohydrate diet, LCD, in cui meno del 26% dell’energia totale assunta nella giornata deriva da carboidrati), diete chetogeniche (meno del 10% dell’energia totale derivante da carboidrati), ecc. Il predittore maggiore di remissione del DM è l’entità della perdita di peso (> 15% rispetto al peso di base del soggetto) rispetto alla composizione della dieta (16). In ogni caso, non vi è ad oggi evidenza di superiorità di un approccio dietetico rispetto a un altro, per cui l’atteggiamento da adottare deve essere individualizzato rispetto alle esigenze di ciascun paziente.
Le diete LCD rappresentano un approccio dietetico ampiamente utilizzato, in cui l’efficacia maggiore sulla remissione del DM viene raggiunta restringendo l’apporto di carboidrati a < 10% dell’introito calorico complessivo. Una recente meta-analisi ha dimostrato che le LCD non hanno mostrato particolare beneficio rispetto alle diete a più alto contenuto di carboidrati nella perdita di peso (mostrando solamente una leggera riduzione di HbA1c e trigliceridi ma nessuna differenza di colesterolo totale, HDL, LDL e pressione arteriosa) (17).
Tra le alternative figurano le diete a basso contenuto calorico (LED). Negli studi DiRECT e Counterbalance (18,19) veniva utilizzato un approccio dietetico con diete a contenuto calorico basso o molto basso (tramite formule liquide) per indurre una rapida perdita di peso, a cui seguiva la re-introduzione di cibo in un periodo di 2-8 settimane, seguita da un programma di follow-up per garantire il mantenimento. In entrambi gli studi si osservava un ottimo tasso di remissione:

  • nel follow-up a sei mesi del Counterbalance (19) la remissione raggiungeva il 60% nei pazienti con malattia diabetica da meno di 4 anni e il 21% in quelli il cui DM dura da più di 8 anni;
  • nello studio DiRECT (18), la remissione veniva raggiunta nel 46% dei soggetti a 12 mesi e nel 36% a 24 mesi.

Bisogna comunque considerare che l’aderenza per lunghi periodi a diete particolarmente restrittive e i meccanismi compensatori che si innescano a seguito della perdita di peso (che tendono a promuoverne il recupero, tramite meccanismi neuro-endocrini, alterazioni del dispendio energetico, metabolismo dei nutrienti e fisiologia gastro-intestinale) sono ostacoli che rendono difficile mantenere i risultati ottenuti sul lungo periodo.
Diventa utile associare all’approccio dietetico un programma strutturato di attività fisica. Un importante studio che si propone di approfondire questo tema nel contesto della remissione del diabete è il Look AHEAD (20), in cui si è studiato l’impatto non solo della dieta, ma anche dell’attività fisica (fino a 175 minuti/settimana), associati a un servizio di counseling individualizzato.

 

Terapia farmacologica
Risultati promettenti per una possibile remissione del DMT2 sono stati ottenuti con analoghi del GLP-1 , come nello studio STEP-2 con semaglutide 2.4 mg, in cui i partecipanti perdevano in media il 9.6% del peso corporeo (un quarto dei pazienti raggiungeva anche il 15%), con valori di HbA1c media al di sotto del range diagnostico per DM (6.4%) (21). Risultati promettenti sono stati registrati nello studio SURPASS-1 con tirzepatide, analogo doppio (GIP/GLP-1) (22): 40 settimane di trattamento hanno portato il 52% circa dei partecipanti a ottenere HbA1c < 5.7%, con perdita di peso media di 9.5 kg (11% del peso corporeo basale). Tuttavia, non sono ancora disponibili dati che permettano di dimostrare se la remissione mediata dagli analoghi del GIP/GLP-1 possa essere mantenuta a lungo termine, anche dopo interruzione del farmaco stesso: secondo la definizione precedentemente descritta, infatti, si parla di remissione se il paziente non assume terapia ipoglicemizzante.

 

LA REMISSIONE NEL DIABETE MELLITO DI TIPO 1
Il diabete mellito di tipo 1 (DMT1) è una malattia autoimmune, caratterizzata dalla distruzione irreversibile delle ß-cellule pancreatiche. Tuttavia, nel corso dell’evoluzione della malattia, alcuni pazienti sperimentano una fase di remissione (“honeymoon phase”), un periodo in cui la glicemia si mantiene stabile anche a seguito della riduzione della terapia insulinica, con transitorio miglioramento della funzionalità ß-cellulare. In questo contesto, esiste una distinzione tra remissione parziale (in cui si mantiene comunque un certo fabbisogno insulinico, seppur basso) e completa (in cui si azzera completamente il fabbisogno insulinico, con mantenimento del normale controllo glicemico). Mentre la remissione completa spontanea è un evento raro (< 3% dei bambini e adolescenti affetti), con una durata media approssimativamente di 3 mesi, la remissione parziale è più frequente, interessando una percentuale di pazienti del 35-43%, con durata media approssimativamente di 9 mesi.
Esistono dei fattori predittivi negativi della remissione parziale del DMT1: la cheto-acidosi diabetica severa e l’età più giovane all’esordio, il sesso femminile e la positività a multipli auto-anticorpi.
La fisiopatogenesi di questa fase della malattia diabetica non è ancora completamente chiara: è verosimile che sia collegata a meccanismi di immuno-tolleranza agli auto-antigeni ß-cellulari, assieme alla riduzione della gluco-tossicità grazie alla somministrazione esogena di insulina, che potrebbero condurre al recupero della produzione insulinica intrinseca. Sarebbero fondamentali ulteriori ricerche per indagare al meglio i meccanismi di tale processo, al fine di individuare terapie in grado di prolungare tale fase, per migliorare il controllo metabolico e la prognosi di questi pazienti (23).
Negli anni sono state studiate diverse terapie immuno-soppressive e immuno-modulatorie (ciclosporina, rituximab, abatacept, alefacept, teplizumab), con l’obiettivo di prevenire la distruzione delle ß-cellule e cambiare la progressione della malattia, ma questi approcci terapeutici non sono in grado di condurre a remissione (24). Al momento una molecola promettente è il teplizumab (anticorpo monoclonale anti-CD3), che ha dimostrato efficacia (ma solo a breve termine) nel preservare la funzionalità ß-cellulare in pazienti con neo-diagnosi di DMT1 (25).
I risultati maggiori nell’ambito della remissione sono quelli del trapianto, con diverse modalità (trapianto di pancreas intero o di insule): tale approccio terapeutico viene generalmente considerato in pazienti che hanno DMT1 complicato da insufficienza renale (per cui spesso si procede a trapianto contestuale di pancreas e rene) o ipoglicemie gravi recidivanti e non controllate da adeguata terapia medica. In questo contesto, l’insulino-indipendenza viene raggiunta più frequentemente nei pazienti con trapianto di pancreas (per quanto esistano maggiori rischi di complicanze chirurgiche). Il trapianto di insule risulta efficace nell’eliminare le variabilità glicidiche e le ipoglicemie ed è gravato da minor rischio di complicanze chirurgiche; tuttavia, per raggiungere la completa insulino-indipendenza, potrebbe essere necessario più di un donatore. Sono in fase di studio ulteriori promettenti frontiere terapeutiche (come il trapianto di cellule staminali) (26).

 

CONCLUSIONI
Al giorno d’oggi il DM ha un impatto estremamente rilevante, ma l’arsenale di armi a nostra disposizione apre nuovi scenari nelle prospettive terapeutiche. La remissione è un obiettivo raggiungibile, cui è ragionevole ambire, anche in virtù del fatto che il ritorno allo stato di euglicemia è in grado di ridurre la mortalità generale, il rischio cardio-vascolare e le complicanze micro-vascolari della malattia diabetica. Il tipo di approccio da seguire è necessariamente da cucire sul singolo paziente in base alle sue esigenze ed è auspicabile la compartecipazione di diverse discipline (endocrinologia, chirurgia, nutrizione, psicologia) al fine di garantire il massimo risultato.

 

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Angela Del Prete
AUSL Viterbo, UOC Medicina, Civita Castellana e Centro di Diabetologia, Viterbo

 

L’automonitoraggio glicemico (SMBG: self-monitoring of blood glucose) è una pratica essenziale nella gestione della malattia diabetica. Consiste nell’automisurazione della glicemia capillare con l’uso del glucometro, apparecchio portatile che determina in pochi secondi la glicemia analizzando una goccia di sangue intero capillare ottenuta generalmente dalla puntura di un polpastrello e posta su una striscia reattiva inserita nello strumento di lettura. Il glucometro misura la glicemia quantificando la reazione enzimatica di ossidazione del glucosio contenuto nella goccia di sangue analizzata. Tale reazione è catalizzata da un enzima (Glucosio-Ossidasi o Glucosio-Deidrogenasi) presente nella striscia reattiva ed è di entità proporzionale alla concentrazione di glucosio. I glucometri di tipo elettrochimico stimano la glicemia misurando la corrente elettrica generata dalla reazione enzimatica, mentre i glucometri di tipo reflettometrico stimano la glicemia attraverso un indicatore cromogeno contenuto nella striscia, il cui cambiamento di colore è indotto dalla reazione ossidativa del glucosio.
I dati provenienti dall’automonitoraggio glicemico rappresentano informazioni importanti sul grado di compenso metabolico della malattia e vanno integrati con la periodica valutazione dell’HbA1c per indirizzare le scelte terapeutiche. Attraverso l’automonitoraggio è possibile mettere in evidenza non solo le ipoglicemie, ma anche le escursioni glicemiche post-prandiali e la variabilità glicemica, noti fattori indipendenti di rischio cardiovascolare nei soggetti diabetici. Inoltre, in quelle condizioni cliniche in cui l’HbA1c non è in grado di riflettere accuratamente lo stato glicemico (alterazioni del turn-over eritrocitario e/o del processo di glicazione), l’automonitoraggio rappresenta il metodo migliore per definire il reale grado di compenso del diabete.
Molto forte e basata su grandi studi (DCCT, Veterans Study) è l’evidenza scientifica dell’utilità dell’automonitoraggio per migliorare il controllo metabolico, riducendo sia l’HbA1c che il rischio di ipoglicemia, in soggetti affetti da diabete tipo 1 e da diabete tipo 2 in terapia insulinica multi-iniettiva. Controverse sono invece le evidenze riguardo l’effettiva utilità dell’automonitoraggio nei soggetti affetti da diabete tipo 2 in terapia non insulinica. Recenti studi (Step, St Carlos, ROSES, PRISMA) hanno dimostrato che l’automonitoraggio glicemico è in grado di migliorare il controllo metabolico in questa tipologia di pazienti solo quando è parte integrante di un programma di educazione terapeutica continua. L’intervento educativo, realizzato dal team diabetologico, è mirato all’acquisizione da parte del paziente delle competenze necessarie sia al corretto uso del glucometro sia in generale all’autogestione della malattia, perseguendo obiettivi condivisi con il diabetologo. Grazie all’educazione terapeutica, il paziente diventa non solo in grado di auto-misurarsi la glicemia, ma anche di interpretare i valori glicemici e di intraprendere comportamenti correttivi, farmacologici e non, allo scopo di migliorare l’andamento del proprio diabete. In altre parole, affinchè l’automonitoraggio abbia un senso e una reale utilità, è fondamentale che il paziente realizzi attraverso di esso un ‘autocontrollo’ della malattia.
L’autocontrollo deve essere inteso come un vero e proprio strumento terapeutico, da prescrivere secondo indicazioni e modalità precise, coniugando l’obiettivo del miglior controllo metabolico possibile per quel paziente con l'esigenza di razionalizzare la spesa sanitaria, essendo i presidi per l’autocontrollo erogati gratuitamente dal SSN ai soggetti in possesso dell’esenzione dal ticket per diabete. La fornitura al paziente diabetico dei presidi sanitari necessari per l’autocontrollo (strisce reattive, lancette, glucometro) avviene sulla base di un ‘piano terapeutico’ compilato dal diabetologo curante. Tale piano ha valenza annuale, ma può avere una durata inferiore (come ad es nel diabete gestazionale), ed è inoltre modificabile in caso di cambiamenti temporanei dei fabbisogni.
La prescrizione dell’autocontrollo, affinché risulti efficace ed economicamente sostenibile, deve essere quanto più possibile personalizzata. La frequenza e il timing dei controlli (glicemia pre-prandiale, post-prandiale, prima di coricarsi, notturna) devono essere stabiliti su base individuale, tenendo conto del tipo di diabete, della terapia in atto, del grado di compenso glicemico ottenuto e auspicabile e dell’autonomia gestionale del paziente. Ogni Regione ha stabilito un limite massimo di presidi erogabili gratuitamente in base al quadro clinico. Le raccomandazioni AMD-SID 2012 sul fabbisogno mensile di strisce per l'automonitoraggio nelle diverse classi di pazienti sono riportate nella tabella 1.

 

Tabella 1
Raccomandazioni sull'uso e la periodicità di SMBG secondo il Documento di Consenso SID-AMD 2012

NB: Per tutte le classi è consigliato un numero illimitato di controlli in condizioni di squilibrio glicemico o in presenza di malattie intercorrenti, per un periodo limitato alla durata dell'evento
Classe. Tipologia paziente Quantità suggerita (strisce/mese)
1. Pazienti in terapia insulinica intensiva Tipo 1 in regime basal bolus: 150
Microinfusore, pregestazionale, in gravidanza, età < 18 anni: 250
Bambini < 6 anni: 300
Inizio trattamento insulinico: 200 per i primi 3 mesi
Tipo 2 in regime basal bolus e controllo stabile: 125
2. Pazienti in terapia insulinica non intensiva o in terapia combinata Ipoglicemizzante orale + 1 somm/die di insulina basale: 40
Pazienti con rischio elevato di ipoglicemia o conseguenze potenzialmente gravi dell'ipoglicemia (coronaropatia, vasculopatia cerebrale, retinopatia proliferante) e pazienti che svolgono professioni in cui le ipoglicemie li esporrebbero a un rischio potenzialmente grave (autisti, piloti, gruisti, lavoratori su impalcature): 75-100
Inizio terapia insulinica: 75-100 per i primi 3 mesi
3. Pazienti in terapia con ipoglicemizzanti orali secretagoghi In controllo glicemico stabile: 25-50
Pazienti con rischio elevato di ipoglicemia o conseguenze potenzialmente gravi dell'ipoglicemia (coronaropatia, vasculopatia cerebrale, retinopatia proliferante) e pazienti che svolgono professioni in cui le ipoglicemie li esporrebbero a un rischio potenzialmente grave (autisti, piloti, gruisti, lavoratori su impalcature): 50-75
Alla diagnosi e periodicamente, soprattutto quando viene modificata la terapia, in condizioni cliniche particolari: 75-100 per un periodo limitato di 3-6 mesi
4. Pazienti in terapia dietetica e/o con insulino-sensibilizzanti e/o incretine Controlli concentrati in brevi periodi di tempo, all'inizio della malattia e periodicamente: 25-50 strisce/trimestre
5. Pazienti con diabete gestazionale Terapia dietetica: 75
Terapia insulinica: 100-250 in relazione alla situazione clinica

 

Nel diabete tipo 1 durante periodi di scompenso glicemico (ad esempio durante malattie intercorrenti) e nel diabete in gravidanza si raccomanda anche l’automonitoraggio della chetonuria e/o della chetonemia, per la prevenzione e gestione della chetoacidosi (tabella 2). La determinazione della chetonemia è preferibile rispetto al monitoraggio della chetonuria, perché consente di individuare più precocemente sia l’insorgenza che la risoluzione della chetoacidosi. Alcuni glucometri in commercio (GlucoMen LX Plus di Menarini Diagnostics e Medisens Optium Xceed di Abbott Lab) permettono di misurare sia la glicemia capillare che la chetonemia, utilizzando strisce reattive di diverso tipo.

