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Carmine G Fanelli1, Lorenza Gagliardi2 & Giuseppe Santino3
1Medicina Interna e Scienze Endocrine e Metaboliche, Dipartimento di Medicina, AOU Perugia
2UOC Endocrinologia e Malattie Metaboliche & 3UO di Oculistica, Ospedale Morgagni-Pierantoni, Forlì

(aggiornato al 1° maggio 2022)

 

La RD sia non proliferante che proliferante può essere del tutto asintomatica, a meno che non vi sia coinvolgimento maculare.
Nella RD non proliferante la presenza di emorragie, essudati ed edema può comportare una graduale riduzione dell’acuità visiva (mai abbassamento brusco).
Nella RD proliferante, a causa della formazione di neovasi, l’acuità visiva può subire un grave e brusco abbassamento (generalmente secondario ad emorragia intra-vitreale o distacco di retina).
L’estensione della proliferazione fibrosa e vascolare all’iride e all’angolo della camera anteriore può determinare l’occlusione del trabecolato sclero-corneale e una grave forma di glaucoma acuto, responsabile di una violenta sintomatologia dolorosa.
La diagnostica della retinopatia diabetica si basa sull’esecuzione di una visita oculistica completa. Le parti essenziali della visita riguardano:

  • valutazione dell’acuità visiva;
  • tonometria;
  • esame bio-microscopico con lampada a fessura per la valutazione del segmento anteriore, ma anche del fundus. Particolare attenzione va posta all’eventuale presenza di neovasi a livello dell’iride (rubeosis iridis);
  • esame in midriasi del segmento posteriore, eseguito con oftalmoscopia diretta e/o indiretta.

A discrezione dell’oculista possono essere impiegati ulteriori esami, ai fini di una più precisa definizione diagnostica:

  • tomografia oculare a luce coerente (OCT), che permette di ottenere una dettagliata valutazione dell’edema intra-retinico;
  • ecografia oculare, molto utile quando non è possibile un’esplorazione diretta delle strutture interne dell’occhio, ad esempio a causa di opacità corneali, cataratta avanzata o emovitreo;
  • retinografia che produce un’immagine a colori del fondo oculare, utilizzata solitamente per lo screening della RD o per il monitoraggio;
  • microperimetria (MP).

Un ulteriore esame è rappresentato dalla fluorangiografia (FAG), che non è impiegato nella diagnosi e ancor meno nello screening della RD. Tuttavia, è un esame importante, perché permette di evidenziare in maniera specifica le alterazioni della circolazione retinica, in particolare, sia le lesioni vascolari responsabili delle lesioni edematose, sia le zone di ischemia retinica che causano la formazione di neovasi (fig 1-3). La FAG costituisce una guida fondamentale per l’esecuzione del trattamento mediante foto-coagulazione laser.

 

Figura 1. Immagine fluorangiografica di RD non proliferante di grado moderato

 

 

Figura 2. Immagine fluorangiografica di RD non proliferante di grado grave

 

Figura 3. Immagine fluorangiografica di RD proliferante

 

 

Bibliografia

  • Gruppo di Studio Complicanze Oculari della Società Italiana di Diabetologia. Linee guida per lo screening, la diagnostica e il trattamento della retinopatia diabetica in Italia. Revisione e aggiornamento a cura del Gruppo di Studio Complicanze Oculari della Società Italiana di Diabetologia. Revisione e aggiornamento 2015 della versione 2013.
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Carmine G Fanelli1, Lorenza Gagliardi2 & Giuseppe Santino3
1Medicina Interna e Scienze Endocrine e Metaboliche, Dipartimento di Medicina, AOU Perugia
2UOC Endocrinologia e Malattie Metaboliche & 3UO di Oculistica, Ospedale Morgagni-Pierantoni, Forlì

(aggiornato al 1° maggio 2022)

 

Terapia

La terapia della RD si basa sostanzialmente su due cardini: adeguato controllo glicemico e di altri fattori di rischio e trattamento specifico della RD.
Raggiungere e mantenere un buon controllo glicemico, è fondamentale per ridurre il rischio di comparsa e/o di progressione della RD e della perdita della vista a causa dell’edema maculare diabetico (DME). Infatti, il DCTT (Diabetes Control and Complications Trial) (1) e l’UKPDS (UK Prospective Diabetes Study) (2) e i rispettivi studi di follow-up (3,4) hanno dimostrato come il controllo intensivo della glicemia sia in grado di ridurre il rischio di incidenza (76%) e di progressione di RD (54%), di necessità di terapia laser (56%) e di sviluppo di DME (23%). Tuttavia, va evidenziato che nei pazienti con RD non proliferante moderata o grave, l’intensificazione della terapia e il rapido miglioramento del controllo glicemico possono indurre inizialmente un peggioramento della RD (1). Quindi, in questi casi il buon controllo glicemico deve essere raggiunto gradualmente, per evitare la progressione verso una forma di RD proliferante.
Una recente meta-analisi dei dati derivati dagli studi sugli esiti cardio-vascolari non ha dimostrato associazione tra il trattamento con gli agonisti dei recettori del GLP-1 (GLP-1 RA) e la RD di per sé. Tuttavia, è stato evidenziato un peggioramento della RD correlabile alla riduzione media di HbA1c dopo tre mesi e dopo un anno dall’inizio della terapia con GLP-1 RA. Questi studi non hanno valutato l’impatto a lungo termine sulla RD del miglior controllo glicemico. È opportuno valutare lo stato della RD quando si intensificano le terapie ipoglicemizzanti, come quelle che utilizzano i GLP-1 RA (5).
Un altro fattore importante che può determinare il peggioramento della RD è l’ipertensione arteriosa. Infatti, i diabetici ipertesi hanno un rischio elevato di sviluppare RD, DME e una maggiore rapidità di progressione della RD (6). Nell’UKPDS (7) il controllo intensivo della pressione arteriosa, dopo 9 anni di follow-up, determinava riduzione del 34% della progressione della RD e del 47% del rischio totale di peggioramento dell’acuità visiva. Si ritiene che il sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) sia implicato nella patogenesi delle alterazioni micro-vascolari che si riscontrano nella RD (8). Effettivamente, i farmaci attivi sul RAAS si sono dimostrati efficaci nel prevenire l’insorgenza e nel ridurre la progressione della RD nei pazienti normotesi con DM1 (9) e anche di indurre la regressione della RD lieve o moderata (del 34%) nei pazienti con DM2 normoalbuminurici (10). Infine, alcuni studi hanno evidenziato un effetto favorevole del fenofibrato sulla RD. Nei soggetti con DM2 e RD il trattamento con fenofibrato (200 mg vs placebo) nello studio FIELD (Fenofibrate Intervention and Event Lowering in Diabetes) (11) riduceva la necessità di trattamento laser, anche se il meccanismo di questo effetto non era correlato alle concentrazioni plasmatiche dei lipidi. Risultati analoghi sono stati ottenuti nello studio ACCORD-Eye (12) in pazienti con DM2, in cui l’associazione con fenofibrato e statine rispetto a quella con placebo e statine determinava la riduzione nella progressione della RD. Nonostante questi risultati favorevoli, il fenofibrato non è attualmente utilizzato nel trattamento della RD.
La foto-coagulazione laser ha rappresentato per oltre tre decenni il trattamento standard per il DME e per la RD. Nella RD non proliferante il trattamento laser ha l’obiettivo di arrestare le anomalie vascolari responsabili dell’edema e dell’essudazione. Nella RD proliferante, invece, l’azione è diretta a distruggere le zone di retina ischemica, con regressione della neo-vascolarizzazione retinica. La foto-coagulazione laser è il trattamento di scelta per la RD proliferante (fig). Gli effetti collaterali più comuni del trattamento laser sono dolore (in genere lieve), fotofobia, arrossamento dell’occhio, comparsa di scotomi ed eventuale riduzione di ampiezza del campo visivo, come conseguenza del trattamento che comporta la distruzione delle aree retiniche ischemiche.
 

Immagine fluorangiografica di RD proliferante con neovascolarizzazione ed edema maculare. Sono presenti lesioni corio-retiniche esito di trattamento laser

 

Nella retinopatia avanzata può essere necessario l’intervento chirurgico di vitrectomia, per rimuovere i tralci fibro-vascolari che causano trazione retinica (13) (tabella 1).

 

Tabella 1
Raccomandazioni sul trattamento fotocoagulativo nella RD proliferante
La pan-foto-coagulazione retinica deve essere eseguita con urgenza in tutti i casi di RD proliferante ad alto rischio (neovasi localizzati a una distanza < 1 diametro papillare dal disco ottico e con estensione > 1/4-1/3 dell’area papillare) e/o neovascolarizzazioni papillari o retiniche (neovascolarizzazioni discali-NVD/ neovascolarizzazioni in qualsiasi regione-NVE) associate a emorragie pre-retiniche o vitreali (raccomandazione di forza A, basata su evidenze di livello I).
La pan-foto-coagulazione retinica è indicata nei pazienti che presentano RD proliferante non ad alto rischio (neovasi della papilla ottica e/o retinici < 1/3 dell’area papillare) oppure RD non proliferante grave, se il monitoraggio è reso problematico dalla scarsa collaborazione del paziente o da difficoltà logistiche (raccomandazione di forza A, basata su evidenze di livello I),
In presenza di RD proliferante ad alto rischio, il trattamento dell’edema maculare deve essere eseguito in concomitanza con l’inizio della pan-foto-coagulazione (raccomandazione di forza A, basata su evidenze di livello I).

La vitrectomia associata a foto-coagulazione laser deve essere eseguita nelle seguenti condizioni (raccomandazione di forza A, basata su evidenze di livello I):

  • grave emorragia endo-oculare che non si riassorbe spontaneamente entro 3 mesi;
  • persistenza di RD proliferante evolutiva nonostante il trattamento pan-foto-coagulativo già eseguito per via trans-pupillare;
  • distacco maculare trazionale di recente insorgenza;
  • distacco retinico misto o combinato trazionale e regmatogeno;
  • rubeosi dell’iride, se associata a emorragia vitreale che non consenta l’esecuzione di una foto-coagulazione panretinica trans-pupillare.