 

Tabella 2
Confronto tra misurazione della chetonemia e della chetonuria
  Chetone misurato Metodo Falsi + Falsi - Ritardo della positivizzazione (rispetto all'insorgenza della chetoacidosi)
Chetonemia ß-OH-butirrato Quantitativo no no no
Chetonuria Aceto-acetato Semi-quantitativo Farmaci sulfidrilici come acetil-cisteina e penicillamina Vitamina C, urine diluite 2-4 ore

 

Oltre che la periodicità dell’automonitoraggio, dovrebbe essere individualizzata anche la scelta del glucometro da prescrivere tra l’ampia gamma attualmente sul mercato, tenendo conto del profilo clinico e sociale del paziente (semplicità d’uso e di calibrazione dello strumento, limitazioni manuali, visive o cognitive del paziente, capacità di gestire e elaborare con supporti informatici i dati glicemici memorizzati dal glucometro e di sfruttare tutte le potenzialità dello strumento, come il suggerimento della dose insulinica da somministrarsi, condizioni cliniche e ambientali potenzialmente interferenti con la misurazione della glicemia).
Tra i vari glucometri in commercio si raccomanda l’uso di soli strumenti:

  1. plasma-calibrati, escludendo quindi quelli sangue-calibrati. La glicemia misurata su plasma (glicemia di laboratorio) è più alta del 10-15% rispetto alla glicemia misurata su sangue intero (capillare). I glucometri plasma-calibrati effettuano una correzione automatica fornendo una misurazione glicemica paragonabile a quella plasmatica;
  2. con prestazioni analitiche corrispondenti ai criteri qualitativi individuati dagli standard ISO (International Organization for Standardization). Gli standard del 2003 definiscono i requisiti minimi, mentre quelli del 2013 individuano i requisiti desiderabili in termini di accuratezza della misurazione glicemica (tabella 3).

 

Tabella 3
Gli standard di qualità dei glucometri
Standard di qualità Accuratezza Precisione Esattezza
ISO 15197/2003

± 15 mg/dL per glicemie < 75 mg/dL
± 20% per glicemie > 75 mg/dL
in almeno il 95% delle misurazioni

CV < 5% Bias < 5%
ISO 15197/2013

± 15 mg/dl per glicemie < 100 mg/dL
± 15% per glicemie > 100 mg/dL
in almeno il 95% delle misurazioni

CV < 5% Bias < 5%
Accuratezza = prossimità tra il valore glicemico rilevato e il valore glicemico reale
Precisione = riproducibilità della misurazione, espressa dal coefficiente di variazione
Esattezza = grado di scostamento medio dal valore ottenuto da molti strumenti sullo stesso materiale

 

Un recente studio ha messo a confronto 43 glucometri in possesso del marchio CE, concludendo che 9 strumenti non erano adeguatamente valutabili, mentre 7 dei restanti 34 non erano conformi agli standard ISO del 2003. È dunque sempre opportuno conoscere le caratteristiche del glucometro che si sta prescrivendo, indipendentemente dal possesso del marchio CE.
Un'altra problematica spesso non tenuta in adeguata considerazione nella prescrizione del glucometro e nell’interpretazione dei valori glicemici ottenuti con l’autocontrollo è quella degli errori di misurazione che possono essere classificati in pre-analitici e analitici:

  • gli errori pre-analitici sono legati a una scorretta manutenzione di glucometro e strisce o a errori nella tecnica di misurazione della glicemia (es uso di strisce scadute, errori di calibrazione del glucometro, inadeguata quantità del campione ematico prelevato, inadeguata igiene delle mani prima della puntura del polpastrello);
  • gli errori analitici sono legati all’uso del glucometro al di fuori degli idonei range di temperatura esterna, umidità dell’aria, altitudine ed ematocrito previsti per quello strumento. Ad esempio in caso di ematocrito elevato si verifica una sottostima del valore glicemico. In caso di grave riduzione della circolazione periferica (grave disidratazione, anche dovuta a chetoacidosi diabetica o sindrome iperosmolare diabetica, ipotensione arteriosa grave, shock, insufficienza cardiaca classe IV NYHA, arteriopatia periferica), si verifica una sottostima del valore glicemico capillare, per cui l'uso del glucometro è sconsigliato e va preferito il dato di laboratorio. Altri errori analitici possono essere legati ai fenomeni dell’interferenza biologica (l'enzima ossida una molecola diversa dal glucosio, sovrastimandone la concentrazione), elettrochimica (presenza nel sangue di molecole endogene o esogene elettro-attive, che producono una corrente aspecifica non correlata alla concentrazione di glucosio) e da concentrazione plasmatica di ossigeno, che variano a seconda del sistema enzimatico usato dal glucometro, come mostrato dalla tabella 4.
Tabella 4
Errori analitici dei glucometri elettrochimici: il fenomeno dell'interferenza
Interferenza Glucosio-ossidasi (GOx) Glucosio-deidrogenasi (GDH)
Biologica Icodestrina (polimero del glucosio presente nelle soluzioni per dialisi peritoneale)
Maltosio (presente nelle soluzioni per dialisi peritoneale e nei preparati immunoglobulinici umani)
Xilosio
Galattosio
no possibile
Da concentrazione plasmatica di O2 Ipossiemia
Anemia
Policitemia
Fumo
Soggiorno in altitudine
possibile no
Elettrochimica

Iperuricemia, ipertrigliceridemia, ipercolesterolemia, iperbilirubinemia, iperazotemia, acido ascorbico, paracetamolo, dopamina, efedrina, ibuprofene, salicilato, caffeina

possibile possibile

 

Le tabelle 5 e 6 riassumono le caratteristiche analitiche di alcuni dei più comuni glucometri in commercio in Italia.

 

Tabella 5
Principali caratteristiche di alcuni comuni glucometri
Glucometro Metodo Volume campione Tempo misurazione (sec) Range temperatura (°C) Range ematocrito (%) Range umidità (%) Altitudine (m) Interferenze Range di misurazione glicemica (mg/dL)
Glucocard Mx (Menarini) elettrochimico (FAD-GDH) 0.3 5 10-40 30-50 20-80 no Varie
No icodestrine e maltosio
10-600
Glucomen LX Plus (Menarini) elettrochimico (FAD-GOx) 0.3 4 5-45 25-60 10-90 3000 Varie 20-600
Onetouch Verio (Lifescan) elettrochimico (FAD-GDH) 0.4 5 6-44 20-60 10-90 3048 Varie 20-600
Contour next (Bayer) elettrochimico (FAD-GDH) 0.6 5 5-45 0-70 10-93 6301 Varie
No icodestrine, maltosio e galattosio
10-600
Free Style Optium Neo (Abbott)

elettrochimico
(FAD-GDH)

0.3 5 4-40 15-65 5-90 3045 Varie 20-500
BG Star (Sanofi-Aventis) elettrochimico (GOx) 0.5 6 10-40 20-60 < 90 3048 Varie 20-660
One Touch Vita  (Lifescan)

elettrochimico
(GOx)

0.5 5 10-40 30-55 10-90 3048 Varie 20-600
Evo (Bioseven) elettrochimico (GOx) 1 5 10-40 30-60 10-90 3048 Varie 10-600
Accuchek Mobile (Roche) fotometrico
(GDH)
0.3 5 10-40 25-55 15-85 4000 Varie
Luce diretta
Ceftriaxone
10-600
Accuchek Aviva (Roche) elettrochimico (GDH) 0.6 5 6-44 10-65 10-90 3094 Varie 10-600

 

 

Tabella 6
Accuratezza di alcuni glucometri di uso comune (sec norma ISO 2003)
Glucometro Accuratezza (%)
Glicemia < 75 mg/dL Glicemia > 75 mg/dL
± 5 mg/dL ± 10 mg/dL ± 15 mg/dL ± 5% ± 10% ± 15% ± 20%
Glucocard Mx 70 100 100 53 84 93 98
Glucomen Lx 80 100 100 51 78 91 97
One Touch Verio 58 100 100 65 93 99 99
Contour Next 89 100 100 80 99 100 100
Free Style Optium Neo 73 100 100 68 95 99 99
BG Star 97 100  -  91 98 99
One Touch Vita 56.1 89.4 98.5 38 72 89 98
Evo 80 100 100 56 76 92 98
AccuChek Mobile 53 92 100 80 96 99 100
AccuChek Aviva 78 100 100 62 88 98 99

 

 

Bibliografia

  1. Raccomandazioni SID-AMD per l’autocontrollo della glicemia nel paziente diabetico. 2013.
  2. Monitoring Glycemic Control – Clinical Practice Guidelines. Can J Diabetes 2013, 37 suppl 1: S35-9.
  3. Feckmann G, et al. System accuracy evaluation of 43 blood glucose monitoring systems for self-monitoring of blood glucose according to DIN EN ISO 15197. J Diabetes Sci Technol 2012, 6: 1060-75.
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Olga Eugenia Disoteo1 & Marianna Galetta2
1SSD Diabetologia, AO Ospedale Niguarda (MI), 2UOC Diabetologia e Malattie del Ricambio, San Benedetto del Tronto (AP)

 

I trapianti, solida realtà terapeutica in molti ambiti, incontrano le loro maggiori difficoltà proprio nel trattamento del diabete mellito. Le caratteristiche del pancreas, sia anatomiche che funzionali, lo rendono fisiologicamente un organo particolarmente delicato, che mal supporta le manipolazioni necessarie per il trapianto (espianto dal donatore cadavere, impianto nel ricevente, posizionamento in sede non fisiologica per quanto riguarda l’organo in toto, estrazione e infusione nel fegato o nel braccio per quanto riguarda le insule) e predispongono il ricevente a frequenti eventi avversi post-intervento (trombosi, emorragie, pancreatiti) (1). Inoltre, le terapie immuno-depressive hanno spesso effetti di per sé peggiorativi sul compenso glucidico, determinando ulteriore stress all’organo trapiantato e/o alle insule e possono favorire l’insorgenza di infezioni opportunistiche e forse anche di neoplasie. Di fatto, però, il trapianto di pancreas o di insule allo stato attuale costituisce l’unica terapia in grado di ristabilire una secrezione endogena di insulina, influenzando positivamente le complicanze e migliorando la qualità della vita (2).
In particolare, il trapianto combinato rene-pancreas (effettuato simultaneamente o in sequenza) consente una maggiore sopravvivenza del rene, del pancreas, del ricevente e della correlata insulino-indipendenza in quei pazienti che oltre a presentare insufficienza renale terminale (ESRD) presentano anche diabete. La sopravvivenza dei graft nel trapianto combinato simultaneo è dell’83% a 1 anno e del 33% a 15 anni, ma scende drasticamente (rispettivamente a 74% e 13%) quando effettuato sequenzialmente.
Il trapianto di pancreas isolato presenta una sopravvivenza del 78% a 1 anno e del 9% a 15 anni (3).
Il trapianto di insule allogeniche purtroppo non determina risultati altrettanto buoni: l’insulino-indipendenza a 5 anni è solo del 10% (4). I risultati sono fortemente influenzati dalle capacità ed esperienza dei centri che effettuano tali interventi, ma anche da caratteristiche di donatore e ricevente. Risultati analoghi a quelli ottenibili con il trapianto di insule sul controllo del compenso glicemico e nella riduzione degli eventi ipoglicemici si possono avere con l’impiego delle pompe integrate con sensori a seguito di un buon percorso educazionale del paziente (5).
Risultati migliori si ottengono con l’auto-trapianto di insule nel paziente non diabetico sottoposto a interventi di pancreasectomia per patologie della porzione esocrina: anche nei casi in cui la re-infusione di insule non sia sufficiente a determinare la completa insulino-indipendenza, il paziente ha minore necessità di insulina e riduce significativamente il rischio di incorrere in gravi episodi ipoglicemici (6).

Chi trapiantare e quale intervento scegliere
Nella sostanza la scelta di inviare un paziente al trapianto di pancreas o insule deve essere determinata dalla presenza di diabete di difficile compenso con eccessiva variabilità glicemica e/o frequenti episodi ipoglicemici, in particolare inavvertiti; la scelta dell’una o dell’altra opzione è determinata dalle condizioni cliniche del paziente (7): i pazienti più compromessi sono preferenzialmente avviati al trapianto di insule, caratterizzato da una procedura meno invasiva. Pazienti affetti da DM1 con ESRD devono essere valutati per un eventuale trapianto combinato rene-pancreas, così come soggetti con DM1 precedentemente sottoposti a trapianto di rene che presentano ancora instabilità del compenso e/o frequenti episodi ipoglicemici, nonostante un attento programma educazionale, devono essere proposti per trapianto di pancreas o insule successivo. In tutti i pazienti che vanno incontro a interventi di pancreasectomia deve essere sempre presa in considerazione l’opzione di effettuare l’autotrapianto di insule (8,9).

 

Bibliografia

  1. Takita M, Matsumoto S, Noguchi H, et al. Adverse events in clinical islet transplantation: one institutional experience. Cell Transplant 2012, 21: 547–51.
  2. White SA, Shaw JA, Sutherland DER. Pancreas transplantation. Lancet 2009, 373: 1808-17.
  3. Waki K, Kadowaki T. An analysis of long-term survival from the OPTN/UNOS Pancreas Transplant Registry. Clin Transpl 2007: 9-17.
  4. Ramesh A, Chhabra P, Brayman KL. Pancreatic islet transplantation in type 1 diabetes mellitus: an update on recent developments. Curr Diabetes Rev 2013, 9: 294-311.
  5. Vantyghem MC, Marcelli-Tourvieille S, Fermon C, et al. Intraperitoneal insulin infusion versus islet transplantation: comparative study in patients with type 1 diabetes. Transplantation 2009, 87: 66–71.
  6. Sutherland DE, Gruessner AC, Carlson AM, et al. Islet autotransplant outcomes after total pancreatectomy: a contrast to islet allograft outcomes. Transplantation 2008, 86: 1799-802.
  7. Maffi P, Scavini M, Socci C, et al. Risks and benefits of transplantation in the cure of type 1 diabetes: whole pancreas versus islet transplantation. A single center study. Rev Diab Stud 2011, 8: 44-50.
  8. Weiss AS, Smits G, Wiseman AC. Twelve-month pancreas graft function significantly influences survival following simultaneous pancreas-kidney transplantation. Clin J Am Soc Nephrol 2009, 4: 988-95.
  9. Johnson PRV, Jones KE. Pancreatic islet transplantation. Semin Pediatr Surg 2012, 21: 272-80.
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Carla Micaela Cuttica
SSD Endocrinologia, EO Ospedali Galliera, Genova

(aggiornato al 22 settembre 2021)

 

Con il termine chirurgia metabolica si definiscono le procedure di chirurgia bariatrica in grado di indurre non solo un calo di peso sostenuto, ma anche un significativo miglioramento dei fattori di rischio cardio-metabolici, incluso il diabete mellito tipo 2 (T2DM), e benefici in termini di sopravvivenza (1,2 cui si rimanda per dettagli sulle tipologie di intervento).
In una vasta metanalisi (3) pazienti con T2DM anche gravemente obesi (BMI medio 48 kg/m2) hanno presentato remissione (78%) o miglioramento (87%) del T2DM a 2 anni dalla chirurgia bariatrica, con relazione tra risoluzione del diabete, perdita di peso ottenuta e tipo di intervento effettuato (procedure malassorbitive più efficaci delle restrittive). Anche in pazienti obesi (BMI ≥ 35 kg/m2) con T2DM la terapia chirurgica ha prodotto un miglior controllo del diabete rispetto alla terapia medica sia convenzionale che intensiva (4-7). Anche in pazienti con T2DM obesi ma con BMI < 35 kg/m2 differenti tipologie di chirurgia bariatrica hanno ottenuto maggiore perdita di peso, miglioramento dei livelli di HbA1c e glicemia rispetto alla terapia non chirurgica (8-9).
Per quanto riguarda gli effetti della chirurgia bariatrica sulle complicanze del diabete, gli eventi micro- e macro-vascolari appaiono ridotti, anche se nel follow-up va posta particolare attenzione alla retinopatia diabetica in chi presenta alterazioni moderate già prima dell’intervento, per la possibilità di un peggioramento (10-17).
Ancora insufficienti sono i dati sulla durata dei benefici nel lungo termine, in quanto gli effetti positivi della chirurgia bariatrica sul T2DM tenderebbero a ridursi nel tempo (4,18-21). Alcuni autori hanno evidenziato che la remissione del T2DM dopo chirurgia bariatrica (comprendente bendaggio gastrico/ gastro-plastica verticale/ by-pass gastrico) diminuisce dal 72% a due anni al 38% e 30%, rispettivamente, dopo 10 e 15 anni dall’intervento, percentuali comunque migliori rispetto alla sola terapia medica (14). Un recente studio (21) ha confermato che, nonostante il calo di peso si mantenga sostenuto, il tasso di remissione del T2DM si riduce nel tempo: dopo LAGB 29% a un anno vs 19% a 5 anni, dopo RYGB 60% al primo anno vs 30% a 5 anni). Anche in un recente follow-up di 10 anni (22) è stata evidenziata una ripresa del T2DM a 10 anni nel 58.8% dei soggetti risultati in remissione a due anni dalla chirurgia bariatrica, sottolineando però la minor insorgenza di complicanze diabetiche in confronto ai non operati. È quindi necessario monitorare periodicamente il controllo glicemico nei pazienti operati.
Acquista sempre più importanza la selezione dei pazienti con T2DM cui proporre la chirurgia bariatrica: fattori predittivi per la remissione del T2DM dopo chirurgia bariatrica sono età più giovane, diabete di breve durata (< 8 anni), miglior controllo glicemico, miglior funzione ß-cellulare, mentre non è stata osservata correlazione col BMI pre-intervento (tranne che per le popolazioni asiatiche), né differenze di genere; viene comunque sottolineata la necessità di studi dedicati randomizzati ad hoc (7, 23-25). Sono in corso di studio modelli predittivi e studi genetici che possano aiutare nella selezione ottimale dei pazienti (26,27).
I meccanismi attraverso cui il diabete migliora dopo chirurgia bariatrica non sono ancora del tutto conosciuti: numerosi studi hanno indagato i cambiamenti ormonali post-intervento, con risultati spesso diversi, legati probabilmente ai tipi di procedure chirurgiche e alla popolazione studiata. Il calo ponderale migliora il metabolismo glucidico grazie anche al miglioramento dell’insulino-sensibilità, sia epatica che periferica. La glicemia però migliora già nei primi giorni dopo l’intervento, dimostrando che entrano in gioco anche fattori indipendenti dal calo ponderale, quali variazioni anatomiche del transito dei nutrienti, con conseguenti modificazioni nella secrezione di ormoni gastro-intestinali, adipochine, citochine, acidi biliari, microbioma intestinale, che vanno ad agire sulla regolazione del glucosio con peso diverso a seconda del tipo di intervento (20,28-30). Una volta esclusa l’interferenza della dieta ipocalorica, sembra che gli effetti incretinici siano simili dopo sleeve gastrectomy e by-pass gastrico (31), anche se il by-pass determina un miglioramento più marcato della funzione ß-cellulare (32).
Linee guida endocrinologiche/diabetologiche (33-36), dell’assistenza sanitaria di base (37) e chirurgiche (38) riconoscono la chirurgia bariatrica (pur senza raccomandazioni specifiche per il tipo di intervento, che va valutato caso per caso) come opzione nel trattamento del T2DM in pazienti adulti (18-60/65 anni) con BMI ≥ 30-35 kg/m2, quando le modificazioni dello stile di vita e la terapia medica siano risultate inefficaci. Non ci sono al momento indicazioni per raccomandare la chirurgia bariatrica nel T2DM in assenza di obesità (BMI < 30 kg/m2) o nel diabete mellito tipo 1. Alcuni studi hanno valutato gli effetti della chirurgia bariatrica in diabetici di tipo 1 obesi (39,40), evidenziando un miglioramento nel compenso glicemico con riduzione delle dosi di insulina, ma sottolineando anche il potenziale rischio di complicanze ipoglicemiche e chetoacidosi, con la necessità quindi di RCT ad hoc.
In tutte le Linee Guida e negli Standard Italiani viene sottolineata l'importanza della valutazione pre-operatoria, con l'attenta selezione del paziente da parte di un team multi-disciplinare che comprenda endocrinologo, dietista, psicologo, chirurgo dedicato, ecc. In particolare, devono essere escluse cause di diabete secondario ad altre endocrinopatie o la presenza di altre patologie endocrine associate (41).
Il controllo glicemico va ottimizzato prima dell'intervento con provvedimenti dietetici/ attività fisica/ terapia farmacologica: un miglior controllo glicemico pre-operatorio è associato ad aumentato tasso di remissione del diabete post-intervento e a minor rischio di complicanze peri- e post-operatorie.
Nel peri-operatorio si suggerisce il passaggio a insulino-terapia (con obiettivi glicemici compresi fra 140 e 180 mg/dL). Nel post-intervento la terapia anti-diabetica va adeguata in base all'introito calorico, ai livelli glicemici e alla necessità di evitare le ipoglicemie; viene consigliato di sospendere gli insulino-secretagoghi e di adeguare le dosi di insulina; salvo controindicazioni, possono essere utilizzate metformina, incretine (42).
Le tecniche chirurgiche sempre più avanzate e con metodiche laparoscopiche hanno permesso di ridurre, ma non azzerare, la mortalità e la morbilità correlate agli interventi; il paziente deve essere informato dei rischi e dei benefici rispetto alla terapia medica convenzionale e che dovrà proseguire il follow-up  nutrizionale e il monitoraggio medico per tutta la vita con modalità diverse in relazione al tipo di intervento effettuato, per evitare nel lungo termine di incorrere in malnutrizione, deficit vitaminici e minerali, osteoporosi-osteomalacia e raramente ipoglicemia da ipersecrezione insulinica (2,4-8,37,42-44). La possibile ricomparsa del T2DM nel tempo è la dimostrazione di come la chirurgia bariatrica non possa al momento essere considerata l’unica risposta definitiva alla duplice epidemia di obesità e diabete, considerando anche i possibili effetti collaterali segnalati in letteratura (malnutrizione, suicidi, alcolismo) (20). Utili sono i gruppi di supporto, che facilitano la presa di coscienza e l'auto-gestione del paziente, stimolando la condivisione dei problemi, l'auto-stima e la socializzazione (45). Si attendono appositi studi ben disegnati, di confronto con modifiche degli stili di vita e terapia medica ottimale per valutare rischi, benefici a lungo-termine e rapporto costo-beneficio (46,47) della chirurgia bariatrica nei soggetti con T2DM.

 

Bibliografia

  1. Syn NL, Cummings DE, Wang LZ, et al. Association of metabolic-bariatric surgery with long-term survival in adults with and without diabetes: a one-stage meta-analysis of matched cohort and prospective controlled studies with 174772 partecipants. Lancet 2021, 397: 1830-41.
  2. Marinari GM. Gli interventi di chirurgia bariatrica. Endowiki.
  3. Buchwald H, Estok R, Fahrbach K, et al. Weight and type 2 diabetes after bariatric surgery: systematic review and meta-analysis. Am J Med 2009, 122: 248-56.
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Matteo Bonomo
SSD Diabetologia - Centro Multidisciplinare Diabete e Gravidanza, ASST “Grande Ospedale Metropolitano Niguarda”, Milano

(aggiornato al 28 giugno 2021)

 

Secondo l’International Diabetes Federation, oggi 1 gravidanza su 6 (16.8%) è complicata da diabete mellito, nelle sue varie forme (1). Dai dati attualmente disponibili, in Italia la prevalenza pare non essere così elevata, ma è comunque > 10% (2). C’è stato un sensibile aumento di frequenza negli ultimi anni, per diverse cause: da un lato sono cambiati i criteri diagnostici della sua forma più diffusa, il Diabete Gestazionale (GDM), e oggi vengono classificate come diabete anche situazioni che in passato erano considerate alterazioni minori (3); per altro, il diabete sta diventando più frequente nella popolazione generale anche in gioventù, quindi anche nelle donne in età fertile (4).
Il GDM è di gran lunga la forma più diffusa, rappresentando quasi il 90% di tutti i casi di diabete in gravidanza; classicamente era definito come “intolleranza al glucosio di entità variabile, che inizia o viene diagnosticata per la prima volta in gravidanza” (5). In questa concezione rientravano, però, anche quelle forme di diabete pre-esistente al concepimento, che venivano identificate per la prima volta in gravidanza. Questa constatazione, insieme al notevole incremento della prevalenza di diabete in età fertile, prevalentemente di tipo 2 e spesso asintomatico, ha portato a una riformulazione complessiva della classificazione nosografica del Diabete in Gravidanza (6), con l’individuazione di tre categorie principali:

  1. diabete pre-gestazionale: diabete mellito tipo 1 o tipo 2, già noto prima del concepimento;
  2. diabete manifesto in gravidanza (o overt diabetes): diabete mellito pre-esistente al concepimento, ma misconosciuto e diagnosticato a gravidanza iniziata;
  3. diabete gestazionale: diabete che compare durante la gestazione (quindi distinto dal diabete manifesto in gravidanza), causato da difetti funzionali analoghi a quelli del diabete tipo 2, diagnosticato per la prima volta in gravidanza, che in genere regredisce dopo il parto, per poi ripresentarsi, spesso a distanza, preferenzialmente con le caratteristiche del diabete tipo 2.

Il problema della diagnosi dell’iperglicemia in gravidanza non si pone, ovviamente, per il diabete pre-gestazionale che è, per definizione, già noto prima del concepimento. Riguarda invece le altre due forme cliniche, la cui diagnosi avviene nel corso della gestazione.

 

Screening e diagnosi di diabete manifesto in gravidanza
Lo screening e l’eventuale diagnosi di diabete manifesto devono essere effettuati alla prima visita in gravidanza, con la misurazione della glicemia plasmatica e dell’emoglobina glicata. I criteri diagnostici sono gli stessi utilizzati al di fuori della gravidanza:

  • glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dL (≥ 7.0 mmol/L);
  • glicemia random ≥ 200 mg/dL (≥ 11.1 mmol/L), in presenza di sintomatologia tipica;
  • HbA1c ≥ 48 mmol/mol (≥ 6.5%).

I risultati devono essere riconfermati in una successiva occasione.

 

Bibliografia

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Amelia Caretto
Dipartimento di Medicina Interna a indirizzo endocrino-metabolico, Diabetes Research Institute, IRCCS San Raffaele, Milano

(aggiornato all'11 settembre 2019. NB: qui non viene trattato il diabete gestazionale per cui si rimanda all'apposito capitolo)

 

Il diabete tipo 1 (DMT1) o di tipo 2 (DMT2), pre-esistenti alla gravidanza, aumentano il rischio di complicanze materno-fetali (tabella 1). Negli Stati Uniti si stima che il diabete pre-gestazionale (DPG) complichi circa lo 0.9% delle gravidanze (1), mentre in Europa la proporzione stimata è dello 0.3-0.5% (2). Queste stime sono destinate ad aumentare, in considerazione dell’aumento della prevalenza di diabete, soprattutto DMT2, nelle donne in età fertile.
Una recente revisione di Alexopoulos e colleghi (3) analizza i rischi e le raccomandazioni per la gestione del DPG in gravidanza, basandosi su articoli in inglese presenti in Pubmed pubblicati tra il 1/1/2000 e il 31/1/2019.