 

Nei pazienti con DME i corticosteroidi inibiscono l'espressione di VEGF e diminuiscono la neo-vascolarizzazione. Iniezioni intra-vitreali di steroidi sono efficaci, ma gravate da complicanze maggiori, come cataratta e glaucoma. Sono anche possibili endoftalmite (sia infettiva che sterile), emorragia del vitreo e distacco di retina.
Attualmente l’interesse per la cura del DME è rivolto in particolare ai farmaci anti-angiogenici (anti-VEGF) (14). Grazie alla loro azione di inibizione dell’angiogenesi e di riduzione della permeabilità vascolare, rappresentano una potenziale strategia terapeutica anche nel DME e nella RD proliferante, nella cui patogenesi la neo-vascolarizzazione riveste un ruolo importante. In generale, i farmaci anti-VEGF si stanno dimostrando superiori al trattamento laser e sono in grado di migliorare la visione, con marcati vantaggi sia anatomici che funzionali (13) (tabella 2).

 

Tabella 2
Raccomandazioni per il trattamento dell’edema maculare diabetico (DME)
Nei pazienti diabetici con DME clinicamente significativo senza coinvolgimento del centro della macula, è indicata la foto-coagulazione laser (raccomandazione di forza A, basata su evidenze di livello I).
Nei pazienti diabetici con DME che coinvolge il centro della macula e determina riduzione dell’acuità visiva, la terapia anti-angiogenica è preferibile alla foto-coagulazione laser (raccomandazione di forza A, basata su evidenze di livello I).
Analisi per sottogruppi condotte in un RCT suggeriscono che, in pazienti diabetici con DME che coinvolge il centro della macula e determina riduzione dell’acuità visiva, la terapia laser può essere considerata in prima linea se lo spessore OCT nel central subfield è 400 µm (raccomandazione di forza B, basata su evidenze di livello III).

 

 

Inoltre, le complicanze che si osservano con le iniezioni intra-vitreali di corticosteroidi, come il glaucoma e la cataratta, possono essere evitate con l'uso di anti-VEGF. Attualmente per il trattamento del DME, le molecole anti-VEGF disponibili per uso intra-vitreale autorizzate da AIFA e rimborsabili in base alla nota 98 sono: Ranibizumab (frammento di anticorpo monoclonale ricombinante umanizzato), Bevacizumab (anticorpo monoclonale umanizzato), Aflibercept (proteina di fusione completamente umana).
È comunque importante evidenziare che le patologie retiniche rappresentano un continuum, quindi le scelte terapeutiche non devono mai essere considerate rigide, ma vanno effettuate in base alla storia naturale della patologia.

 

Flow-chart esemplificativa per il trattamento della RD

 

 

 

Screening e follow-up della retinopatia diabetica
Le evidenze scientifiche oggi disponibili hanno ampiamente dimostrato che, attraverso l’impiego di programmi di screening e trattamento della RD, è possibile ridurre in maniera sostanziale la cecità causata dal DM.
Nei Paesi in cui vengono applicati protocolli di screening della RD si assiste alla costante riduzione dell’incidenza annua di cecità (15), con un favorevole rapporto costo/efficacia (16).
L’obiettivo dello screening è individuare pazienti con lesioni indicative di RD ad alto rischio di perdita della vista (RD proliferante, segni e/o sintomi suggestivi di DME) e con lesioni caratteristiche della RD non proliferante grave (ad alto rischio per evoluzione verso RD proliferante). Questa tipologia di paziente necessita di ulteriori indagini e/o di trattamento a breve termine per prevenire la progressione della RD o della cecità (13) (tabella 3).
L’individuazione delle forme lievi e moderate di RD non è un obiettivo primario dello screening, ma rappresenta un utile strumento per identificare i pazienti a rischio non immediato, ma che richiedono comunque un follow-up più attento.

 

Tabella 3
Screening della RD:
classificazione delle lesioni e urgenza della consulenza oculistica
Sintomi e segni Stadio della RD Refertazione ai fini della rivalutazione
Assenza di disturbi visivi Retinopatia assente A 24 mesi in sede di screening
Retinopatia non proliferante lieve A 12 mesi in sede di screening
Retinopatia non proliferante moderata: con sole emorragie intra-retiniche A 6-12 mesi in sede di screening
Assenza o presenza di disturbi visivi Retinopatia non proliferante moderata con possibile DME A 3-6 mesi in ambiente specialistico
Riduzione dell’acuità visiva Retinopatia non proliferante grave/maculopatia lieve/maculopatia moderata Approfondire entro 3 mesi in ambiente specialistico
Riduzione dell’acuità visiva Retinopatia proliferante/maculopatia grave Con urgenza in ambiente specialistico (entro 1-2 settimane)

 

 

Lo screening si avvale di metodiche disponibili per lo studio della retina, come:

  • oftalmoscopia: poco costosa ed eseguibile con uno strumento facilmente trasportabile, ma richiede l’utilizzo di personale qualificato e non consente l’archiviazione di dati oggettivi;
  • biomicroscopia con lampada a fessura: permette un’analisi più accurata del polo posteriore rispetto all’oftalmoscopia, ma la valutazione è soggettiva e non archiviabile (costi elevati e difficoltà per il trasferimento dell’apparecchiatura);
  • fotografia del fondo oculare: consente di ottenere immagini in genere di qualità e garantisce una documentazione obiettiva archiviabile. È inoltre possibile delegare personale tecnico o infermieristico alla sua esecuzione routinaria, riservando agli specialisti l’interpretazione delle immagini, che può avvenire anche a distanza. Tale metodica può essere utilizzata per fornire servizi di screening anche in territori periferici, in cui non sono prontamente disponibili gli oculisti.

In generale, tutti i pazienti dovrebbero essere sottoposti a una visita oculistica al momento della diagnosi. Successivamente, la periodicità dello screening dipende dal buon controllo metabolico, dal tipo di DM e dall’assenza di RD all’esame iniziale (13,17) (tabella 4).

 

Tabella 4
Periodicità dello screening

(raccomandazione di forza A, basata su evidenze di livello VI)
Diabete tipo 1 Alla diagnosi, per fini educativi/dimostrativi.
Dopo 5 anni dalla diagnosi o alla pubertà:
  • in assenza di retinopatia: almeno ogni 2 anni;
  • in presenza di retinopatia non proliferante lieve: ogni 12 mesi;
  • in presenza di retinopatia non proliferante moderata: ogni 6-12 mesi;
  • in presenza di retinopatia più avanzata: a giudizio dell’oculista.
Diabete tipo 2 Alla diagnosi, perché è già possibile riscontrare retinopatia a rischio.
Successivamente:
  • in assenza di retinopatia: almeno ogni 2 anni;
  • in presenza di retinopatia non proliferante lieve: ogni 12 mesi;
  • in presenza di retinopatia non proliferante moderata: ogni 6-12 mesi;
  • in presenza di retinopatia più avanzata: a giudizio dell’oculista.
In gravidanza In fase di programmazione, se possibile.
Alla conferma della gravidanza:
  • in assenza di lesioni: almeno ogni 3 mesi fino al parto;
  • in presenza di retinopatia di qualsiasi gravità: a giudizio dell’oculista.
Eseguire lo screening o ripeterlo più frequentemente in caso di: Ricoveri ospedalieri di pazienti diabetici, per qualsiasi patologia intercorrente di interesse medico o chirurgico.
Insufficienza reale cronica.
Recente intervento per cataratta.
Pazienti con diabete di tipo 1 sottoposti a trapianto di pancreas isolato o combinato rene-pancreas.

 

In considerazione del fatto che la maggior parte dei pazienti che sviluppano RD non ha sintomi fino a quando compaiono la RD proliferante e il DME, e che queste condizioni possono essere trattate favorevolmente con la foto-coagulazione laser ed attualmente anche con la somministrazione intra-vitreale di corticosteroidi e inibitori del VEGF, di comprovata efficacia nella prevenzione della perdita visiva, è evidente che l’identificazione precoce della RD mediante uno screening sulla popolazione diabetica attraverso un esame oftalmoscopico e/o foto del fondo oculare, il controllo dei fattori di rischio (glicemia, ipertensione arteriosa), il trattamento delle forme a rischio di cecità e un adeguato follow-up nel tempo, possono migliorare la prognosi visiva e ridurre i costi di gestione della malattia. Quindi, per prevenire i danni visivi prodotti dalla RD sono elementi essenziali la diagnosi precoce attraverso programmi di screening e interventi di terapia altrettanto precoci e mirati.

 

Bibliografia

  1. The Diabetes Control and Complications Trial Research Group. The effect of intensive treatment of diabetes on the development and progression of long-term complications in insulin-dependent diabetes mellitus. N Engl J Med 1993, 329: 977–86.
  2. UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) Group. Intensive blood-glucose control with sulphonylureas or insulin compared with conventional treatment and risk of complications in patients with type 2 diabetes (UKPDS 33). Lancet 1998, 352: 837–53.
  3. Writing Team for the Diabetes Control and Complications Trial/Epidemiology of Diabetes Interventions and Complications Research Group. Effect of intensive therapy on the microvascular complications of type 1 diabetes mellitus. JAMA 2002, 287: 2563-9.
  4. Holman RR, Paul SK, Bethel MA, et el. 10-year follow-up of intensive glucose control in type 2 diabetes. N Engl J Med 2008, 359: 1577-89.
  5. Bethel MA, Diaz R et al. HbA1C change and diabetic retinopathy during GLP-1 receptor agonist cardiovascular outcome trials: a meta-analysis and meta-regression. Diabetes Care 2021, 44: 290-6.
  6. Marshall G, Garg SK, Jackson WE, et al. Factors influencing the onset and progression of diabetic retinopathy in subjects with insulin-dependent diabetes mellitus. Ophthalmology 1993, 100: 1133–9.
  7. UK Prospective Diabetes Study Group. Tight blood pressure control and risk of macrovascular and microvascular complications in type 2 diabetes: UKPDS 38. Br Med J 1998, 317: 703-13.
  8. Danser AH, van den Dorpel MA, Deinum J, et al. Renin, prorenin, and immunoreactive renin in vitreous fluid from eyes with and without diabetic retinopathy. J Clin Endocrinol Metab 1989, 68: 160–7.
  9. Chaturvedi N, Sjolie AK, Stephenson JM, et al. Effect of lisinopril on progression of retinopathy in normotensive people with type 1 diabetes. Lancet 1998, 351: 28-31.
  10. Sjølie AK, Klein R, Porta M, et al, DIRECT Programme Study Group. Effect of candesartan on progression and regression of retinopathy in type 2 diabetes (DIRECT-Protect 2): a randomised placebo-controlled trial. Lancet 2008, 372: 1385–93.
  11. Keech AC, Mitchell P, Summanen PA, et al. Effect of fenofibrate on the need for laser treatment for diabetic retinopathy (FIELD study): a randomized controlled trial. Lancet 2007, 370: 1687-97.
  12. Chew EY, Davis MD, Danis RP, et al; Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes Eye Study Research Group. The effects of medical management on the progression of diabetic retinopathy in persons with type 2 diabetes: The Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes (ACCORD) Eye Study. Ophthalmology 2014, 121: 2443-51.
  13. Gruppo di Studio Complicanze Oculari della Società Italiana di Diabetologia. Linee guida per lo screening, la diagnostica e il trattamento della retinopatia diabetica in Italia. Revisione e aggiornamento a cura del Gruppo di Studio Complicanze Oculari della Società Italiana di Diabetologia. Revisione e aggiornamento 2015 della versione 2013.
  14. Antonetti DA, Klein R, Gardner TW. Diabetic retinopathy. N Engl J Med 2012, 366: 1227-39.
  15. Bäcklund LB, Algvere PV, Rosenqvist U. New blindness in diabetes reduced by more than one-third in Stockholm County. Diabet Med 1997, 14: 732-40.
  16. Javitt JC, Aiello LP. Cost-effectiveness of detecting and treating diabetic retinopathy. Ann Intern Med 1996, 124: 164-9.
  17. Porta M, Maurino M, Severini S, et al. Clinical characteristics influence screening intervals for diabetic retinopathy. Diabetologia 2013, 56: 2147-52.
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Barbara Pirali
Ambulatori Endocrinologia e Diabetologia, Humanitas Mater Domini, Castellanza (VA)

(aggiornato al 12 ottobre 2015)

 

La neuropatia diabetica è una patologia eterogenea con diverse forme cliniche. In essa possiamo distinguere:

  • polineuropatie simmetriche, suddivise in:
  • sensitivo-motoria cronica;
  • dolorosa acuta;
  • vegetativa;
  • neuropatie focali e multifocali, comprendenti:
  • mononeuropatie;
  • radiculopatie toraco-addominali;
  • amiotrofia;
  • neuropatia autonomica.

 

Bibliografia

  • Boulton AJ, Vinik AI, Arezzo JC, et al. Diabetic neuropathies: a statement by the American Diabetes Associatio. Diabetes Care 2005, 28: 956-62.
  • AMD-SID. Standard Italiani per la cura del diabete mellito. 2014.
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Barbara Pirali
Ambulatori Endocrinologia e Diabetologia, Humanitas Mater Domini, Castellanza (VA)

(aggiornato al 12 ottobre 2015)

 

POLINEUROPATIA DIABETICA SENSITIVO-MOTORIA (DPN)

Epidemiologia e patogenesi
La DPN è la forma più frequente di neuropatia diabetica, con una prevalenza nei diabetici adulti tra il 20% e il 30% (1,2). Può essere documentata anche in pazienti in età giovanile.
È una polineuropatia simmetrica sensitivo-motoria lunghezza-dipendente, attribuibile ad alterazioni metaboliche e micro-vascolari, conseguenti all’esposizione a iperglicemia cronica e a cofattori di rischio cardio-vascolare.
Fattori di rischio: scarso compenso metabolico, ipertensione arteriosa, dislipidemia, durata del diabete, indice di massa corporea, fumo di sigaretta e consumo di alcol (3).

 

Clinica
Deficit di sensibilità a distribuzione simmetrica e distale con o senza sintomi neuropatici tipici sono altamente suggestivi di DPN.
Sintomi neuropatici positivi: parestesie e dolore agli arti inferiori, spesso descritto come urente, iperestesia e allodinia.
Sintomi neuropatici negativi: intorpidimento, anestesia, perdita della sensibilità termica, andatura barcollante con frequenti cadute. Ciò può portare a lesioni traumatiche ai piedi, che causano infezioni o ulcerazioni (1,2).
L’esame clinico comprende la valutazione dei seguenti punti:

  • sensibilità pressoria mediante monofilamento 10 g sul dorso dell’alluce;
  • sensazione vibratoria mediante diapason 128 Hz sul dorso dell’alluce;
  • sensibilità dolorifica mediante puntura di spillo sul dorso dell’alluce (su cute integra);
  • sensibilità tattile mediante batuffolo di cotone sul dorso del piede;
  • riflessi rotuleo e achilleo;
  • forza muscolare mediante estensione dell’alluce, dorsi-flessione della caviglia.

Lo screening della polineuropatia sensitivo-motoria simmetrica distale cronica è clinico e comprende la valutazione della perdita della sensibilità pressoria al monofilamento di 10 g e della sensibilità vibratoria mediante diapason sul dorso dell’alluce. Deve essere eseguito in tutti i diabetici tipo 2 alla diagnosi e nei diabetici tipo 1 dopo 5 anni di durata della malattia. Sono stati valutati sistemi strutturati a punteggio come il Diabetic Neuropathy Index (tabella: positivo se > 2 punti) (4-6).

 

Diabetic Neuropathy Index
Parametro Punteggio
Ispezione del piede: deformità, cute secca, callosità, infezione o ulcera Normale = 0
Alterato = 1
Se ulcera = + 1
Riflessi achillei Presente = 0
Con rinforzo = 0.5
Assente = 1
Sensibilità vibratoria dell’alluce Presente = 0
Ridotta = 0.5
Assente = 1

 

La valutazione del dolore neuropatico è inoltre fondamentale per la diagnosi della forma dolorosa di DPN e anche per il follow-up della risposta al trattamento. Per la diagnosi di neuropatia diabetica dolorosa occorre che sia presente dolore neuropatico riferibile alla DPN, quindi con la stessa localizzazione dei deficit sensitivi.

Va posta diagnosi differenziale con:

  • polineuropatia cronica infiammatoria demielinizzante;
  • neuropatia da carenza di vitamina B12;
  • gammopatie monoclonali;
  • altre polineuropatie, quali le forme familiari, tossiche, neoplastiche, ipotiroidee, uremiche e alcoliche.

Oltre alla rilevazione dei segni clinici, sono pertanto utili dosaggi plasmatici di:

  • vitamina B12 (in particolare in pazienti in terapia con metformina);
  • protidogramma elettroforetico;
  • creatinina;
  • TSH.

Gli esami elettrofisiologici non sono necessari per lo screening della polineuropatia diabetica, mentre sono indispensabili per la diagnosi differenziale qualora le caratteristiche cliniche siano atipiche. Se affetto da polineuropatia diabetica, il paziente deve essere educato alla prevenzione delle ulcerazioni (1,2,6).

 

NEUROPATIA AUTONOMICA (DAN)

Epidemiologia e patogenesi
È una complicanza frequente del diabete mellito, con una prevalenza di circa il 20% dei pazienti.
Fattori di rischio: età, durata della malattia, tipo di diabete, compenso metabolico e fattori di rischio cardio-vascolare.
La DAN si associa ad aumentata mortalità: per questo motivo si consiglia grande attenzione allo screening, per meglio permettere interventi preventivi nei diabetici affetti da tale complicanza (7,8).

 

Clinica
Le manifestazioni cliniche della DAN sono numerose e possono interessare tutti gli apparati.

Cardiovascolare (CAN)
È la forma clinicamente più importante di neuropatia autonomica.
Segni clinici: tachicardia a riposo, intolleranza all’esercizio fisico e ipotensione ortostatica. Alla CAN si associano molte altre anomalie, tra cui allungamento dell’intervallo QT e reverse dipping (salita invece che calo pressorio notturno), perdita delle variazioni riflesse della frequenza cardiaca, ridotta sensibilità del baro-riflesso, squilibrio simpato-vagale con predominanza simpatica, ischemia miocardica silente e instabilità peri-operatoria cardio-vascolare e cardiaca.
Screening:

  • accurata anamnesi, integrata dalla ricerca dei segni clinici e dai test dei riflessi cardio-vascolari, in quanto i sintomi sono aspecifici e non consentono da soli di porre diagnosi di disfunzione vegetativa;
  • test cardio-vascolari: si basano sulle modificazioni riflesse della frequenza cardiaca o della pressione arteriosa. I test della frequenza cardiaca più utilizzati sono il deep breathing (serie di espirazioni e inspirazioni profonde), la manovra di Valsalva (espirazione forzata contro resistenza) e il lying-to-standing (alzarsi in piedi dopo essere stati sdraiati su un lettino).

Per uno screening ambulatoriale possono essere utilizzati il test dell’ipotensione ortostatica più due test della frequenza cardiaca (deep breathing più manovra di Valsalva o lying-to-standing).

 

Gastro-intestinale
Segni clinici:
disfagia, gastroparesi, stipsi, diarrea, incontinenza fecale. La gastroparesi deve essere sospettata in pazienti con controllo glicemico irregolare, o con significativi sintomi gastrici senza altre cause apparenti.

 

Uro-genitale
Segni clinici: disfunzione vescicale e disfunzione erettile.

Possono inoltre essere compromessi la funzionalità delle ghiandole sudoripare e la capacità di riconoscimento dei segni dell’ipoglicemia (1,7,8).