 

Tabella 1
Odds ratio per complicanze materne, fetali e neonatali
nelle gravidanze di donne con diabete pre-gestazionale
(gruppo di riferimento donne senza diabete) (3)
Esiti OR (IC 95%)
Materni
Pre-eclampsia 3.48 (3.01-4.02)
Parto cesareo 3.52 (2.91-4.25)
Fetali e neonatali
Malformazioni congenite non cardiache 2.34 (1.44-3.81)
Malformazioni congenite cardiache 4.64 (2.87-7.51)
Nascita pre-termine (< 37 settimane gestazionali) 3.48 (3.06-3.96)
Nati-mortalità 3.52 (3.19-3.88)
Macrosomia (peso alla nascita > 4 kg) 1.91 (1.74-2.10)
Ipoglicemia neonatale 26.6 (15.37-46.11)
Distress respiratorio 2.09 (1.55-2.83)
Ittero 2.82 (1.60-5.00)
Mortalità perinatale 3.39 (3.02-3.81)

 

 


FASE PRE-CONCEZIONALE

Counseling pre-concezionale e obiettivi glicemici
Un’adeguata pianificazione della gravidanza è fondamentale per ridurre il rischio di malformazioni, in quanto l’organogenesi avviene nelle prime fasi di gestazione. Purtroppo a tutt’oggi meno del 50% delle donne con DPG programma la gravidanza. A tutte le donne diabetiche in età fertile deve essere offerto counseling pre-concezionale, da ripetere in ogni occasione utile, informandole del rischio di malformazioni congenite associato alle gravidanze che iniziano con un controllo glicemico non adeguato e dell’importanza di una contraccezione efficace se non si desidera una gravidanza o non si è nelle condizioni ideali per il concepimento. La sospensione della contraccezione dovrebbe essere concordata con il curante dopo aver ottimizzato il compenso glicemico e iniziato una supplementazione di acido folico. L’American Diabetes Association (4) raccomanda il raggiungimento di HbA1c < 6.5% al concepimento e < 6% durante la gravidanza, evitando il più possibile le ipoglicemie. Le donne con DPG dovrebbero essere indirizzate, possibilmente prima del concepimento, a un centro di riferimento per il diabete in gravidanza, così da essere informate delle possibili complicanze e della necessità di intensificare la sorveglianza fetale durante la gravidanza.

 

Peso e nutrizione
L’obesità è un fattore di rischio indipendente dall’iperglicemia per malformazioni congenite, in particolare cardiache, e si associa spesso ad altre comorbilità che possono influire sugli esiti della gravidanza, come ipertensione, dislipidemie e sleep apnea (OSAS). Le donne in sovrappeso o obese devono essere seguite da un nutrizionista per impostare un regime nutrizionale equilibrato, che miri alla perdita del 5-10% del peso corporeo prima del concepimento.
È necessario impostare un’integrazione di almeno 400 µg/die di acido folico, partendo almeno un mese prima del concepimento, per ridurre il rischio di anomalie congenite del sistema nervoso centrale (spina bifida). Il dosaggio ottimale di acido folico è ancora dibattuto: secondo alcune linee guida, la dose ideale nelle donne a elevato rischio malformativo, come quelle con DPG, è di 5 mg/die (5).

 

Tabella 2
Cosa fare prima del concepimento nelle donne con diabete pre-gestazionale
Provvedimenti diagnostici
Test di laboratorio HbA1c.
Rapporto albuminuria/creatininuria o proteinuria/creatininuria.
TSH.
Valutazioni cliniche Proporre contraccezione.
Escludere OSAS in donne obese.
Esame del fondo oculare.
Visita cardiologica (se fattori di rischio per coronaropatia).
Provvedimenti terapeutici
Interventi non farmacologici Ottimizzare lo stile di vita e normalizzare il peso.
Impostare un regime dietetico controllato.
Interventi farmacologici Ottimizzare il compenso glicemico (HbA1c < 6.5%).
Iniziare la terapia insulinica nelle donne con DMT2.
Sospendere gli ipoglicemizzanti orali §.
Iniziare supplementazione vitaminica (in particolare acido folico).
Sospendere statine, sostituire ACE-inibitori e sartani.
§ La metformina può essere proseguita sino al concepimento, poi ne andrà valutato l'utilizzo

 

 

Complicanze del diabete
È opportuno eseguire uno screening per le complicanze del diabete durante la programmazione di gravidanza (tabella 2). Nello specifico sono consigliati:

  • visita oculistica con esame del fondo dell’occhio: in caso di retinopatia pre-proliferante può essere opportuno un trattamento di foto-coagulazione laser, poiché la retinopatia diabetica può peggiorare in gravidanza, anche per l’eventuale rapido miglioramento del compenso glicemico che si cerca di ottenere in queste pazienti. La presenza di una retinopatia background determina invece soltanto la necessità di periodici controlli del fundus nei tre trimestri;
  • rapporto albumina/creatinina urinarie (ACR): utilizzato per documentare un’eventuale nefropatia diabetica, in alternativa o in associazione con il rapporto proteine/creatinina sulle urine delle 24 ore (PCR), che rimane il gold standard a gravidanza iniziata. Nelle donne con nefropatia aumenta l’incidenza di pre-eclampsia, parto pre-termine e neonati piccoli per età gestazionale. Il rischio di peggioramento della funzionalità renale con la gravidanza è basso se la nefropatia è moderata (filtrato glomerulare > 60 mL/min/1.73 m2), ma è elevato se la nefropatia è avanzata (con compromissione del filtrato glomerulare), soprattutto se sono presenti proteinuria e ipertensione arteriosa. Alle donne con insufficienza renale terminale viene in genere consigliato di intraprendere la gravidanza solo dopo il trapianto renale e non durante la dialisi. Le donne con nefropatia diabetica moderata o più grave devono essere valutate insieme allo specialista nefrologo in fase di programmazione e durante la gravidanza;
  • monitoraggio dei valori di pressione arteriosa: va eseguito nelle donne con diabete e ipertensione cronica già diagnosticata o sospetta, mantenendo come obiettivo ottimale valori di 120/80 mm Hg. Se sono presenti altri fattori di rischio (età avanzata, familiarità, fumo, patologie renali), andrebbe esclusa anche un’eventuale patologia coronarica con ECG e/o ecocardiogramma sotto sforzo. I farmaci anti-ipertensivi con possibile effetto teratogeno (ACE-inibitori e sartani) vanno sospesi prima della gravidanza a favore di farmaci sicuri, come labetalolo, nifedipina, clonidina, alfa-metilDOPA. Anche le statine andrebbero sospese prima del concepimento, perché non è noto il loro effetto sul prodotto del concepimento. Nelle donne ad alto rischio di pre-eclampsia, come le donne con DPG, viene consigliato l’uso di aspirina a basso dosaggio prima della 16° settimana gestazionale, sebbene vi sia ancora controversia sul dosaggio ottimale e sul suo utilizzo routinario (4);
  • dosaggio dei livelli di TSH: permette di individuare i casi di tireopatia cronica e di instaurare prontamente, se necessario, una terapia ormonale sostitutiva con L-tiroxina.

 


DURANTE LA GRAVIDANZA

Monitoraggio glicemico
In gravidanza è consigliato un monitoraggio glicemico capillare intensivo con 6-7 misurazioni al giorno, prima e dopo i pasti (1 o 2 ore dall’inizio del pasto) e prima di dormire. Gli obiettivi sono glicemie capillari < 95 mg/dL a digiuno, < 140 mg/dL a 1 ora dal pasto e < 120 mg/dL a 2 ore dal pasto.
Il monitoraggio continuo del glucosio interstiziale (CGM) può essere d’ausilio durante la gravidanza, con un effetto potenzialmente positivo sul compenso glicemico e sugli esiti neonatali. Il recente studio clinico CONCEPTT (6) ha randomizzato 215 donne con DMT1 all’uso del CGM o del monitoraggio capillare tradizionale. Il gruppo di intervento ha riportato una maggiore riduzione del valore di HbA1c a 34 settimane gestazionali rispetto al valore all’arruolamento (differenza media −0.19%, IC95% −0.34 a −0.03, p = 0.021). Inoltre il tempo trascorso all’interno dell’intervallo glicemico raccomandato (63-140 mg/dL) era maggiore nelle donne che hanno utilizzato il CGM, che avevano anche una minor incidenza di macrosomia, ipoglicemia neonatale e ricoveri > 24 h in terapia intensiva neonatale.

 

Fabbisogno insulinico e regime alimentare
Il fabbisogno insulinico in gravidanza varia di settimana in settimana. Nelle prime settimane gestazionali la sensibilità insulinica aumenta, con conseguente aumento del rischio di ipoglicemia. In questa fase le donne e i loro partner dovrebbero essere educati all’utilizzo del glucagone in caso di ipoglicemia grave. Con il progredire delle settimane gestazionali aumenta l’insulino-resistenza e di conseguenza il fabbisogno insulinico. Nelle donne con DMT1 l’aumento dell’insulino-resistenza comporta un maggior rischio di chetoacidosi diabetica, anche per valori di glicemia vicini alla normalità, dovuto anche ad altre modifiche indotte dalla gravidanza, come l’aumento della lipolisi, la nausea e il vomito indotti dagli alti livelli di gonadotropina umana corionica. Per questo tutte le donne gravide diabetiche dovrebbero essere istruite a misurare i livelli di chetoni su sangue e urine. Le visite diabetologiche dovrebbero avvenire con cadenza bisettimanale, o più ravvicinate in caso di necessità, con controlli anche settimanali del diario glicemico.
Il regime alimentare di una donna con DPG in gravidanza deve mirare da un lato a un adeguato incremento ponderale in gravidanza, così da ridurre i rischi perinatali, e dall’altro a garantire un giusto introito di carboidrati (175 g/die), così da evitare uno stato di digiuno e chetosi e consentire un normale accrescimento del feto. Secondo le linee guida dell’Institute of Medicine (7) l’incremento ponderale gravidico adeguato varia a seconda del BMI di partenza della donna:

  • sottopeso (BMI < 18.5): 12.5-18 kg;
  • normopeso (BMI 18.5-24.9): 11.5-16 kg;
  • sovrappeso (BMI 25-29.9): 7-11 kg;
  • obese (BMI ≥ 30): 5-9 kg.

Durante la gravidanza è importante che la donna assuma ogni giorno, con la dieta e/o con un integratore multi-vitaminico, circa 1 g di calcio e 600 UI di vitamina D, così da garantire un adeguato sviluppo osseo del neonato.

 

Terapia insulinica
La terapia insulinica è il pilastro della terapia farmacologica delle donne con DPG in gravidanza, perché efficace e sicura, in quanto non attraversa la placenta. Tra gli analoghi insulinici, sono approvati per l’uso in gravidanza gli analoghi rapidi lispro, aspart e fast acting aspart e l’analogo lento detemir. Viene comunemente utilizzato l’analogo lento glargine, dati i numerosi report di sicurezza in gravidanza, mentre non sono ancora approvate da EMA per l’uso in gravidanza la glulisina e la degludec.
La terapia insulinica può essere impostata utilizzando uno schema basal-bolus (MDI) o tramite microinfusore insulinico (CSII). Sebbene quest’ultimo sembri offrire vantaggi in termini di flessibilità, non ci sono sufficienti evidenze per raccomandare una modalità rispetto all’altra. Se si opta per la terapia con CSII, è consigliato iniziarla prima del concepimento, per dare alla donna il tempo necessario per apprendere e gestire al meglio la nuova modalità di terapia.
I sistemi ad ansa chiusa, che integrano CSII e CGM, sono un valido strumento terapeutico durante la gravidanza, soprattutto per limitare la frequenza delle ipoglicemie notturne. Sistemi commercialmente disponibili (quali il Minimed 670G e il Basal IQ, quest’ultimo non disponibile per ora in Italia) utilizzano algoritmi i cui obiettivi glicemici sono più alti di quelli raccomandati in gravidanza: poichè non sono modificabili, questi sistemi non possono essere utilizzati in gravidanza.

 

Altri ipoglicemizzanti
Gli ipoglicemizzanti orali non sono raccomandati
nelle donne con DPG, per mancanza di efficacia e di dati sulla sicurezza.
L’uso della metformina in gravidanza è ancora molto controverso, dato che attraversa la placenta. In letteratura sono presenti dati su donne con diabete, obesità e ovaio policistico che concepiscono in corso di terapia con metformina, ma pochi sono gli studi clinici randomizzati. Questo farmaco sembra associato a un minor aumento ponderale in gravidanza, ma potrebbe avere effetti a lungo termine sui neonati, come l’aumento del BMI e del grasso sotto-cutaneo, come emerge da dati raccolti rispettivamente a 4 e a 9 anni dalla nascita. Al momento è in corso uno studio clinico randomizzato (MiTy Trial, 8) per indagare gli effetti perinatali e neonatali dell’uso di metformina in aggiunta all’insulina nelle donne con DMT2.
Anche le sulfaniluree attraversano la placenta e al contrario della metformina sembrano promuovere un aumento ponderale materno durante la gravidanza e aumentare il rischio di ipoglicemia.
I nuovi agenti euglicemizzanti (inibitori di DPP-4, agonisti GLP-1 e inibitori di SGLT-2) non sono stati ancora studiati in gravidanza e pertanto dovrebbero essere idealmente sospesi almeno 3 mesi prima del concepimento o al momento in cui la donna scopre di essere in gravidanza, nel caso questa non sia stata programmata.

 

Monitoraggio fetale e parto
Le donne con DPG devono essere strettamente seguite durante la gravidanza dal punto di vista ostetrico, anche se le tempistiche dei controlli non sono univocamente stabilite (9). Sono raccomandate un’ecografia al primo trimestre, un’ecografia pre-morfologica e morfologica a 16-20 settimane e un’ecocardiografia fetale a 24 settimane gestazionali (in particolare in presenza di scompenso glicemico, da ripetere eventualmente alla 35-36° settimana in caso di problemi), oltre che le ecografie per monitorare la crescita fetale durante il secondo e il terzo trimestre (tabella 3). In aggiunta al conteggio dei movimenti fetali, viene raccomandato il monitoraggio cardio-tocografico, da iniziare a 32 settimane gestazionali, dapprima una volta alla settimana fino alla 34° settimana e poi due volte a settimana fino al parto.
L’American College of Obstetrician and Gynecologist (9) raccomanda il parto tra 39 settimane e 39 settimane e 6 giorni nei casi in cui non siano presenti complicanze vascolari o scompenso glicemico, mentre consiglia il parto tra 36 settimane e 38 settimane e 6 giorni nei casi di donne con complicanze vascolari o compenso glicemico non ottimale. Durante il travaglio e il parto le glicemie vengono solitamente gestite in base a protocolli interni ai diversi istituti ospedalieri, che prevedono per lo più l’utilizzo dell’insulina endovena e il frequente monitoraggio della glicemia capillare.

 


PERIODO POST-PARTUM

Dopo il parto, con l’espulsione della placenta, le donne diventano immediatamente più insulino-sensibili ed è necessario ridurre subito la terapia insulinica del 50% rispetto ai dosaggi in atto al termine della gravidanza (tabella 3). Un aiuto nella decisione degli esatti dosaggi post-partum può venire dai profili glicemici e dall’introito previsto di carboidrati con la dieta.
Anche nelle donne con DPG l’allattamento al seno ha plurimi vantaggi: facilita la perdita di peso, favorisce il legame mamma-bambino, riduce il rischio futuro di obesità del neonato. L’allattamento al seno, però, aumenta il rischio di ipoglicemia materna, pertanto è necessario porre attenzione alla riduzione delle dosi di insulina e all’assunzione di spuntini prima dell’allattamento. Nelle donne con DPG, non obese, che allattano si raccomanda un aumento dell’introito calorico di 500 kcal/die rispetto al fabbisogno pre-gravidico.
È necessario informare la donna, soprattutto se non allatta al seno in maniera esclusiva, che l’ovulazione potrebbe riprendere rapidamente dopo il parto e pertanto consigliarle un contraccettivo efficace se non desidera una nuova gravidanza a breve termine.