 

Bibliografia

  1. AMD-SID. Standard Italiani per la cura del diabete mellito. 2014.
  2. Boulton AJ, Vinik AI, Arezzo JC, et al. Diabetic neuropathies: a statement by the American Diabetes Association. Diabetes Care 2005, 28: 956-62.
  3. Tesfaye S, Boulton AJ, Dyck PJ, et al; Toronto Diabetic Neuropathy Expert Group. Diabetic neuropathies: update on definitions, diagnostic criteria, estimation of severity, and treatments. Diabetes Care 2010, 33: 2285-93.
  4. Fedele D, Comi G, Coscelli C, et al. A multicenter study on the prevalence of diabetic neuropathy in Italy. Italian Diabetic Neuropathy Committee. Diabetes Care 1997, 20: 836-43.
  5. Feldman EL, Stevens MJ, Thomas PK, et al. A pratical two step quantitative clinical and electrophysiological assessment for the diagnosis and staging of diabetic neuropathy. Diabetes Care 1994, 17: 1281-9.
  6. Bril V, Perkinf B, Toth C; for the Canadian Diabetes Association Clinical Practice Guidelines Expert Committee. Clinical practice guidelines. Neuropathy. Can J Diabetes 2013, 37: S142-4.
  7. Vinik AI, Maser RE, Mitchell BD, et al. Diabetic autonomic neuropathy. Diabetes Care 2003, 26: 1553-79.
  8. Spallone V, Ziegler D, Freeman R, et al; on behalf of the Toronto Consensus Panel on Diabetic Neuropathy. Cardiovascular autonomic neuropathy in diabetes: clinical impact, assessment, diagnosis, and management. Diabetes Metab Res Rev 2011, 27: 639-53.
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La nefropatia diabetica (ND) rappresenta la più comune complicanza micro-vascolare del diabete mellito, interessando circa il 30% dei diabetici di tipo 1 dopo almeno 10 anni dalla diagnosi, e il 20% dei tipo 2 anche all’esordio di malattia. Si associa ad aumentato rischio cardio-vascolare ed è la prima causa di malattia renale cronica terminale (ERSD) nel mondo (1).

 

Classificazione, stadiazione e patogenesi

Clinica e diagnostica

Prevenzione, terapia e follow-up

 

Bibliografia

  1. Cefalu WT, Buse JB, Tuomilehto J, et al. Update and next steps for real-world translation of interventions for type 2 diabetes prevention: Reflections from a diabetes care editors’ expert forum. Diabetes Care 2016, 39: 1186-201.

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Barbara Pirali
Ambulatori Endocrinologia e Diabetologia, Humanitas Mater Domini, Castellanza (VA)

(aggiornato al 12 ottobre 2015)

 

È importante ottimizzare il compenso glicemico per ridurre il rischio di insorgenza e progressione della neuropatia. Mentre vi è evidenza netta che il controllo glicemico ottimale prevenga lo sviluppo della DPN nel diabete tipo 1, non vi è un’evidenza altrettanto robusta nel diabete tipo 2, dove è possibile che per ottenere una migliore protezione sia necessario un intervento terapeutico mirato anche ad altri fattori di rischio cardio-vascolare (1).
Il trattamento farmacologico è indicato per il dolore neuropatico della DPN e per le forme cliniche della neuropatia autonomica per ridurre i sintomi e migliorare la qualità della vita.
Sono attualmente disponibili diversi farmaci con efficacia confermata, tuttavia, a eccezione della duloxetina e del pregabalin, nessuno di essi è specificamente autorizzato per il trattamento del dolore da DPN (1-4).

Farmaci di prima linea: anti-depressivi triciclici (amitriptilina 10-75 mg/die, imipramina 25-75 mg/die), a2-ligandi (gabapentin 300-3600 mg/die, pregabalin 150-600 mg/die), anti-depressivi serotoninergici noradrenergici (duloxetina 60-120 mg/die) (1-4).

Farmaci di seconda linea: oppioidi (tramadolo 50-400 mg/die, ossicodone RP 10-60 mg/die, tapentadolo RP 100-200 mg/die), terapie topiche con capsaicina per forme localizzate di dolore e fisiche con la TENS (1-4).

Le dosi indicate si riferiscono a pazienti adulti. La dose ottimale è la dose più bassa richiesta per il massimo di efficacia senza significativi effetti avversi. È preferibile iniziare con i dosaggi minori e aumentare lentamente la dose (1).
Il trattamento della neuropatia dolorosa è spesso problematico a causa dell’efficacia limitata dei farmaci disponibili e dei frequenti eventi avversi, che rendono necessari per molti dei farmaci la titolazione e il monitoraggio dell’efficacia e della sicurezza del trattamento (1).

In diabetici adulti con gastroparesi può essere effettuata terapia con gastro-cinetici come metoclopramide, domperidone o eritromicina (1).

 

Bibliografia

  1. AMD-SID. Standard Italiani per la cura del diabete mellito. 2014.
  2. Diabetic peripheral neuropathic pain. Consensus guidelines for treatment. American Society of Pain Educators. J Fam Pract 2006, suppl: 3-19.
  3. Dworkin RH, O’Connor AB, Audette J, et al. Recommendations for the pharmacological management of neuropathic pain: an overview and literature update. Mayo Clin Proc 2010, 85 (suppl 3): S3-14.
  4. Tesfaye S, Vileikyte L, Rayman G, et al; on behalf of the Toronto Expert Panel on Diabetic Neuropathy. Painful diabetic peripheral neuropathy: consensus recommendations on diagnosis, assessment and management. Diabetes Metab Res Rev 2011, 27: 629-38.
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Maria Paola Luconi & Elena Tortato
UOC Malattie Metaboliche e Diabetologia, INRCA IRCCS Ancona

(aggiornato al 28 giugno 2021)

 

La progressione della nefropatia nel DM tipo 1 è imprevedibile e strettamente legata all’intensità del controllo glucidico, lipidico e pressorio. Studi iniziali riportano una progressione da micro- a macroalbuminuria in circa l’80% dei soggetti, in una mediana di 6-14 anni, mentre gli studi più recenti sostengono l’ipotesi di una regressione da micro- a normo-albuminuria nell’arco di 6-10 anni con uno stringente controllo metabolico, specie tra quanti presentano basso rischio di perdita funzionale renale (1,2).
Nel diabete tipo 2, sviluppo e progressione di malattia renale sono altamente variabili. L’UKPDS ha osservato la presenza di micro-albuminuria e riduzione del filtrato glomerulare, rispettivamente, nel 38% e nel 29% degli individui arruolati, in una mediana di 15 anni, e una progressione da micro- a macro- albuminuria e da macro-albuminuria a ESRD, rispettivamente, del 2.8% e 2.3% per anno. Gli studi epidemiologici confermano, inoltre, che il danno renale progredisce con il tempo; la presenza di micro-albuminuria, ad esempio, sale dal 7% delle persone all’esordio di malattia, al 28% di quelle con lunga storia di diabete (circa 15 anni) (3).

In passato, la ND veniva definita dal riscontro di albuminuria ≥ 300 mg/die in una persona diabetica. Albuminuria e perdita di funzione renale possono coesistere, e la prima può comparire quando il danno glomerulare è già significativo (4). Possono tuttavia riscontrarsi due fenotipi:

  • non-albuminurico: diminuito filtrato renale stimato (eGFR) senza proteinuria, presente in una percentuale considerevole di individui;
  • albuminurico: con micro- o macro-albuminuria senza consensuale riduzione del GFR.

Albuminuria e perdita di funzione renale possono coesistere, e la prima può comparire quando il danno glomerulare è già significativo (4).
Non disponiamo ancora di una classificazione esaustiva della ND, per l’ampia varietà delle sue manifestazioni. Nel 2010 Tervaert e coll (5) ne proposero una basata sulla tipologia di lesioni tubulo-interstiziali e vascolari, più spesso riscontrabili nel paziente con DM1; una seconda, suggerita nel 2013 da Geith e colleghi (6), descriverebbe meglio l’evoluzione del danno renale cronico in persone con DM2 e comorbilità quali l’ipertensione arteriosa sistemica (tabella 1).

 

Tabella 1
Stadiazione delle alterazioni morfo-strutturali renali nella nefropatia diabetica
Secondo Tervaert (5)
  • Stadio 1: ispessimento della membrana basale glomerulare.
  • Stadio 2: espansione mesangiale moderato-severa.
  • Stadio 3: sclerosi nodulare.
  • Stadio 4: glomerulo-sclerosi tubulare avanzata (incluse lesioni tubulo-interstiziali e vascolari).
Secondo Gheith (6)
  • Stadio 1 (prima dei 5 anni dall’esordio): GFR borderline, assenza di albuminuria, ipertensione, aumento volumetrico del rene di circa il 20% conseguente ad aumentato flusso plasmatico renale.
  • Stadio 2 (dopo più di 2 anni dall’esordio): ispessimento della membrana basale glomerulare e proliferazione mesangiale, GFR normale, assenza di sintomi clinici.
  • Stadio 3 (tra i 5 e i 10 anni): presenza/assenza di ipertensione, danno glomerulare e micro-albuminuria (30-300 mg/die).
  • Stadio 4: proteinuria irreversibile, ipertensione, eGFR < 60 mL/min/1.73 m2.
  • Stadio 5: malattia renale cronica terminale con eGFR < 15 mL/min/1.73 m2.

 

Meccanismi patogenetici della ND
L’iperglicemia è il principale fattore di rischio della ND. Molti studi hanno mostrato una relazione diretta tra scarso compenso metabolico e progressione della complicanza. Tuttavia, anche in caso di controllo glucidico intensivo, è possibile osservare una nefropatia progressivamente ingravescente nel 30% dei casi; ciò suggerisce l’interazione patogenetica di fattori ambientali, genetici ed epigenetici.
Il fenomeno per cui individui con precoce esposizione a elevati livelli glicemici, seppur mantenuti entro un range terapeutico desiderabile, sviluppino complicanze vascolari, è noto come “memoria metabolica” ed è riconducibile all’attivazione di vie di segnale infiammatorio (via dell’esosamina, dei polioli e della diacilglicerolo-protein-chinasi C), allo stress ossidativo, all’azione nociva dei prodotti avanzati della glicazione e a modificazioni epigenetiche (7,8). Queste ultime sono oggetto di particolare attenzione, perché potrebbero spiegare la variabilità inter-individuale della ND e rappresentare possibili obiettivi terapeutici. Con il termine epigenetica si intende l’insieme dei cambiamenti di espressione genica (genotipi) capaci di generare fenotipi ereditabili, attraverso processi quali metilazione del DNA, cambiamenti istonici e modulazione dell’RNA non-codificante. Queste modifiche determinerebbero una disregolazione del micro-ambiente metabolico renale, l’attivazione di geni pro-infiammatori e fibrotici, e l’inibizione di geni protettivi, con conseguente infiammazione cronica e danno renale (glomerulo-sclerosi, ispessimento della matrice mesangiale extra-cellulare, podocitopatia, fibrosi tubulo-interstiziale) (9,10).

 

Bibliografia

  1. de Boer IH, Afkarian M, Rue TC, et al. Renal outcomes in patients with type 1 diabetes and macroalbuminuria. J Am Soc Nephrol 2014, 25: 2342-50.
  2. Hovind P, Tarnow L, Rossing P, et al. Predictors for the development of microalbuminuria and macroalbuminuria in patients with type 1 diabetes: inception cohort study. BMJ 2004, 328: 1105-8.
  3. Retnakaran R, Cull CA, Thorne KI, et al. Risk factors for renal dysfunction in type 2 diabetes. UK prospective diabetes study 74. Diabetes 2006, 55: 1832-9.
  4. Pugliese S, Solini A, Bonora E, et al. Chronic kidney disease in type 2 diabetes: lessons from the Renal Insufficiency And Cardiovascular Events (RIACE) Italian Multicentre Study. Nutr Metab Cardiovasc Dis 2014, 24: 815-22.
  5. Tervaert TW, Mooyaart AL, Amann K, et al. Pathologic classification of diabetic nephropathy. J Am Soc Nephrol 2014, 21: 556-63.
  6. Gheith O, Farouk N, Nampoory N, et al. Diabetic kidney disease: world wide difference of prevalence and risk factors. J Nephropharmacol 2016, 5: 49-56.
  7. Sulaiman MK. Diabetic nephropathy: recent advances in pathophysiology and challenges in dietary management. Diabetol Metab Syndr 2019, 11: 7.
  8. Zheng W, Guo J, Liu Z-S. Effects of metabolic memory on inflammation and fibrosis associated with diabetic kidney disease: an epigenetic perspective. Clin Epigenetics 2021, 13: 87.
  9. Goldberg AD, Allis CD, Bernstein E. Epigenetics: a landscape takes shape. Cell 2007, 128: 635-8.
  10. Keating ST, El-Osta A. Glycemic memories and the epigenetic component of diabetic nephropathy. Curr Diab Rep 2013, 13: 574-81.
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Ettore Pala*, Moreno Di Cesare*, Elena Tortato
UOC Nefrologia* & Diabetologia, ASUR Marche, AV 4, Fermo

 

La microalbuminuria, ossia l’escrezione urinaria di albumina compresa tra 30 e 300 mg/24 ore (20-200 μg/min) può rappresentare una precoce manifestazione di nefropatia diabetica, ed è anche il più semplice e sensibile parametro per rilevare il rischio di nefropatia (tab 1).

 

Tabella 1
Classificazione dell’albuminuria in relazione alle modalità di raccolta urinaria
  24 ore (mg/24h) Notturna (µg/min) Primo mattino
(mg/g o µg/mg creatinina)
Normoalbuminuria < 30 < 20 < 30
Microalbuminuria 30-299 20-199 30-299
Macroalbuminuria (o albuminuria clinica) ≥ 300 ≥ 200 ≥ 300

 

La microalbuminuria può regredire, rimanere a lungo nel range che la identifica, oppure progredire. Quando progredisce, evolve verso la macroalbuminuria (albuminuria > 300 mg/24h o > 200 μg/min; proteinuria > 500 mg/24h) e, talora, verso la sindrome nefrosica (proteinuria > 3.5 g/24h).
Esiste una relazione lineare tra livelli di HbA1c e aumentata escrezione urinaria di albumina, ed è provata l’efficacia del ripristino di un buon controllo glicemico nel prevenire o rallentare lo sviluppo della nefropatia diabetica (ND).
La proteinuria è, sia nel diabete tipo 1 sia in quello di tipo 2, un importante predittore di insufficienza renale, in quanto contribuisce di per sé al danno glomerulare e tubulare attraverso meccanismi emodinamici (vasodilatazione prevalente dell’arteriola afferente, aumento del flusso plasmatico renale, incremento della velocità di filtrazione glomerulare) e metabolici (aumentata produzione di superossido a livello mitocondriale e attivazione della cascata infiammatoria).
Lo screening è raccomandato annualmente nel diabete tipo 1, con durata del diabete > 5 anni, e in tutti i diabetici di tipo 2, iniziando al momento della diagnosi (1). La maggior parte delle linee guida raccomanda la valutazione dell'albuminuria come rapporto albuminuria/creatininuria (albumin-to-creatinine ratio, ACR, mg/g o μg/mg) sulle urine del mattino, in quanto la sola concentrazione urinaria dell’albumina, senza il contemporaneo dosaggio della creatinina urinaria, ha bassa sensibilità e specificità. La valutazione dell’escrezione urinaria di albumina può essere in alternativa effettuata attraverso la misurazione dell’albuminuria su raccolta urinaria delle 24 ore (mg/24 ore). L’analisi sul campione di urine (occasionale o preferibilmente del mattino) per il calcolo del rapporto ACR è una metodica di screening adeguata e raccomandata dalla maggior parte delle autorità scientifiche (2).
Condizioni particolari (tab 2) possono dare risultati falsamente positivi. In presenza di tali condizioni, l’esecuzione del test di screening deve essere rimandata.

 

Tabella 2
Cause di albuminuria transitoria
Attività fisica intensa
Infezioni del tratto urinario
Mestruazioni
Febbre
Scompenso cardiaco
Scompenso glicemico acuto
Ipertensione arteriosa non controllata

 

A causa della variabilità dell’escrezione urinaria di albumina, prima di considerare un soggetto come micro/macroalbuminurico è necessario riscontrare valori anormali in almeno due su tre test misurati nell’arco temporale di 6 mesi (1).
Alcune condizioni, quali assenza di retinopatia, veloce aumento della proteinuria o insorgenza precoce di sindrome nefrosica, veloce peggioramento della funzione renale, presenza di ematuria, alterazioni laboratoristiche non inquadrabili nella malattia diabetica (ad es. indici infiammatori autoimmunitari) dovrebbero porre il sospetto di nefropatia di altro tipo sovrapposta al diabete, da indagare allo stesso modo dei pazienti non diabetici, compreso l’accertamento bioptico (tab 3).

 

Tabella 3
Fattori che indirizzano nella diagnosi del tipo di nefropatia
Nefropatia diabetica Altra nefropatia sovrapposta a diabete
Albuminuria persistente
Sedimento urinario blando
Progressione lenta
GFR bassa associata a proteinuria franca
Altre complicanze diabetiche
Durata diabete > 5 anni

Proteinuria > 6 g/die
Persistente ematuria o sedimento attivo
Rapido peggioramento della GFR
GFR bassa con proteinuria scarsa o assente
Assenza di altre complicanze diabetiche
Durata diabete < 5 anni
Storia familiare di nefropatie non diabetiche
Segni e sintomi di altre patologie

 

In tutti gli adulti con diabete, indipendentemente dal grado d’escrezione urinaria di albumina, bisogna misurare almeno annualmente la creatininemia per la stima della velocità di filtrazione glomerulare (VGF o GFR). La creatininemia non dovrebbe essere usata da sola come misura della funzionalità renale, ma piuttosto essere utilizzata per stimare il volume filtrato glomerulare, utilizzando la formula di Cockcroft-Gault o l’equazione dello studio MDRD modificata secondo Levey (3). Più recentemente è stata proposta e validata una nuova equazione, la chronic kidney disease epidemiology collaboration (CKD-EPI), che utilizza gli stessi parametri della formula semplificata MDRD. L'equazione CKD-EPI consente una maggiore precisione e una minore sovrastima della prevalenza di CKD rispetto alla formula dello studio MDRD (4).

Formula MDRD semplificata
VFG = 186 x creatininemia-1.154 x età-0.203 x K1 x K2
creatininemia in mg/dL, età in anni
K1 = 1 se etnia caucasica e 1.21 se etnia nera
K2 = 1 se maschio e 0.742 se femmina
Esempio: femmina di 60 anni di etnia caucasica con creatininemia di 1 mg/dL
VFG = 186 x 1-1.154x 60-0.203 x 1 x 0.742 = 60 mL/min/1.73 m2

 

Formula CKD-EPI:
VFG = a x (creatininemia/b)c x 0.993d
creatininemia in mg/dL, età in anni
a = 144 per donne non nere, 141 per uomini non neri, 166 per donne nere, 163 per uomini neri
b = 0.7 per donne, 0.9 per uomini
c = -0.329 nelle donne e -0.411 negli uomini se creatininemia ≤ 0.7, -1.209 in entrambi i sessi se creatininemia > 0.7
d = età
Esempio (con gli stessi dati di prima)
VFG = 144 x (1/0.7)-1.209 x 0.99360 = 61 mL/min/1.73 m2

 

Esistono comunque calcolatori online che permettono di ottenere i valori dei pazienti inserendo i relativi dati di partenza:

 

La definizione di malattia renale cronica attualmente utilizzata in tutto il mondo è quella proposta nel 2002 dalla National Kidney Foundation (NKF) (5), che prende in considerazione due fattori: il danno renale e la riduzione della funzione renale, intesa come VGF stimata.
Il danno renale è diagnosticato a partire da reperti di laboratorio (presenza di albumina - micro o macroalbuminuria -, proteine o tracce di sangue di origine renale nelle urine), strumentali (alterazioni patologiche individuabili con l’ecografia renale) o istologiche (biopsia renale), persistenti da almeno tre mesi. La presenza di tali segni consente di porre diagnosi di malattia renale cronica, anche quando la GFR è ancora normale o aumentata (stadio 1) o solo lievemente ridotta (stadio 2). I tre stadi successivi sono invece caratterizzati da livelli progressivamente più ridotti di eGFR, indipendentemente dalla presenza o meno di albuminuria.
Nel 2004 la KDIGO (Kidney Disease: Improving Global Outcomes) ha aggiunto a tale classificazione un riferimento all’eventuale terapia sostitutiva, con l’aggiunta di una lettera T per trapianto e D per dialisi. Così, i primi quattro stadi possono essere ulteriormente suddivisi in base al fatto se il paziente sia stato o meno trapiantato, nel qual caso vengono contrassegnati con una T, mentre il quinto stadio in base al fatto se il paziente sia o meno in dialisi, nel qual caso viene contrassegnato con una D.