 

Tabella 3
Gestione del diabete pre-gestazionale durante la gravidanza e nel post-partum
  Gravidanza Post-partum
Monitoraggio clinico e strumentale Monitoraggio capillare intensivo con o senza CGM.
Esame del fondo oculare trimestrale.
Controllo di HbA1c ogni 4-6 settimane.
 
Monitoraggio fetale Ecografia morfologica.
Ecocardiografia fetale.
Valutazione ecografica della crescita.
Monitoraggio cardio-tocografico fetale.
 
Interventi non farmacologici   Supporto all’allattamento.
Valutazione nutrizionale.
Interventi farmacologici Iniziare/titolare la terapia insulinica.
Prescrivere aspirina a bassa dose in casi specifici.
Valutare l’uso di insulina ev durante il parto.
Dimezzare la terapia insulinica subito dopo il parto.
Valutare la sospensione della terapia insulinica nelle donne con DMT2 §.
Valutare la contraccezione.
§ La metformina è un farmaco sicuro durante l’allattamento.

 

 


CONCLUSIONI

Il DPG in gravidanza comporta aumentati rischi materni, fetali e neonatali e pertanto richiede una gestione complessa e multi-disciplinare, che andrebbe svolta da un team di esperti, che includa endocrinologi, ginecologi e nutrizionisti. La programmazione della gravidanza è il punto di partenza per una migliore gestione del diabete durante la gravidanza e per ridurre il rischio di malformazioni ed esiti sfavorevoli materni e fetali. Per riuscire ad aumentare il numero di donne con DPG che programmano la gravidanza, è necessario un counseling per tutte le donne con DPG in età fertile a ogni occasione utile da parte del team diabetologico, che deve essere adeguatamente formato a questo scopo. Inoltre fondamentale è l’aspetto della contraccezione ormonale, che da linee guida può essere prescritta alla stragrande maggioranza delle donne con DPG (10).

 

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  9. The American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG). ACOG Practice Bulletin No. 201: Pregestational Diabetes Mellitus. Obstet Gynecol 2018, 132: e228-48.
  10. World Health Organization. Medical eligibility criteria for contraceptive use. 5th ed. WHO 2015.
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Simonetta Bellone, Silvia Savastio, Flavia Prodam
Clinica Pediatrica, Dipartimento di Scienze della Salute, Università del Piemonte Orientale, Novara

 

La terapia insulinica ha come scopo primario quello di sostituirne la produzione endogena, cercando di mimare il più possibile la secrezione fisiologica.

 

Obiettivi di glicemia plasmatica e di HbA1c per fasce di età nel diabete tipo 1
Valori per età Glicemia (mg/dL) HbA1c % (mM/L) Razionale
Pre-prandiale Post-prandiale Bedtime/notte
Lattante/età prescolare (< 6 anni) 100-180 140-200 110-200 6.5(48)-8.5(69) Elevato rischio di vulnerabilità all’ipoglicemia
Età scolare (6-12 anni) 90-180 130-180 100-180 < 7.5 (58) Rischio di ipoglicemia e rischio relativamente basso di complicanze prima della pubertà
Adolescenti e giovani adulti (13‑19 anni) 90-130 120-160 90-150 < 7.5 (58) Rischio grave di ipoglicemia
Problemi psicologici e inerenti allo sviluppo
Un obiettivo più basso è ragionevolmente proponibile se può essere raggiunto senza eccessivi episodi ipoglicemici

 

La terapia di prima scelta in età pediatrica è quella di tipo intensivo e segue il modello basal-bolus. Infatti, i lavori in letteratura e in particolare i risultati del Diabetes Control and Complication Trial (1,2) hanno dimostrato che la terapia insulinica intensiva è significativamente superiore a quella convenzionale nel prevenire le complicanze micro e macro-vascolari nel medio e lungo periodo. Inoltre, questo schema terapeutico mira a ottimizzare la terapia, riducendo la variabilità glicemica e permettendo al paziente una migliore qualità di vita. Lo schema basal-bolus comprende la somministrazione di boli di insulina ad azione rapida al momento dei tre pasti principali e di un bolo di insulina a lunga durata d’azione 1 o 2 volte al giorno. L’inizio precoce di tale schema dall’esordio della malattia si è dimostrato in grado di rallentare maggiormente la perdita della funzione ß-cellulare, determinando così un miglioramento del compenso glicemico globale e una riduzione delle complicanze a lungo termine.

Le insuline che abbiamo a disposizione per la terapia comprendono insuline umane e analoghi di quella umana e sostanzialmente si dividono in quattro tipologie:

  • insulina regolare: inizio azione dopo 30 minuti e picco a 2 ore;
  • insulina analogo rapido: azione dopo 10-15 minuti e picco dopo 45 minuti;
  • insulina analogo lento: durano variabilmente circa 18-24 ore;
  • insulina protaminata o NPH: garantisce una copertura basale di circa 12 ore.

La disponibilità degli analoghi rapidi dell’insulina ha consentito una maggiore maneggevolezza della terapia e un miglioramento nella cura del diabete, ma il reale beneficio in termini di compenso glicemico non è ancora stato chiarito ed è tuttora fonte di dibattito (3,4). Le insuline analogo lente hanno invece ridotto la variabilità di assorbimento rispetto all’insulina protaminata e presentano un più lunga durata d’azione con un profilo più piatto, determinando soprattutto una riduzione dei fenomeni ipoglicemici (5). Sono attualmente molto utilizzate nei bambini.
Mediamente il fabbisogno insulinico è di 0.6–0.8 U/kg/die, suddiviso in 50% di insulina basale e 50% di insulina ai pasti. La via di somministrazione è sottocutanea, nelle sedi classiche: parete addominale, cosce, glutei, braccia.
Sono possibili diversi schemi terapeutici combinando le diverse insuline. La scelta dello schema dipende dall’età e dalle caratteristiche del paziente, dalla durata della malattia, dallo stile di vita (abitudini alimentari, scuola, sport, …) e dall’esperienza del centro. Per prima cosa bisogna tenere conto delle diverse esigenze del piccolo paziente suddivise per fasce d’età: dall’età neonatale fino ai 2 anni, la fascia pre-scolare, la fascia scolare e l’adolescenza (6).
A seconda dell’età, il fabbisogno insulinico può variare durante le 24 ore. Inoltre, la terapia deve adeguarsi alle esigenze differenti dovute alla crescita del bambino e al differente stile di vita (7). A differenza del soggetto adulto, il bambino assume quasi sempre lo spuntino di metà mattina o pomeriggio, che deve essere tenuto in considerazione con soluzioni differenti, quali l’aggiunta della somministrazione di un piccolo quantitativo di insulina rapida, oppure l’utilizzo di insuline premiscelate con durata d’azione più protratta (7).
La riuscita della terapia comprende la corretta somministrazione dell’insulina: è importante istruire sulla tecnica e la sede di iniezione e verificare alle visite di follow-up l’eventuale presenza di lipodistrofia che può inficiare il funzionamento della terapia (7). Deve inoltre essere rispettato il tempo in cui l’insulina comincia ad agire prima di effettuare il pasto: con le insuline umane bisogna attendere 30 minuti, mentre con le insuline analogo ultrarapide si devono attendere 5-10 minuti. Quando la glicemia pre-pasto è elevata, si consiglia di aumentare il tempo di attesa tra la somministrazione della terapia e l’inizio del pasto. La quantità di insulina rapida da somministrare ai pasti deve essere calcolata anche in rapporto al valore di glicemia misurato prima del pasto. Si inserisce quindi il concetto dell’automonitoraggio glicemico che fa parte integrante della terapia insulinica. L’autocontrollo glicemico permette di rilevare in modo accurato e preciso le glicemie giornaliere, di limitare gli effetti negativi dell’ipo e iperglicemia sulle funzioni cognitive e di determinare la dose di insulina più appropriata (8,9). Il controllo della glicemia capillare effettuato con un glucometro portatile permette l’adeguamento della dose di insulina prima di ogni pasto e in caso di attività sportiva e permette di evidenziare gli episodi di ipoglicemia. È stato dimostrato che un miglior controllo metabolico correla con l’effettuazione di almeno 4 o più controlli giornalieri di glicemia (9,10). Le glicemie possono essere misurate in differenti occasioni e per diversi scopi: prima dei pasti per determinare il dosaggio dell’insulina, 2 ore dopo il pasto per determinare se la dose di insulina è stata calcolata correttamente rispetto al pasto effettuato, dopo un bolo di correzione, prima, durante e dopo l’esercizio fisico, durante la notte, negli stati di malattia per prevenire iperglicemie prolungate e la chetoacidosi. Un monitoraggio più intensivo è consigliabile all’inizio della terapia insulinica, in caso di malattia intercorrente e quando la terapia insulinica deve essere modificata. In caso di malattia è importante anche ricercare la presenza di chetoni urinari e/o plasmatici (9,10).
Altro importante elemento che influenza i valori glicemici è l’alimentazione: infatti, un adeguato apporto alimentare è necessario per assicurare adeguata crescita ma anche livelli glicemici ottimali. L’American Diabetes Association (ADA) e l’International Society of Pediatric and Adolescent Diabetes suggeriscono che la terapia nutrizionale contribuisca a prevenire i fattori di rischio delle complicanze vascolari, regolando la composizione corporea, la pressione arteriosa e il metabolismo lipidico (11,12). Poiché poche sono le evidenze in età pediatrica, la dieta del paziente con diabete segue le regole della dieta mediterranea. L’ADA consiglia nel paziente adulto di consumare giornalmente una quantità di carboidrati > 50%, di lipidi < 35% e di proteine del 10-15% (11,13). Per consentire una maggiore flessibilità e una migliore qualità di vita, è stato introdotto il calcolo dei carboidrati, partendo dal presupposto che la quantità di carboidrati del pasto influenza in gran parte la glicemia post-prandiale. È necessario effettuare un corso di istruzione al paziente, che gradualmente gli consenta di calcolare i carboidrati che prevede di ingerire, in base al tipo di alimento e della porzione. È importante anche sapere integrare i diversi alimenti in modo da ottenere un pasto bilanciato. Questo calcolo sarà poi individualizzato con l’aiuto del team diabetologico calcolando il rapporto insulina:carboidrati, cioè quanti carboidrati sono metabolizzati da una unità di insulina per quel paziente (11,12). Questo procedimento sempre più utilizzato possiede però alcune limitazioni. Infatti, bisogna considerare che non tutti i carboidrati hanno lo stesso effetto sulla glicemia, cioè hanno lo stesso indice glicemico: è quindi preferibile consumare alimenti a basso indice glicemico, anche se i lavori in letteratura sono discordanti nel dimostrare gli effetti sulla glicemia. In secondo luogo questo calcolo non tiene conto del fatto che lipidi e proteine producono effetti sulla glicemia a distanza di molte ore. Quindi le diete ricche di grassi saturi e scarse in carboidrati hanno un effetto negativo sul compenso glicemico (13).
Più recentemente sono divenute disponibili nuove tecnologie per la somministrazione della terapia insulinica. Nel giugno 2007 è stata pubblicata una Consensus dell'European Society for Paediatric Endocrinology, che approvava l'uso della terapia a infusione continua di insulina (Continuous Subcutaneous Insulin Infusion-CSII) in età pediatrica. L’uso del microinfusore permette di effettuare una terapia intensiva insulinica come da schema basal bolus, con il vantaggio di poter somministrare quantità molto piccole di insulina. La pompa insulinica è costituita da 4 parti: un serbatoio di plastica eliminabile, pre-riempito con insulina, un meccanismo screw-drive che muove l'insulina attraverso il tubicino a percentuali variabili, un piccolo computer che è programmato per emettere insulina e una batteria come sorgente. È un sistema ad anello aperto, che ha due modalità di somministrazione di insulina: una continua mediante un'infusione basale e una intermittente mediante boli di insulina. L'insulina è somministrata attraverso i cosiddetti set infusionali e mediante speciali cateteri sottocutanei, il cui posizionamento (parete addominale o gluteo) è facilitato dall'utilizzo di dispositivi che consentono di evitare l'inserzione manuale. Questo ha reso più facile l'utilizzo dei microinfusori anche in bambini piccoli. Il catetere posizionato in sede sottocutanea, deve essere sostituito ogni tre giorni per limitare la variabilità di assorbimento associata alla sede di iniezione. Il serbatoio può contenere insulina regolare o analoghi di insulina ad azione rapida.
I microinfusori offrono la possibilità di vari programmi di rilascio di insulina a seconda delle differenti situazioni o i tipi di cibo assunti: bolo standard caratterizzato da una rapida salita e poi una rapida discesa dei livelli insulinemici; bolo esteso (onda quadra) caratterizzato da una rapida risalita dei livelli insulinemici seguita da un plateau insulinemico e successivamente da una rapida discesa di tali livelli (pranzo prolungato, ad elevato contenuto lipidico o con rallentato svuotamento gastrico); bolo combinato che associa il bolo standard al bolo prolungato; bolo wizard correlato al contenuto di carboidrati presente nel pasto.
I pazienti possono programmare inoltre diverse velocità basali nelle diverse fasce orarie della giornata, variando la quantità di insulina somministrata durante un viaggio o durante l'attività lavorativa. È inoltre possibile stabilire una velocità basale temporanea durante l'esercizio fisico sulla base dell'intensità e della durata di questo.
Nel caso di pazienti ben controllati con la terapia multi-iniettiva (HbA1c < 7%), la dose iniziale totale giornaliera di insulina da somministrare con il microinfusore dovrebbe essere ridotta del 10-20% rispetto alla dose totale precedente. Al contrario, pazienti con scadente controllo metabolico possono avviare la CSII con una dose totale giornaliera sostanzialmente analoga a quella pre-microinfusore.
L’indicazione principale alla scelta del microinfusore è il raggiungimento del buon compenso metabolico nei soggetti che presentano uno scarso controllo glicemico, una marcata instabilità metabolica con ipoglicemie ricorrenti, insulino-resistenza o ridotto fabbisogno insulinico, pur seguendo già un regime basal bolus ottimale che prevede un’educazione completa anche sull’autocontrollo e sull’alimentazione (14-15).
I potenziali vantaggi della CSII vs MDI per il diabete tipo 1 si possono riassumere in una riduzione della variabilità glicemica, delle ipoglicemie severe e dell’emoglobina glicata (-0.3%) e maggior flessibilità nella gestione della quotidianità (16-17).
L'uso della pompa richiede frequenti decisioni da prendere, perciò i pazienti devono avere una buona conoscenza circa la farmacodinamica dell'insulina e la conta dei carboidrati e devono avere una buona informazione di base per riuscire a gestire situazioni di malfunzionamento della pompa.
Tutti gli interventi finora descritti, sia per la terapia multi-iniettiva, sia per quella a infusione continua, sono gestiti dal team diabetologico che comprende differenti figure professionali: il diabetologo pediatra, l’infermiere professionale, il dietologo, lo psicologo. Questi operatori professionali dialogano con il paziente, la famiglia, la scuola e propongono un percorso di educazione terapeutica mirata al raggiungimento di un buon compenso metabolico e di una buona qualità di vita. Questo processo di istruzione deve fornire al paziente le nozioni sulla patologia e le capacità necessarie per l’autogestione della terapia e lo sviluppo di uno stile di vita adeguato.

 

Bibliografia

  1. The Diabetes Control and Complications Trial Research Group. The effect of intensive treatment of diabetes on the development and progression of long-term complications in insulin-dependent diabetes mellitus. N Engl J Med 1993, 329: 977-86.
  2. Nathan DM, Cleary PA, Backlund JY, et al; Diabetes Control and Complications Trial/Epidemiology of Diabetes Interventions and Complications (DCCT/EDIC) Study Research Group. Intensive diabetes treatment and cardiovascular disease in patients with type 1 diabetes. N Engl J Med 2005, 353: 2643-53.
  3. Siebenhofer A, Plank J, Berghold A, et al. Short acting insulin analogues versus regular human insulin in patients with diabetes mellitus. Cochrane Database Syst Rev 2006, 2: CD003287.
  4. Hanas R, Donaghue KC, Klingensmith G, Swift PG. ISPAD clinical practice consensus guidelines 2009 compendium. Introduction. Pediatr Diabetes 2009, 10 suppl 12: 1-2.
  5. Chacra AR, Kipnes M, Ilag LL, et al. COMPLETE T1D investigators. Comparison of insulin lispro protamine suspension and insulin detemir in basal-bolus therapy in patients with type 1 diabetes. Diabet Med 2010, 27: 563-9.
  6. Rabbone I, Bobbio A, Berger K, et al. Age-related differences in metabolic response to continuous subcutaneous insulin infusion in pre-pubertal and pubertal children with type 1 diabetes mellitus. J Endocrinol Invest 2007, 30: 477-83.
  7. Hanas R, Donaghue KC, Klingensmith G, et al. ISPAD clinical practice consensus guidelines 2009 compendium. Insulin treatment in children and adolescents with diabetes. Pediatr Diabetes 2009, 10 suppl 12: 82-99.
  8. Ziegler R, Heidtmann B, Hilgard D, et al. DPV-Wiss-Initiative. Frequency of SMBG correlates with HbA1c and acute complications in children and adolescents with type 1 diabetes. Pediatr Diabetes 2011, 12: 11-7.
  9. Scaramuzza A, Cherubini V, Tumini S, et al. Diabetes Study Group of the Italian Society for Pediatric Endocrinology and Diabetology. Recommendations for self-monitoring in pediatric diabetes: a consensus statement by the ISPED. Acta Diabetol 2014, 51: 173-84.
  10. IDF/ISPAD 2011 Global Guideline for Diabetes in Childhood and Adolescence. 2011.
  11. American Diabetes Association. Standards of medical care in diabetes-2014. Diabetes Care 2014, 37 suppl 1: S14-80.
  12. Smart C, Aslander-van Vliet E, Waldron S. Nutritional management in children and adolescents with diabetes. Special Issue: ISPAD Clinical Practice Consensus Guidelines 2009 Compendium. Pediatr Diabetes 2009, 10 suppl 12, 100–17.
  13. Marigliano M, Morandi A, Maschio M, et al. Nutritional education and carbohydrate counting in children with type 1 diabetes treated with continuous subcutaneous insulin infusion: the effects on dietary habits, body composition and glicometabolic control. Acta Diabetol 2013, 50: 959-64.
  14. Pinelli L, Rabbone I, Salardi S, et al. Insulin pump therapy in children and adolescent with type 1 diabetes: the Italian viewpoint. Acta Biomed 2008, 79: 57-64.
  15. Shalitin S, Gil M, Nimri R, et al. Predictors of glycaemic control in patients with type 1 diabetes commencing continuous subcutaneous insulin infusion therapy. Diabet Med 2010, 27: 339-47.
  16. Misso ML, Egberts KJ, Page M, et al. Continuous subcutaneous insulin (CSII) versus multiple insulin injections for type 1 diabetes mellitus. Cochrane Database Syst Rev 2010, 1: CD005103.
  17. Bruttomesso D, Crazzolara D, Maran A, et al. In type 1 diabetic patients with good glycaemic control, blood glucose variability is lower during continuous subcutaneous insulin infusion than during multiple daily injections with insulin glargine. Diabet Med 2008, 25: 326-32.
  18. Weissberg-Benchell J, Antisdel-Lomaglio J, Seshadri R. Insulin pump therapy: a meta-analysis. Diabetes Care 2003, 26: 1079-87.
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Egle Ansaldi
SSD Endocrinologia e Malattie Metaboliche, ASO SS Antonio e Biagio e C. Arrigo, Alessandria

 

Il diabete mellito tipo 1 è la patologia endocrina più frequente nell'adolescenza.
È fondamentale che sia un'equipe multidisciplinare esperta a farsi carico di un adolescente affetto da DMT1, per le problematiche connesse non solo alla patologia in sè, alla variazione della sensibilità insulinica legata alla maturità sessuale, ma anche agli aspetti psicologici, educativi, sociali, e alle dinamiche familiari.

 

Diagnosi
Alla diagnosi è importante il dosaggio di auto-anticorpi verso la ß-cellula e i livelli di insulinemia, per definire correttamente il tipo di diabete. È infatti in aumento l'incidenza del DMT2 nei giovani, pertanto è indispensabile una diagnosi corretta, soprattutto in presenza di obesità, familiarità positiva per DM, presenza di sindrome dell'ovaio micropolicistico. È inoltre fondamentale escludere una forma di diabete monogenico.

 

Target glicemici
È dimostrato che un buon controllo metabolico determina una riduzione dell'insorgenza e della progressione delle complicanze, pertanto occorre un atteggiamento aggressivo volto al raggiungimento dei target glicemici previsti dalle linee-guida. In questa fascia di età gli obiettivi sono:

  • glicemia pre-prandiale 90-130 mg/dL;
  • glicemia post-prandiale 90-150 mg/dL;
  • HbA1c < 7.5% (ma anche < 7% se raggiungibile senza eccessive ipoglicemie).

È però dimostrato che è più difficile ottenere un buon compenso glicemico nell'adolescente che nell'adulto diabetico.

 

Terapia
La terapia insulinica deve essere personalizzata e avere come obiettivo il raggiungimento dei target glicemici e della glicata, riducendo al massimo il numero delle ipoglicemie e cercando di migliorare la qualità di vita. Può essere attuata con uno schema multi-iniettivo basal-bolus (analoghi rapidi ai pasti e analogo lento), o con micro-infusori. La terapia con microinfusori ha dimostrato di determinare un miglior compenso glicemico rispetto alla multi-iniettiva negli adolescenti, con una riduzione significativa dell'HbA1c e delle ipoglicemie 12-24 mesi dopo l'inizio della terapia con CSII.
L'autocontrollo glicemico è parte essenziale della terapia. Il monitoraggio glicemico continuo può determinare una riduzione delle ipoglicemie asintomatiche e delle iperglicemie, ma non tutti gli studi confermano un miglioramento del controllo negli adolescenti.
Il controllo metabolico può peggiorare nell'adolescenza, per la ridotta compliance, gli stress psichici, l'omissione frequente della somministrazione di insulina, ma anche per la fisiologica insulino-resistenza tipica dell'adolescenza. Un approccio multidisciplinare è indispensabile in casi di cronico scompenso metabolico (HbA1c > 10%), per evidenziarne le cause, quali depressione, disturbi del comportamento alimentare. Interventi sul versante psicologico, sulla famiglia, sul coping possono determinare almeno una riduzione delle ospedalizzazioni, anche se non hanno spesso un impatto significativo sulla riduzione della glicata. Episodi di chetoacidosi si realizzano soprattutto per l'omissione della somministrazione di insulina e per l’inadeguata gestione in corso di patologie acute intercorrenti. Gli episodi di chetoacidosi possono essere prevenuti con interventi educativi, comportamentali, con supporti alla famiglia e con una reperibilità telefonica continua.
Poichè il fumo è un significativo fattore di rischio per le complicanze micro e macroangiopatiche e determina un peggioramento del compenso metabolico, è fondamentale un'attiva prevenzione.
Fondamentale un'adeguata educazione sessuale, fornendo alle ragazze un counselling sulla necessità di una contraccezione idonea e di una programmazione di future gravidanze.
Estremamente importante la valutazione psicologica degli adolescenti, per evidenziare eventuali disordini che possono compromettere il raggiungimento di un buon compenso metabolico. In questa fase è elevato il rischio di depressione, ansia, disturbi del comportamento alimentare. Spesso anche l'ansia o la depressione materna si ripercuotono sui giovani, con riduzione delle motivazioni. Circa il 10% delle giovani con DMT1 presenta disturbi del comportamento alimentare, rispetto al 4% delle ragazze non diabetiche, e questo determina spesso un cattivo compenso, con più precoce comparsa di complicanze, che hanno anche una più rapida progressione. Molto spesso si hanno omissioni della terapia insulinica. La diagnosi precoce di questi disturbi e un trattamento adeguato sono fondamentali per poter raggiungere una miglior aderenza alla terapia e un compenso accettabile. Lo screening dei disturbi psicologici in questa fascia di età è importante quanto lo screening delle complicanze microangiopatiche.

 

Comorbilità
Occorre attuare uno screening delle patologie autoimmuni, determinando alla diagnosi e poi annualmente TSH, Ab anti-TPO, anti-transglutaminasi, IgA. In caso di anti-transglutaminasi positivi per almeno due volte, occorre eseguire una biopsia intestinale. La celiachia ha una prevalenza dell'1-16% nei DMT1 rispetto allo 0.3-1% dei coetanei non diabetici. La tiroidite autoimmune ha una prevalenza del 17-30%. Nei pazienti con patologia autoimmune multipla può essere utile il dosaggio di anticorpi anti-surrene e anti-mucosa gastrica.

 

Screening complicanze
Nefropatia
. Lo screening deve essere avviato dopo 5 anni di durata di malattia.
Per la determinazione della microalbuminuria, il rapporto albumina su creatinina sulle prime urine del mattino (ACR) è caratterizzato da elevata sensibilità e specificità. La specificità durante l'adolescenza può essere compromessa dall'attività fisica e dalla proteinuria posturale benigna. Un incremento dell'ACR (> 2.5 mg/mmol) deve essere confermata dopo un mese, e se l’alterazione persiste, occorre valutare l'escrezione di albumina nelle 24 ore o durante la notte. Il controllo deve essere ripetuto ogni 3-4 mesi per un anno, per valutare se il danno è persistente. Nel periodo puberale si può verificare una microalbuminuria intermittente o transitoria, e questi ragazzi hanno un aumentato rischio di sviluppare una nefropatia diabetica. Solo in caso di microalbuminuria persistente deve essere attuato il trattamento  con ACE-inibitori fino alla normalizzazione.

Retinopatia. Fundus oculi all’insorgenza e poi controlli annuali (sono stati descritti casi di RD insorta dopo una durata di malattia di 1-2 anni).

Neuropatia. La valutazione della sensibilità pallestesica e il test del monofilamento sono caratterizzati da scarsa sensibilità e specificità in questa popolazione.

Ipertensione. Circa il 16% dei giovani con DMT1 sono ipertesi. A ogni visita dovrebbe essere valutata la pressione arteriosa: in caso di valori non a target (> 130/80 mmHg), dopo sei mesi circa di interventi sullo stile di vita, se l'obiettivo non è raggiunto occorre intervenire farmacologicamente con l'uso di ACE-inibitori (ricordare la teratogenicità di queste molecole).

Dislipidemia. Profilo lipidico alla diagnosi e se colesterolo LDL > 160 mg/dL senza fattori di rischio cardiovascolari, o se > 130 mg/dL con uno o più fattori di rischio CV, occorre iniziare una terapia con statine, se il trattamento dietetico non è sufficiente. Per le ragazze ricordare che le statine sono controindicate in gravidanza.

 

Transizione presso l'ambulatorio dell'adulto
Il periodo della transizione è estremamente critico, pertanto è indispensabile attuare un vero percorso di passaggio dall'ambulatorio pediatrico a quello per adulti, per mantenere e possibilmente migliorare il controllo metabolico dei giovani pazienti. Tra il 25 e il 65% dei pazienti non attua il follow-up nel periodo di transizione, e molti di loro vengono ricoverati per episodi di chetoacidosi. Si tratta di un periodo particolarmente difficile, in cui il ragazzo deve farsi carico del trattamento della propria malattia, cercando di diventare autonomo dai genitori. Ma in questa fase il rischio di un deterioramento del compenso, di scompensi metabolici acuti e di comparsa di complicanze croniche è estremamente elevato. È pertanto fondamentale un consolidato rapporto tra i due team di cura, per attuare una transizione efficace.

 

Bibliografia

  1. Standard Italiani di Cura del Diabete Mellito 2009-2010: 106-109.
  2. Canadian Diabetes Association Clinical Practice Guidelines Expert Committee. Type 1 diabetes in children and adolescents. Clinical Practice Guidelines. Can J Diabetes 2013, 37 suppl 1: S153-62.
  3. American Diabetes Association. Standard of Medical Care in Diabetes-2014. Diabetes Care 2014, 37: S50-3.
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Michele Riccio
Diabetologia ASL Napoli 2 Nord, Distretto 38 Quarto

 

EPIDEMIOLOGIA E PATOGENESI DEL DIABETE NEGLI ANZIANI

In Italia viene definito “anziano” chi ha tra 65 e 74 anni, “vecchio” tra 75 e 84 anni, “grande vecchio” l’ultra85enne.
Circa il 33% della popolazione Italiana di età > 65 anni ha il diabete mellito (fonte ISTAT, dati 2011). Negli anziani il rischio di sviluppare diabete è più elevato, per gli effetti combinati di insulino-resistenza (da obesità, sarcopenia, inattività fisica) e deficit funzionale delle ß-cellule età-correlato. Con il termine “anziano con diabete” indichiamo una popolazione alquanto eterogenea di pazienti che include:

  • l’anziano al quale è stato di recente diagnosticato diabete;
  • quello al quale il diabete è stato “scoperto” di recente, ma la cui insorgenza era stata misconosciuta per anni, e quindi già verosimilmente gravato dalla presenza di complicanze microvascolari;
  • il diabetico con malattia nota da molti anni.