 

Tabella 4
Classificazione degli stadi dell’insufficienza renale
Stadio Descrizione eGFR (mL/min/1.73 m2)
1 Danno renale con eGFR normale o aumentata ≥ 90
2 Danno renale con lieve riduzione di eGFR 60-89
3 Riduzione moderata di eGFR 30-59
4 Riduzione grave di eGFR 15-29
5 Insufficienza renale terminale o uremia < 15 o terapia sostitutiva

 

Bibliografia

  1. AMD-SID. Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito. 2014.
  2. Eknoyan G, et al. Proteinuria and other markers of chronic kidney disease: a position statement of the National Kidney Foundation (NKF) and the National Institute Of Diabetes And Digestive And Kidney Diseases (NIDDK). Am J Kidney Dis 2003, 42: 617-22.
  3. Levey AS, Bosch JP, et al. A more accurate method to estimate glomerular filtration rate from serum creatinine: a new prediction equation: Modification of Diet in Renal Disease Study Group. Ann Intern Med 1999, 130: 461-70.
  4. Levey AS, Stevens LA, Schmid CH, et al. A new equation to estimate glomerular filtration rate. Ann Intern Med 2009, 150: 604-12.
  5. National Kidney Foundation. K/DOQI clinical practice guidelines for chronic kidney disease: evaluation, classification, and stratification. Am J Kidney Dis 2002, 39 (suppl 1): S1-266.
  6. Canadian Diabetes Association Clinical Practice Guidelines Expert Committee. Chronic kidney disease in diabetes. Can J Diabetes 2013, 37 suppl 1: S129-36.
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Maria Paola Luconi & Elena Tortato
UOC Malattie Metaboliche e Diabetologia, INRCA IRCCS Ancona

(aggiornato al 28 giugno 2021)

 

Prevenzione
Sono possibili tre livelli di prevenzione (tab 1).

 

Tabella 1
Prevenzione della nefropatia diabetica
  A chi si applica Scopo Misure
Primaria Diabetici con normoalbuminuria Prevenire microalbuminuria Accurato controllo glicometabolico: esiste una stretta associazione tra HbA1c e albuminuria, soprattutto nel diabete tipo 2. Il rischio di microalbuminuria aumenta dell’8% per ogni variazione di 0.9% nei valori di HbA1c.
Inizio di dieta iposodica e, se necessario, inizio di terapia anti-ipertensiva in pazienti con PA > 130/85 mmHg, preferibilmente iniziando con ACE-inibitori e/o sartani.
Abolizione del fumo e correzione del sovrappeso.
Secondaria Diabetici con microalbuminuria Prevenire sviluppo di nefropatia diabetica Accurato controllo glicometabolico.
Raggiungimento dei target pressori ideali (120/75 mmHg, prima scelta ACE-inibitori e/o sartani).
Abolizione del fumo, correzione del sovrappeso e della dislipidemia.
Terziaria Nefropatia diabetica conclamata Prevenire o ritardare lo svliluppo di ESRD Accurato controllo glicometabolico.
Raggiungimento dei target pressori ideali (120/75 mmHg, prima scelta ACE-inibitori e/o sartani), da usare con cautela però nei pazienti con significative alterazioni del filtrato glomerulare.
Abolizione del fumo, correzione del sovrappeso e della dislipidemia.
Dieta lievemente ipoproteica (0.7-0.9 g/kg/die).

 

 

Strategie terapeutiche disponibili e potenziali (tab 2)
L’intervento finalizzato a ridurre la progressione della ND e il rischio cardio-vascolare (CV) ad essa associato dovrebbe essere multi-fattoriale, rivolto quindi al controllo glicemico e pressorio, al trattamento della dislipidemia, alla restrizione di sodio e proteine, all’abolizione del fumo di sigaretta.
Gli inibitori del sistema renina-angiotensina (RAS) hanno rappresentato negli ultimi 20 anni lo standard terapeutico della ND; ora possiamo avvalerci anche degli agonisti recettoriali del GLP-1 (GLP1-RA) e degli inibitori del co-trasportatore 2 sodio-glucosio (SGLT2-In), per le evidenze di nefro-protezione ottenute dai grandi studi di esito CV. L’aspetto interessante emerso è come la protezione renale si esplichi a prescindere dai meccanismi di controllo glucidico, e in primo luogo, attraverso una riduzione dell’albuminuria.
Liraglutide, semaglutide e dulaglutide sono i tre GLP1-RA con documentata efficacia in termini di riduzione dell’albuminuria e rallentamento della progressione a macro-albuminuria. Sembrerebbero anche in grado di ritardare la perdita di funzione renale (la progressiva riduzione del GFR), ma i meccanismi di nefro-protezione non sono ancora chiari e attendiamo i risultati dell’unico studio con end-point primario renale relativo a semaglutide (1-4).
Anche gli SGLT2-In (gliflozine) hanno mostrato effetti benefici cardiaci e renali, e in particolare protezione dallo scompenso cardiaco; le Società Scientifiche ADA ed EASD ne raccomandano l’uso in persone con DM2 con danno renale (macro-albuminuria o eGFR 30-90 mL/min/1.73 m2) (5). In analisi post-hoc dello studio EMPA-REG è stata osservata una riduzione dell’albuminuria e del declino funzionale renale con empagliflozin, anche in persone con eGFR basale < 30 mL/min/1.73 m2; è in corso uno studio dedicato. Le sotto-analisi dello studio VERTIS CV con ertugliflozin hanno mostrato una riduzione di circa il 34% dell’end-point renale composito (riduzione sostenuta del GFR del 40%, dialisi o trapianto d’organo, mortalità per cause renali) e una riduzione significativa dell’albuminuria (6). Nello studio CREDENCE, canagliflozin ha ridotto di circa il 30% l’incidenza dell’end-point composito primario cardio-renale (raddoppio della creatininemia, ESRD, mortalità cardiaca o renale) in un gruppo di diabetici tipo 2 ad alto rischio per macro-albuminuria e diminuzione del filtrato renale al basale (eGFR 30-90 mL/min/1.73 m2). Lo studio è stato interrotto prematuramente per i brillanti risultati raggiunti; l’NNT per prevenire un evento renale è risultato pari a 22 (7). Anche il più recente studio DAPA-CKD, focalizzato sugli effetti renali di dapagliflozin, è stato interrotto precocemente per efficacia: riduzione di circa il 39% dell’end-point composito primario (declino sostenuto del GFR stimato di almeno il 50%, ESRD, mortalità per cause cardiache o renali); NNT = 19. Lo studio ha arruolato anche soggetti con nefropatia non-diabetica (circa un terzo) con risultati sovrapponibili (8). Le ragioni della nefro-protezione da parte degli SGLT2-In sono molteplici e non del tutto chiarite, ma in prima ipotesi riconducibili a una modifica dell’emodinamica renale, con riduzione della pressione intra-glomerulare indotta da glicosuria e natriuresi. Coesisterebbero riduzione dello stress ossidativo, modesto incremento dell’angiotensinogeno e inibizione dell’attività dell’inflammasoma NLRP3.
Lo spironolattone, aggiunto a basso dosaggio ad ACE-inibitore o sartano in studi di piccole dimensioni, è risultato in grado di ridurre l’albuminuria, a discapito di un rialzo della kaliemia; è però in studio il finerenone, nuovo antagonista recettoriale non-steroideo dei mineralcorticoidi, che ha mostrato analoghe proprietà in diabetici tipo 2 (riduzione di circa il 18% del rischio di danno renale, riduzione sostenuta di almeno il 40% dell’eGFR, mortalità per causa cardiaca o renale) e minori effetti collaterali (9).
L’atrasentan, un antagonista recettoriale dell’endotelina, ha ridotto il numero di eventi renali severi in pazienti con DM2 e malattia renale cronica (riduzione del 35% dell’incidenza di raddoppio sostenuto della creatininema, riduzione sostenuta del GFR < 15 mL/min/1.73 m2, necessità di dialisi cronica o trapianto renale, o mortalità renale), tuttavia con aumentato rischio di ipervolemia e anemizzazione rispetto al placebo. La molecola non è commercializzata, ma sono in valutazione altri antagonisti recettoriali selettivi dell’endotelina (10).
In merito ai meccanismi epigenetici coinvolti nello sviluppo e nella progressione della ND, i due più studiati sono la metilazione del DNA e l'acetilazione dell'istone (11,12). Diversamente dai fattori genetici, poco modificabili, i processi epigenetici potrebbero rappresentare un obiettivo terapeutico. Studi preclinici hanno, infatti, descritto il potenziale beneficio di inibitori di tali processi di metilazione e acetilazione, così come della tecnologia “anti-senso”, che utilizza brevi sequenze nucleotidiche in grado di appaiarsi per specularità a un filamento di DNA codificante (senso) o mRNA complementare per annullarne l’attività biologica (13).