Possono coesistere quindi, in questa popolazione, pazienti con o senza complicanze micro o macrovascolari e con livelli variabili di “fragilità” per la concomitanza di comorbilità e disabilità. Per un approccio pratico può essere utile il ricorso alla classificazione in categorie funzionali dei pazienti anziani con diabete, come suggerito dalle recenti linee guida globali IDF per il trattamento degli anziani con diabete tipo 2 (1):

  • categoria 1: funzionalmente indipendenti;
  • categoria 2: funzionalmente dipendenti, a sua volta suddivisa in due sottocategorie:
    • fragili
    • affetti da disturbi cognitivi
  • categoria 3: terminali.

 

TRATTAMENTO DEL DIABETE E DELLE SUE PIÙ COMUNI COMORBILITÀ NEGLI ANZIANI

OBIETTIVI TERAPEUTICI

Il controllo glicemico
Pur non essendoci studi disegnati in modo specifico, l’analisi delle sottopopolazioni di anziani degli studi ad oggi disponibili (ACCORD, VADT, ADVANCE) ha evidenziato come i target debbano essere necessariamente individualizzati sulla scorta delle caratteristiche funzionali dei pazienti:

  • autosufficienti (categoria 1 IDF): HbA1c analoga a quella dei più giovani (< 7-7.5% - 53-58 mmol/mol);
  • anziani fragili e/o con demenza (categoria 2a e 2b IDF) nei quali il rischio di ipoglicemia è elevato: HbA1c < 8-8.5% - 64-68 mmol/mol.
  • anziani terminali e con breve aspettativa di vita (categoria 3 IDF): HbA1c 8.5-9% - 68-75 mmol/ml.

 

L’autocontrollo
Fermo restando che l’uso regolare dell’autocontrollo si è dimostrato vantaggioso secondo EBM solo nei pazienti trattati con insulina, è opinione diffusa tra gli esperti che l’uso dell’autocontrollo gestito in modo razionale e regolare possa essere di ottimo supporto anche nei diabetici non insulino-trattati e che negli anziani, specie fragili e con demenza (cat. 2a e 2b e 3 IDF), possa ridurre in modo significativo il rischio di ipoglicemie. La frequenza ottimale andrà individualizzata di volta in volta, in base alle caratteristiche cliniche, funzionali e cognitive dell’anziano (2).

 

Il controllo lipidico
Livelli elevati di lipidi sono un fattore di rischio cardiovascolare indipendente anche nell’anziano, che può comunque beneficiare degli effetti di riduzione del rischio derivante dal trattamento con statine e fibrati, purché l’aspettativa di vita sia > 4-5 anni (come dimostrato dai grandi studi clinici e dalle metanalisi). L’età avanzata non è di per sé una controindicazione (3,4).

 

Il controllo pressorio
I diabetici, in particolare gli anziani, presentano un rischio cardiovascolare più elevato rispetto ai non diabetici. Molti studi clinici, che includevano anche diabetici e anziani, hanno evidenziato come il controllo pressorio riduca il rischio CV, a prescindere dall’età. Le recenti linee-guida ESH/ESC per l’ipertensione (5) suggeriscono un target < 150/90 mmHg negli ultra80enni, mentre per i soggetti < 80 anni in assenza di comorbilità e fragilità sono suggeriti target più ambiziosi (< 140/80 mmHg). Il raggiungimento dei target pressori dovrebbe essere graduale nell’anziano.

 

STRATEGIE TERAPEUTICHE

Il controllo glicemico
Il paziente anziano rappresenta un caso paradigmatico di personalizzazione della terapia.

La massa muscolare e la forza si riducono con l’avanzare dell’età e il processo è ulteriormente aggravato dalle complicanze del diabete, dalle comorbilità, dai periodi di ospedalizzazione.

  • Il BMI è solitamente inadatto nella valutazione dello stato nutrizionale dell’anziano.
  • La circonferenza addominale si presta a una migliore valutazione e correla con l’obesità viscerale e il rischio cardiovascolare.
  • Se il tempo e il personale ambulatoriale lo consentono, è utile e facile da usare il “Mini-Nutritional Assessment” specifico dell’anziano, di cui oggi è disponibile una versione abbreviata in italiano (6).
  • Particolare attenzione andrà data alla ricerca di una possibile sarcopenia, caratterizzata dalla progressiva perdita di massa muscolare e forza a favore della massa adiposa, che si accompagna ad aumentato rischio di disabilità fisica e di esito sfavorevole.
  • Diversi RCT in diabetici anziani hanno dimostrato che l’attività fisica, anche se modesta e leggera, è in grado di migliorare il benessere fisico e psicosociale, anche in individui altrimenti fragili (7).
  • Nei diabetici anziani obesi sottoposti a regime calorico restrittivo è raccomandata una supplementazione di calcio e vitamina D (2,8).

 

Terapia ipoglicemizzante – premesse
I pazienti anziani sono esposti ad aumentato rischio di eventi avversi farmacologici, sia per la riduzione della funzionalità renale ed epatica che per la coesistenza di altri regimi terapeutici e per le possibili interferenze farmacologiche. Tutto questo aumenta in modo particolare il rischio di ipoglicemie. Pertanto, nell’anziano diabetico i rapporti rischio/beneficio vanno valutati con estrema attenzione.

 

Metformina
È farmaco di prima scelta nell’anziano diabetico, specie se obeso.
Sembra essere in grado di attenuare la perdita di massa magra dell’anziano sarcopenico (9).
Essendo in grado di favorire malassorbimento di vitamina B12, nel diabetico specie se anziano vanno valutati con attenzione l’emocromo e la coesistenza di danni da degenerazione assonale (peggioramento di una qualsiasi neuropatia periferica), pertanto va sempre supplementata con vitamine B12/B6/B1 (2).
Durante la terapia con metformina va monitorata con attenzione la funzionalità renale (il calcolo della eGFR va effettuato con la formula CKD-EPI per gli anziani fino a 75-80 aa, mentre con gli ultra80enni si consiglia la MDRD abbreviata) (10):

Formula CKD-Epi
eGFR = 141 x min(Scr/κ,1)α x max(Scr/κ,1)-1.209 x 0.993età x 1.018 [se femmina] x 1.159 [se nero]

Formula MDRD Abbreviata
eGFR= 186 x (creatinina)/1.154 x (età)/0.203 x 0.742 se femmina e x 1.210 se africano

  • per eGFR > 60 mL/min/1.73 m2: nessuna modifica dei dosaggi;
  • per eGFR 30-60 mL/min/1.73 m2: la dose va ridotta;
  • per eGFR < 30 mL/min/1.73 m2: la metformina va sospesa.

Esistono comunque calcolatori online che permettono di ottenere i valori dei pazienti inserendo i relativi dati di partenza:

 

Sulfaniluree
Sono potenzialmente in grado di provocare ipoglicemie anche severe e prolungate.
Sono sconsigliate negli anziani con ridotta funzionalità renale (eGFR < 45 mL/min/1.73 m2) e sono da preferire quelle con emivita breve o con particolari meccanismi di azione. Pertanto, è controindicata la glibenclamide, mentre più favorevole è il profilo della glimepiride e in misura maggiore della gliclazide (2).
La repaglinide si differenzia dalle classiche sulfaniluree per il meccanismo di azione e in particolare per la breve emivita e l’escrezione prevalentemente epatica, che la rende, apparentemente, più fruibile nell’anziano con IRC anche avanzata. Tuttavia, la scheda tecnica non ne raccomanda l’uso negli ultra75enni e non ci sono studi di associazione con altre categorie di farmaci. L’AMD ne sconsiglia l’uso nell’anziano (vedi algoritmi terapeutici F di AMD) (2).

 

Glitazoni (Pioglitazone)
Per i numerosi possibili effetti indesiderati (aumento di peso, ritenzione idrica, rischio di scompenso cardiaco, densità ossea, edema maculare, rischio di K vescicale) le principali linee guida ne sconsigliano l’uso negli anziani, specie > 75 anni, raccomandando estrema cautela in caso di utilizzo (1,2,8,11).

 

Inibitori della a-glucosidasi (Acarbose)
Bassissimo rischio di ipoglicemie.
Potrebbe favorire la regolarizzazione dell’alvo per un effetto simile al lattulosio (utile per la frequente coesistenza di stipsi negli anziani).
I frequenti eventi avversi gastrointestinali (flatulenza e/o meteorismo) possono essere limitati titolando la dose (2).

 

Analoghi/agonisti del GLP-1
Non ci sono studi in pazienti anziani.
Il calo ponderale spesso indotto da questi farmaci potrebbe non essere favorevole negli anziani.
L’utilizzo iniettivo li rende limitati a una popolazione di anziani autosufficiente o con la disponibilità di un aiuto esterno.
Sconsigliati in pazienti con eGFR < 30 mL/min (2).

 

Inibitori delle DPP-IV
Rischio di ipoglicemie molto basso.
Discreta efficacia clinica che è più marcata negli anziani (12,13).
Elevata tolleranza clinica con eccellente profilo di sicurezza.
Neutri sul peso, con possibili effetti benefici a livello cardiovascolare e sul profilo lipidico.
Per alcuni di loro (Vildagliptin, Sitagliptin e il recente Linagliptin) sono disponibili RCT su specifica popolazione anziana (> 70-75 anni).
Possono essere usati (con adeguati aggiustamenti posologici) anche in pazienti con marcata riduzione della funzionalità renale (per il Linagliptin non è necessario alcun aggiustamento posologico).
Limitato l’uso in caso di insufficienza epatica, eccezion fatta per il Linagliptin (14).
Tutte le caratteristiche suindicate fanno di questa classe sicuramente un riferimento di prima linea nella terapia dell’anziano, in aggiunta e/o in alternativa alla metformina, con una sola limitazione legata ai costi della terapia.

 

Terapia insulinica
La terapia insulinica nell’anziano deve tenere conto di alcuni punti chiave:

  • valutare sempre il rapporto costo/beneficio relativamente alle ipoglicemie;
  • valutare con attenzione la capacità di autogestione della terapia e, dove non è possibile, dell’apporto e della presenza di caregivers (familiari/badante/personale delle case di riposo), dei quali si dovrà curare l’addestramento;
  • preferire insuline con basso rischio di ipoglicemie;
  • negli schemi basal/bolus preferire sempre insuline ultrarapide;
  • consigliare sempre di effettuare la terapia prandiale subito dopo il pasto, per poterne valutare la completezza;
  • all’atto di una prima prescrizione insulinica preferire insuline basali, anche in associazione alla terapia orale (schema BasalPlus)(per la semplicità di gestione e per il minor rischio di ipoglicemie);
  • le insuline premiscelate possono tornare utili solo quando si voglia utilizzare un minor numero di somministrazioni, cosa che aumenta l’aderenza alla terapia, ma attenzione al rischio di ipoglicemie;
  • preferire i regimi basal/bolus negli anziani con conservate capacità funzionali e cognitive (2).

 

Il controllo pressorio
L’importanza e i vantaggi del trattamento anti-ipertensivo in termini di riduzione del rischio CV sono sostenuti da numerosi studi clinici. Tutte le classi di anti-ipertensivi possono essere utilizzate negli anziani diabetici:

  • in presenza di microalbuminuria, preferire ACE-inibitori e sartanici;
  • nell’ipertensione sistolica isolata, sono preferiti diuretici e Ca-antagonisti (5).

Data la frequenza con la quale gli anziani, specie diabetici, sviluppano IRC e iperpotassiemia, questi parametri vanno attentamente monitorati a intervalli regolari (10).
Va comunque ricordato che un eccessivo compenso pressorio nel paziente anziano fragile potrebbe comunque ridurre i benefici che da questo ne derivano (ACCORD, VADT).

 

Il controllo lipidico
Il trattamento delle dislipidemie si è dimostrato efficace nei pazienti anziani, sia in prevenzione primaria che secondaria, anche se non in tutti gli studi.
In considerazione del rapporto costo/beneficio, i maggiori vantaggi in termini di riduzione del rischio CV sono per quella popolazione di anziani la cui aspettativa di vita eccede la durata media degli studi di riferimento (i benefici CV delle statine, specie negli studi in prevenzione secondaria, emergono già dopo 1-2 anni) (4).

Per un ulteriore approfondimento si rimanda alla lettura del Consensus report: Diabetes in older Adults (11).

 

BIBLIOGRAFIA

  1. International Diabetes Federation. Managing older people with type 2 diabetes. Global guideline. © International Diabetes Federation, 2013 ISBN 2-930229-86-1.
  2. AMD-SID. Standard italiani per la cura del diabete mellito 2009-2010. Aggiornamento 2014.
  3. Jellinger PS, et al. AACE guidelines for management of dyslipidemia and prevention of atherosclerosis. Endocr Pract 2012, 18 (suppl 1): 1-78.
  4. Catapano AL, et al. ESC/EAS Guidelines for the management of dyslipidaemias: the Task Force for the management of dyslipidaemias of the European Society of Cardiology (ESC) and the European Atherosclerosis Society (EAS). Atherosclerosis 2011, 217 suppl 1: S1–44.
  5. 2013 ESH/ESC Guidelines for the management of arterial hypertension. J Hypertens 2013, 31: 1281–357.
  6. Nestlè Nutrition Institute. Guida alla compilazione del Mini Nutritional assessment MNA.
  7. Buman MP, Hekler EB, Haskell WL, et al. Objective light-intensity physical activity associations with rated health in older adults. Am J Epidemiol 2010, 172: 1155–65.
  8. Canadian Diabetes Association Clinical Practice Guidelines Expert Committee. Diabetes in the Elderly. Can J Diabetes 2013, 37 suppl 1: S184-90.
  9. Lee CG, Boyko EJ, Barrett-Connor E, et al. Insulin sensitizers may attenuate lean mass loss in older men with diabetes. Diabetes Care 2011, 34: 2381–6.
  10. Van Pottelbergh G, et al. Methods to evaluate renal function in elderly patients: a systematic literature review. Age  Ageing 2010, 39: 542–8.
  11. Kirkman MS, et al. Diabetes in older adults. A consensus Report. J Am Geriatr Soc 2012, 60: 2342-56.
  12. Basu R, Breda E, Oberg AL, et al. Mechanisms of the age-associated deterioration in glucose tolerance. Diabetes 2003, 52: 1738–48.
  13. Korosi J, McIntosh CHS, Pederson RA, et al. Effect of aging and diabetes on the enteroinsular axis. J Gerontol A Biol Sci 2001, 56: M575–9.
  14. Graefe-Mody U, et al. Pharmacokinetics of linagliptin in subjects with hepatic impairment. BJCP 2012, 74: 75-85.
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Maria Paola Luconi & Elena Tortato
UOC Malattie Metaboliche e Diabetologia, INRCA IRCCS Ancona

(aggiornato al 28 giugno 2021)

 

Si distinguono diversi stadi di malattia renale cronica (CKD), a seconda della diminuzione del filtrato glomerulare, ed indipendentemente dalla concomitante presenza o assenza di albuminuria (tabella 1).

 

Tabella 1
Stadi della Malattia Renale Cronica
Stadio Funzione renale
eGFR (mL/min/1.73 m²)
I Normale o aumentata ≥ 90
II Lievemente compromessa 60-89
IIIa Compromissione moderata 45-59
IIIb Compromissione da moderata a severa 30-44
IV Compromissione severa 15-29
V Insufficienza renale < 15

 

Nella scelta della terapia ipoglicemizzante in pazienti con CKD andrebbero considerati diversi aspetti: la possibilità di limitare la progressione di malattia; il rischio CV e ipoglicemico; la necessità di adeguare il fabbisogno insulinico o i dosaggi delle altre molecole al GFR, qualora < 60 mL/min/m2, per ridotta clearance del farmaco e compromessa gluconeogenesi renale.
La metformina resta il trattamento di prima linea nei pazienti con DM2, inclusi quelli con CKD; tuttavia, non andrebbe iniziata se GFR < 45 mL/min/1.73 m2, adeguata nel dosaggio se GFR 30-45 mL/min/1.73 m2 e sospesa se GFR < 30 mL/min/1.73 m2. Inoltre, si raccomanda una temporanea sospensione, in previsione di interventi chirurgici ed esami contrastografici, o in situazioni che potrebbero favorire deplezione volemica con insufficienza renale acuta secondaria (1).
Secondo le più recenti linee guida ADA, in presenza di ND e albuminuria, andrebbe scelto un SGLT2-In in grado di ridurre la progressione di malattia renale (evidenza primaria o derivata dagli studi di esito CV), indipendentemente dal livello di HbA1c (basale e target) e dall’uso di metformina. Se controindicato o mal tollerato, in alternativa a questo, potrebbe essere considerato un GLP1-RA con comprovato beneficio CV. Molecole di entrambe le classi potrebbero essere utilizzate, anche in associazione, nelle persone con CKD di qualsiasi eziologia e alto rischio CV. Anche se l’efficacia ipoglicemizzante delle gliflozine si riduce con la progressiva decurtazione del filtrato renale, che richiede pertanto aggiustamenti posologici, altri effetti benefici (oltre la glicosuria) appaiono conservati. I diversi GLP1-RA richiedono aggiustamenti variabili della dose in base al GFR, di cui deve essere tenuto conto nell’uso delle associazioni pre-costituite con  insulina basale, degludec-liraglutide e glargine-lixisenatide (1).
Gli inibitori della dipeptidil-peptidasi-4 (DPP4-In o gliptine) mostrano percentuali variabili di escrezione renale: sitagliptin ~87%, vildagliptin ~85%, saxagliptin ~75%, linagliptin ~5%, alogliptin 60-71%; possono pertanto essere utilizzati anche in diabetici tipo 2 con insufficienza renale severa previo adeguamento della dose.
Le sulfaniluree sono simili per meccanismo di azione, ma differiscono per cinetica; gliclazide e glibenclamide hanno escrezione prevalentemente renale, mentre la glimepiride bilio-fecale. La gliclazide viene trasformata a livello epatico in metaboliti inattivi, escreti poi dal rene; questo comporta minor rischio di ipoglicemia anche in persone con CKD moderato-severa.
La repaglinide (classe glinidi) ha eliminazione prevalentemente epatica, potrebbe essere potenzialmente utilizzata fino a valori di eGFR molto ridotti, ma per carenza di dati scientifici, non si dispone di una indicazione chiara in scheda tecnica.
Il pioglitazone (classe tiazolidinedioni) ha metabolismo quasi esclusivamente epatico e può essere utilizzato senza aggiustamento di dose fino a valori di eGFR di 5 mL/min/1.73 m2. Va tuttavia tenuto conto dell’aumentato rischio di edema e scompenso cardiaco nelle persone con CKD avanzata.
L’acarbosio (classe inibitori dell’α-glucosidasi), agendo sull’enzima gastro-intestinale che scinde i carboidrati complessi e i disaccaridi in monosaccaridi, è utilizzabile sia in caso di insufficienza epatica che renale, fino a valori di GFR di 25 mL/min/1.73 m2 (per valori inferiori tende poi ad accumularsi).
La terapia insulinica è di scelta in caso di CKD moderato-severa, ma richiede riduzioni di dosaggio per minore escrezione renale e aumentata emivita. Il fabbisogno insulinico giornaliero si riduce in relazione all’eGFR:

  • 30-60 mL/min/1.73 m2 di circa il 25%;
  • < 30 mL/min/1.73 m2 fino al 50%;
  • in caso di emodialisi (ESRD) scende ulteriormente, perché quest’ultima impatta sull’insulino-resistenza e sui livelli di uremia. È invece più variabile la risposta clinica alla dialisi peritoneale, che utilizza un liquido di scambio composto prevalentemente da D-glucosio monoidrato (o destrosio) ed elettroliti (2).

Nella tabella 2 seguente sono illustrate le diverse classi di ipoglicemizzanti e le modifiche di dosaggio suggerite in funzione del filtrato glomerulare, fatta eccezione per l’insulina.

 

Tabella 2
Ipoglicemizzanti disponibili ed aggiustamento posologico secondo filtrato glomerulare
Controindicato Cautela/modifica dosi Utilizzabile
eGFR (mL/min/1.73 m2) >90 90-60 59-50 49-45 44-30 29-15 < 15 dialisi
Biguanidi
Metformina Inizia terapia Dose ridotta No
SGLT2-Inibitori (Gliflozine)
Canagliflozin 100 mg/die (inizio), aumentabile a 300 mg/die 100 mg/die (inizio o prosecuzione) 100 mg/die (solo prosecuzione)
Dapagliflozin(#) 10 mg/die (inizio) 10 mg/die (prosecuzione) No
Empagliflozin 10 mg/die (inizio), aumentabile a 25 mg/die 10 mg/die (prosecuzione) No
Ertugliflozin 5 mg/die (inizio), aumentabile a 15 mg/die 5-15 mg/die (prosecuzione) No
Agonisti recettoriali del GLP-1
Dulaglutide (§) 0.75 mg/settimana o 1.5 mg/settimana      No
Exenatide 5 µg x 2/die per almeno 30 giorni (inizio), aumentabile a 10 µg x 2/die   5 µg x 2/die (o con cautela 10 µg x 2/die)   No
Exenatide LAR 2 mg/settimana     No
Liraglutide 1.2 mg/die o 1.8 mg/die (dose di partenza 0.6 mg/di        No
Lixisenatide 10 µg/die per 14 giorni -> 20 µg/die        No
Semaglutide 0.25 mg/settimana per 4 settimane (dose di partenza) -> 0.5 mg/settimana, aumentabile dopo 4 settimane a 1 mg/settimana        No
Inibitori DPP-4 (gliptine)       
Alogliptin 25 mg/die 12.5 mg/die 6.25 mg/die
Linagliptin 5 mg/die
Saxagliptin 5 mg/die 2.5 mg/die No
Sitagliptin 100 mg/die 50 mg/die 25 mg/die
Vildagliptin 50 mg x 2/die 50 mg/die in mono-somministrazione
Sulfaniluree e glinidi
Glibenclamide Dose secondo necessità clinica Cautela d’uso e aggiustamento posologico No
Gliclazide da 30 a 120 mg/die (formulazione RM), da 80 a 240 mg/die (formulazione immediata) Cautela d’uso e aggiustamento posologico No
Glimepiride Da 1 a 6 mg/die Cautela d’uso e aggiustamento posologico No
Repaglinide Da 0.5 mg/die (da titolare secondo necessità) Cautela d’uso e aggiustamento posologico No
Glitazoni
Pioglitazone 15 o 30 mg/die (inizio terapia), aumentabile a 45 mg/die  No (eGFR < 5)
Inibitori dell’α-glucosidasi
Acarbosio Da 50 mg x 1-3/die, a 100 mg x 1-3/die No (eGFR < 25)   

(#) Il dapaglifozin è utilizzabile alla dose di 10 mg/die fino a eGFR 30 mL/min, se coesistenza di scompenso cardiaco a ridotta frazione di eiezione
(§) In attesa di commercializzazione/approvazione le dosi da 3.0 mg/settimana o 4.5 mg/settimana

 

Bibliografia

  1. American Diabetes Association. 9. Pharmacologic approaches to glycemic treatment: standards of medical care in diabetes – 2021. Diabetes Care 2021, 44: S111-24.
  2. AMD-SID. Standard italiani per la cura del diabete mellito. 2018.
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Egle Ansaldi
SSD Endocrinologia e Malattie Metaboliche, ASO SS. Antonio e Biagio e C. Arrigo, Alessandria

 

Il diabete mellito post-trapianto (NODAT, new onset diabetes after transplant) può realizzarsi dopo il trapianto di numerosi organi solidi e nell'80% dei casi si sviluppa entro tre mesi dall'intervento. Presenta un'incidenza diversa in base all'organo trapiantato e alla patologia di base: si stima il 20-50% per il trapianto di rene, 9-21% per quello di fegato, 20% per quello di polmone.
Il NODAT è gravato da un aumentato rischio di insufficienza dell'organo trapiantato, eventi cardiovascolari e mortalità.
I criteri diagnostici sono quelli del diabete mellito tipo 2 definiti dall'ADA.

 

Fattori di rischio
Oltre a quelli tradizionali del DMT2 (età, familiarità, etnia, obesità), peculiari per il NODAT sono l'insufficienza renale nel periodo pre-trapianto, l’infezione da HCV o CMV e determinati aplotipi. C’è da considerare poi l’effetto dei farmaci immuno-soppressori utilizzati nel periodo post-trapianto: glucocorticoidi, inibitori delle calcineurine, quali tacrolimus e ciclosporina, determinano un deficit secretorio, mentre inibitori di mTOR, come sirolimus, determinano sia un deficit secretorio sia insulino-resistenza. L'effetto diabetogeno è dose-dipendente.

 

Prevenzione
In fase pre-trapianto ricercare i fattori di rischio per diabete, pregresso GDM, IGT o IFG. In presenza di fattori di rischio, agire sullo stile di vita: alimentazione, attività fisica, riduzione del peso corporeo. Sarebbe utile anche uno screening pre-trapianto con l'esecuzione di OGTT in pazienti con IFG per meglio dosare la terapia immuno-soppressiva in modo da prevenire il NODAT.
Dopo il trapianto i soggetti a rischio devono eseguire una glicemia a digiuno settimanale per un mese, una volta al mese per 6 mesi, ogni 2 mesi fino all'anno; OGTT 3-6 mesi dopo il trapianto.

 

Trattamento nel peri-operatorio
Subito dopo il trapianto occorre terapia insulinica nel 40% dei pazienti. Si attua uno schema basal-bolus, che cerca di controllare soprattutto le iperglicemie post-prandiali dovute alla terapia steroidea. Indispensabile adeguato autocontrollo per l'instabilità metabolica e il rischio di ipoglicemie legate alle variazioni posologiche di steroidi e immuno-soppressori. L'iperglicemia è dovuta allo stress chirurgico e alle dosi elevate di steroidi. Spesso la terapia insulinica potrà essere sospesa in un secondo tempo. Non essendoci studi ad hoc, i target sono quelli del DMT2 proposti dall'ADA.
Per quanto riguarda gli ipoglicemizzanti orali, la metformina non è farmaco di prima scelta in questi pazienti, che sono sottoposti a terapie complesse con più farmaci. Controindicazione all’uso della metformina è l'IRC. Pertanto, se si decide di utilizzarla, occorre un rigoroso e continuo controllo della funzionalità renale. La terapia steroidea determina soprattutto iperglicemie post-prandiali, pertanto può essere razionale l'uso della repaglinide, secretagogo a breve durata d'azione, che potrebbe essere utilizzata in pazienti con trapianto di rene mentre non esistono dati sui trapiantati di fegato. Occorre cautela nell'associazione con ciclosporina per il rischio di ipoglicemie. Anche l'acarbose, inibitore dell'alfa-glucosidasi, agisce prevalentemente sulle glicemie post-prandiali, è meno potente di altri ipoglicemizzanti orali, ma ha il vantaggio di non determinare ipoglicemie nè incremento di peso, ma spesso determina disturbi gastro-enterici. Le sulfoniluree possono causare episodi ipoglicemici anche gravi in pazienti fragili con IRC o con ridotta funzionalità epatica. Senz'altro non dovrebbero essere utilizzate sulfoniluree a lunga emivita, ma in uno studio retrospettivo non sono stati riportati eventi avversi con l'uso del gliquidone. Il pioglitazone può peggiorare la perdita di massa ossea legata alla terapia immuno-soppressiva e può determinare edemi e scompenso cardiaco in soggetti a rischio. Per quanto riguarda gli inibitori del DPP-4, il sitagliptin si è dimostrato sicuro ed efficace in uno studio di 15 pazienti con NODAT dopo trapianto di rene, perchè non determina ipoglicemie; occorre però adeguare la posologia in caso di IRC, inoltre può determinare un allungamento del QT se usato con la ciclosporina. Il saxagliptin, invece, non determina allungamento del QT, e si è dimostrato efficace in uno studio in trapiantati di rene, come pure il vildagliptin. Sitagliptin e saxagliptin ma non vildagliptin potrebbero interferire sul metabolismo degli immuno-soppressori, aumentandone la concentrazione ematica. Il linagliptin può essere utilizzato anche nell'IRC senza riduzione del dosaggio, perché ha un'eliminazione epatica. Gli analoghi del GLP-1, che possono determinare nausea, vomito e rallentamento della motilità gastroenterica, potrebbero interferire con l'assorbimento dei farmaci immuno-soppressori. Occorrono studi più ampi e di maggior durata con questi farmaci, per valutarne non solo l'efficacia ma la reale sicurezza.
Considerato che nei trapiantati di rene il rischio di eventi cardiovascolari aumenta di 2-3 volte in presenza di NODAT, accanto a un adeguato compenso glicemico è indispensabile uno stretto controllo dei fattori di rischio: pressione arteriosa (< 130/80 mmHg), assetto lipidico (colesterolo LDL < 100 mg/dL), fumo e prescrizione di terapia anti-aggregante.

 

Bibliografia

  1. Hornum M, Lindahl J, Zur-Muhlen B, et al. Diagnosis, management and treatment of glucometabolic disorders emerging after kidney transplantation. A position statement from the Nordic Transplantation Societies. Transpl Int 2013, 26: 1049-60.
  2. Lane JT, Dagogo-Jack S. Approach to the patient with new onset diabetes after transplant (NODAT). J Clin Endocrinol Metab 2011, 96: 3289-97.
  3. Ghisdal L, Van Laecke S, Abramowicz MJ, et al. New-onset diabetes after renal transplantation. Diabetes Care 2012, 35: 181-8.