 

Tabella 2
Strategie terapeutiche utili a contrastare l’esordio e la progressione della ND
Disponibili Potenziali
  • Restrizione proteica e sodica
  • Inibitori del RAS
  • Controllo lipidico
  • Controllo glucidico:
    • GLP1-RA con documentata azione nefro-protettrice (liraglutide, semaglutide, dulaglutide)
    • SGLT2-In
  • Abolizione del fumo di sigaretta
  • Antagonista recettoriale dei mineralcorticoidi (finerenone)
  • Antagonisti recettoriali dell’endotelina
  • Terapia anti-senso o terapie con azione diretta sulle modificazioni epigenetiche coinvolte nella ND

 

 

Follow-up
Lo screening è raccomandato almeno annualmente in tutti i pazienti con diabete tipo 2 fin dal momento della diagnosi della malattia, mentre nei pazienti con diabete tipo 1 lo screening annuale è indicato quando la durata della malattia è superiore a 5 anni, in quanto la microalbuminuria raramente compare nel paziente con diabete tipo 1 di recente insorgenza.
Inoltre, lo screening deve essere eseguito nelle donne diabetiche in gravidanza. Infatti, nel diabete in gravidanza la microalbuminuria è un forte predittore di pre-eclampsia (6-8).

 

Bibliografia 

  1. Mann JFE, Ørsted DD, Buse JB. Liraglutide and renal outcomes in type 2 diabetes. N Engl J Med 2017, 377: 2197-8.
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Paolo Falasca
Servizio di Endocrinologia e Diabetologia, UOC di Medicina Interna, Ospedale "San Sebastiano Martire", Frascati (RM)

 

EPIDEMIOLOGIA

Il diabete mellito è uno dei principali fattori di rischio indipendenti per l’insorgenza di infarto del miocardio. Circa un terzo dei pazienti ricoverati per sindrome coronarica acuta ha una diagnosi definita di diabete e il diabete viene diagnosticato durante il ricovero per l’evento acuto in un ulteriore 15% di pazienti (1).
Il rischio di morbilità e mortalità cardiovascolare è aumentato di 2-3 volte nel diabete mellito di tipo 2 (2 volte nell’uomo, 4 volte nella donna) ed è pari a quello dei non diabetici che abbiano già subito un infarto miocardico. L’esordio della patologia coronarica è anticipato di circa 15 anni in presenza di diabete mellito e vi è un’aumentata incidenza di eventi ischemici ricorrenti post-infartuali, così come di insufficienza cardiaca e shock.
La mortalità annuale negli adulti diabetici è di circa il 5.4% (il doppio dei non diabetici) e la spettanza di vita è ridotta mediamente di 5-10 anni (2).
Ovviamente questo comporta un significativo costo/anno della gestione del paziente diabetico e i dati più recenti dimostrano un progressivo incremento del carico economico complessivo del paziente diabetico, pari a circa il 40% negli ultimi cinque anni (3).

 

FISIOPATOLOGIA

Mentre le complicanze macrovascolari sono più frequenti nel diabete di tipo 2, quelle microvascolari prevalgono nel diabete di tipo 1. Di fatto, le complicanze microvascolari riconoscono l’iperglicemia come unico fattore di rischio.
Per le complicanze macrovascolari, non solo la durata della malattia ma anche la concomitante presenza di altri fattori di rischio, quali ipertensione arteriosa, fumo di sigaretta, dislipidemia, comportano la comparsa delle manifestazioni cliniche (4). Inoltre, un ruolo importante è svolto dall'insulino-resistenza, che precede anche di molti anni l’evidenza clinica del diabete mellito di tipo 2 (sindrome metabolica) ed è caratterizzata dalla triade dislipidemia, ipertensione, stato protrombotico (elevati fibrinogeno plasmatico e inibitore dell’attivatore del plasminogeno, PAI -1) con iperinsulinemia e ridotta tolleranza al glucosio o alterata glicemia a digiuno, elevate VLDL e LDL con bassi livelli di HDL. L’iperinsulinemia favorisce la proliferazione delle cellule muscolari lisce e l’incremento della sintesi di proteine della matrice extra-cellulare (collagene IV, laminina, fibronectina), con aumento di spessore della membrana basale, mentre l’iperglicemia provoca la glicosilazione delle proteine intra ed extra-cellulari e l'aumento delle sostanze ossidanti locali.
La macroangiopatia diabetica è di fatto caratterizzata da un processo di aterosclerosi non differente rispetto alla popolazione non diabetica, tuttavia le placche aterosclerotiche appaiono più vulnerabili e prone alla rottura per una maggiore componente infiammatoria al loro interno. La rottura delle placche aterosclerotiche è la base fisiopatologica della sindrome coronarica acuta.
Oltre al danno vascolare, il diabete comporta una maggiore tendenza all’aggregazione piastrinica, fattore che contribuisce alla patogenesi delle sindromi coronariche acute e che può essere una delle principali difficoltà della gestione terapeutica.

 

MANAGEMENT

Prevenzione primaria
Per anni si è cercato di comprendere se un buon controllo metabolico del diabete riesca a ottenere una riduzione della progressione delle lesioni arteriosclerotiche. Molti studi hanno dimostrato che un controllo glicemico adeguato (valori di HbA1c < 7%) può influenzare significativamente l’incidenza della cardiopatia ischemica. Nello specifico, ogni punto percentuale di riduzione di HbA1c può determinare una riduzione del 14% del rischio di infarto (5). È interessante inoltre notare che i pazienti arruolati nell’UKPDS (United Kingdom Prospective Diabetes Study), seguiti per ulteriori 10 anni in uno studio osservazionale, presentavano la cosiddetta “memoria metabolica”, ovvero chi aveva ottenuto con un trattamento intensivo precoce valori più adeguati di glicemia e di HbA1c, manteneva il beneficio nel tempo (6).

 

Sindrome coronarica acuta
Come è noto, nel paziente diabetico la presentazione clinica della sindrome coronarica acuta può essere particolarmente atipica, con assenza di dolore toracico e prevalenza di equivalenti ischemici quali dispnea o sincope. L’atipicità dell’espressione clinica implica una seria difficoltà nell’individuazione rapida e nella gestione precoce delle sindromi coronariche acute. Poiché il diabetico è per definizione un paziente ad alto rischio, in presenza di un sospetto clinico, tutti i pazienti diabetici dovrebbero essere sottoposti urgentemente ad elettrocardiogramma, per verificare e definire la presenza e la tipologia della sindrome coronarica.
I due capisaldi della terapia delle sindromi coronariche acute nel paziente diabetico sono un’aggressiva inibizione piastrinica e una strategia invasiva precoce.
A tutti i pazienti dovrebbe essere somministrato acido acetilsalicilico e studi recenti hanno dimostrato come, in aggiunta a questo, i nuovi antagonisti del recettore P2Y21, quali ticagrelor e in particolare prasugrel, mostrano risultati superiori al clopidogrel (7-9).
Nell’ambito delle sindromi coronariche acute senza sopra-slivellamento del tratto ST, il beneficio di una precoce angiografia coronarica e, se necessario, di una rivascolarizzazione mediante angioplastica è molto più pronunciato nei pazienti diabetici rispetto ai non diabetici (10). In caso di sindrome coronarica acuta con sopra-slivellamento del tratto ST, tutti i pazienti diabetici e non diabetici devono inoltre essere sottoposti ad angioplastica primaria (11).
Per ridurre le complicanze emorragiche legate agli accessi vascolari, un approccio radiale potrebbe risultare più favorevole nei pazienti diabetici (12).
Frequentemente, i diabetici che si presentano nei dipartimenti di emergenza con una sindrome coronarica acuta presentano un significativo scompenso glicemico (13). I valori di iperglicemia all’esordio peraltro rappresentano un indice prognostico negativo. Per questo motivo, molta attenzione è stata posta al trattamento intensivo dell’iperglicemia. Due studi condotti dallo stesso gruppo svedese mostrano risultati importanti: da una parte, un trattamento intensivo mediante insulina somministrata per via endovenosa comporta una riduzione della mortalità; dall’altra parte, questa modalità di somministrazione dell’insulina potrebbe comportare la comparsa di ipoglicemie che rappresentano la principale causa di un’aumentata mortalità in questi pazienti. In questo caso anche un trattamento non intensivo mediante insulina sottocute o ipoglicemizzanti orali potrebbe ottenere alla stessa maniera un adeguato controllo metabolico in assenza di rischi (14-15).

 

Prevenzione secondaria
In questo ambito, la somministrazione di statine ad elevato dosaggio (16) e di ACE-inibitori comporta un miglioramento significativo della prognosi nei pazienti diabetici con sindrome coronarica acuta. La somministrazione di ß-bloccanti è essenziale per la prevenzione secondaria dell’infarto e non dovrebbe essere omessa per la presunta controindicazione data dal fatto che questi farmaci possono mascherare i sintomi di ipoglicemia.

 

BIBLIOGRAFIA

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Paolo Falasca
Servizio di Endocrinologia e Diabetologia, UOC di Medicina Interna, Ospedale "San Sebastiano Martire", Frascati (RM)

 

EPIDEMIOLOGIA

Il diabete mellito è un importante fattore di rischio modificabile per l’insorgenza di un primo evento cerebrovascolare acuto di tipo ischemico. L’associazione di diabete e ischemia cerebrale acuta rappresenta la causa maggiore di mortalità, morbilità e disabilità nel mondo (1). Molti studi epidemiologici suggeriscono fra la popolazione di diabetici (soprattutto di tipo 2) un rischio di stroke aumentato rispetto ai soggetti non diabetici: 2-3 volte maggiore negli uomini e 2-5 volte maggiore nelle donne. Inoltre, anche il danno ischemico transitorio (TIA) sembra essere più frequente nei diabetici (circa 2–6 volte rispetto alla popolazione generale). Il diabete raddoppia il rischio di recidiva di ictus. La prognosi dello stroke risulta significativamente peggiore nei pazienti diabetici, con aumento dei tempi di ospedalizzazione, maggiore mortalità a lungo termine, minore e più lento recupero, maggiore disabilità neurologica residua per infarti di equivalenti dimensioni che si verificano nella popolazione non diabetica (2,3). L’aumentato rischio di ictus ischemico nel paziente diabetico sembrerebbe essere causato dalla complessa interazione tra le varie componenti emodinamiche e metaboliche caratteristiche della malattia diabetica (4,5).
I dati riguardanti il rischio di stroke nei diabetici di tipo 1 sono meno chiari, tuttavia i soggetti con lunga durata di malattia sembrerebbero avere un rischio totale di mortalità ictus-correlato di circa il 10%.
Sono pochi anche gli studi che esaminano l’incidenza di ictus emorragico nella popolazione diabetica. Tuttavia, non sembra essere presente un’aumentata associazione tra diabete e rischio di emorragia intra-cranica o subaracnoidea (5).

 

FISIOPATOLOGIA

La valutazione anatomo-patologica del tessuto cerebrale di soggetti diabetici colpiti da ictus mostra una quota più elevata di malattia dei piccoli vasi a carico delle arterie penetranti che irrorano le aree talamiche e sub-talamiche, con conseguente aumento del tasso di infarti lacunari. Questa alterazione anatomo-patologica dei piccoli vasi penetranti sembra essere un’entità patologica specifica risultante dall’ipertrofia della muscolatura liscia della tonaca media, con successivo accumulo di materiale proteico (arteriosclerosi ialina) e occlusione del vaso (5).
La malattia dei grossi vasi nei pazienti diabetici non sembra differire da quella presente nei soggetti non diabetici. Oltre ai classici fattori di rischio riconosciuti associati all’ictus acuto (ipertensione arteriosa, dislipidemia, fibrillazione atriale), nel diabete sono presenti specifici fattori di rischio, come la resistenza insulinica e la conseguente iperinsulinemia, l’obesità centrale, la ridotta tolleranza al glucosio. Anche se i livelli di glucosio rappresentano l'anomalia più evidente nei pazienti diabetici, esistono altri fattori potenzialmente importanti che contribuiscono a rendere la malattia diabetica un fattore di rischio per l’insorgenza di eventi cerebrovascolari più frequenti e gravi, come la disfunzione piastrinica, l’iperviscosità, l’ipercoagulabilità, la disfunzione endoteliale e la ridotta attività fibrinolitica (5). Tutti questi fattori dovrebbero essere presi in considerazione e affrontati nella gestione del rischio vascolare globale nei pazienti con diabete. Pertanto, l’approccio globale al paziente diabetico deve prevedere una strategia multi-fattoriale rivolta alle modifiche dello stile di vita, controllo della pressione arteriosa, trattamento della dislipidemia e controllo glicometabolico, al fine di ridurre morbilità e mortalità cardio-cerebrovascolare.

 

MANAGEMENT

I dati provenienti da una molteplicità di studi clinici dimostrano la necessità di un intervento precoce e aggressivo, per ridurre i fattori di rischio cardiovascolare nel paziente diabetico, in maniera tale da prevenire insorgenza, recidiva e progressione dell’ischemia cerebrale acuta.

 

Prevenzione primaria
Recenti linee guida sulla gestione del rischio vascolare nella popolazione diabetica sono tutte concordi sul fatto che il grado di rischio per i pazienti non-diabetici sottoposti a misure di prevenzione secondaria è equivalente al grado di rischio primario dei pazienti diabetici, anche in assenza di una prova diretta di malattia vascolare attiva. Allo stato attuale, non esistono dati da ampi studi sulla popolazione diabetica che dimostrino in maniera indiscutibile i benefici della prevenzione primaria dell’ictus (6). Tuttavia, si possono ragionevolmente estendere in questa popolazione con un così elevato rischio cardiovascolare globale i dati attualmente disponibili sul beneficio della prevenzione primaria nella malattia aterosclerotica di altri distretti (ad esempio l’utilizzo dell’aspirina in prevenzione primaria nella cardiopatia ischemica) (7).
Un aspetto specifico della prevenzione primaria cerebrovascolare è quello riguardante la terapia anti-coagulante nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare. In una coorte di pazienti con questa patologia dello studio UKPDS (United Kingdom Prospective Diabetes Study), esisteva un rischio di ictus ischemico otto volte maggiore. Nello studio Stroke Prevention in AF, è stato dimostrato che se la fibrillazione atriale non valvolare si associa ad altri fattori di rischio cardiovascolare (età > 75 anni, ipertensione arteriosa, insufficienza cardiaca congestizia, disfunzione ventricolare sinistra, precedente malattia trombo-embolica), dovrebbe essere iniziata la terapia anti-coagulante orale con warfarin, mantenendo l'INR in un range terapeutico compreso fra 2 e 3. Questo intervento terapeutico si traduce in una riduzione del rischio di ictus pari al 75% (8). Nel caso non siano presenti altri fattori di rischio o se i rischi della terapia anti-coagulante sono considerati troppo alti (sanguinamenti), una strategia terapeutica alternativa può essere rappresentata da ASA o altri farmaci anti-aggreganti piastrinici, benché non esistano prove conclusive circa la loro effettiva efficacia nel prevenire l'ictus ischemico (7). È ancora in corso un vivace dibattito circa l’utilizzo di ASA nei pazienti diabetici in prevenzione primaria cardiovascolare, in particolare dopo i risultati dello studio multicentrico POPADAD (6).
Per quanto riguarda i pazienti con fibrillazione atriale e malattia valvolare, questi dovrebbero essere comunque sottoposti a terapia anti-coagulante (8).

 

Gestione dello stroke nel paziente diabetico
Il management in acuto dell’ischemia cerebrale acuta si concentra su due obiettivi fondamentali: la terapia di supporto generale e la riduzione al minimo dell'area ischemica cerebrale, in maniera tale da aumentare le possibilità di recupero funzionale.
Nei pazienti diabetici la terapia di supporto iniziale dell’ictus non differisce da quella dei pazienti non diabetici, e consiste in valutazioni cliniche di base e procedure diagnostiche finalizzate a determinare la causa e prevenire le complicanze. Pertanto, sono di importanza fondamentale il monitoraggio di saturazione di ossigeno, pressione arteriosa, frequenza cardiaca e respiratoria, temperatura corporea. In caso di necessità, è importante la prescrizione di ossigeno-terapia e il mantenimento della pervietà delle vie aeree. Inizialmente, deve essere evitata l'assunzione orale fino a quando sia stata valutata la sicurezza della deglutizione in termini di integrità e stabilità. Dovrebbe essere iniziata la somministrazione di liquidi per via endovenosa, al fine di preservare lo stato di idratazione. Le indagini diagnostiche dovrebbero includere esami ematochimici di base (comprendenti glicemia, emocromo completo, coagulazione), ECG per escludere la presenza di ischemia miocardica acuta (considerare  monitoraggio elettrocardiografico continuo) e TC dell’encefalo senza mezzo di contrasto il più presto possibile. La TC diventa obbligatoria in caso di indicazione alla terapia trombolitica.
Riguardo alla pressione arteriosa, tranne nei casi di valori severamente aumentati, la maggior parte delle linee guida non raccomanda di iniziare la terapia anti-ipertensiva nell’immediato periodo post-ictus, poiché i meccanismi di auto-regolazione cerebrale sono solitamente compromessi nel periodo di acuzie e quindi può determinarsi lo sviluppo di una zona di penombra ischemica a causa dell’eccessiva riduzione dei valori di pressione arteriosa. Spesso si assiste alla normalizzazione dei livelli pressori dopo le prime 24-48 ore, senza la necessità di un intervento specifico.
Molti lavori scientifici suggeriscono che l'iperglicemia rilevata nelle prime fasi di ictus sembrerebbe essere associata ad esiti peggiori (parallelamente a quanto osservato nella sindrome coronarica acuta). In effetti, l'iperglicemia è un rilievo molto comune nell’ischemia cerebrale acuta (25-50% di tutti i pazienti colpiti da ictus). Esperimenti eseguiti su animali dimostrano che l'infusione di insulina può essere in grado di ridurre al minimo il danno ischemico indotto da lesioni indotte chirurgicamente. Nonostante tutto, rimane controversa la gestione dell'iperglicemia in corso ictus acuto (è generalmente definito tale, il periodo compreso entro le prime 24 ore dall’insorgenza della sintomatologia neurologica); le evidenze a sostegno dello stretto controllo glicemico nel corso di ictus ischemico acuto non sono conclusive. Una revisione sistematica della Cochrane Collaboration ha valutato studi randomizzati controllati che hanno confrontato la terapia insulinica intensiva (glicemia mantenuta tra 72 e 135 mg/dL) rispetto alla terapia convenzionale in pazienti adulti con ictus ischemico acuto con o senza diabete (9). La revisione sistematica ha incluso 7 studi per un totale di 1296 pazienti (639 partecipanti nel gruppo di intervento e 657 nel gruppo di controllo). Non è stata osservata nessuna differenza tra i gruppi di trattamento e di controllo in termini di morte o disabilità o deficit neurologico permanente. In un'analisi di un sottogruppo di pazienti diabetici rispetto a soggetti non diabetici, non è stata dimostrata nessuna differenza in termini di esiti di morte, disabilità e deficit neurologico. Pertanto, gli autori concludono che nello stroke acuto rispetto al trattamento convenzionale non è vantaggioso l'utilizzo di insulina secondo schemi intensivi, che può, al contrario, essere più nocivo a causa del maggior rischio di ipoglicemia. Pertanto, allo stato attuale non esiste nessun target glicemico specifico nei pazienti con ictus (9). Tuttavia, anche ai pazienti affetti da ictus cerebrale acuto rimangono applicabili le raccomandazioni delle principali società scientifiche diabetologiche di mantenere i livelli glicemici al di sotto di 180 mg/dL nella maggior parte dei pazienti ricoverati (10-16).
Riguardo al trattamento trombolitico, la maggior parte degli studi clinici dimostra i benefici della terapia precoce (entro 3-4 ore dalla comparsa dei sintomi) con rt-PA per il recupero effettivo a 3 mesi dopo un ictus ischemico. Alcune sotto-analisi di studi eseguite su pazienti diabetici, hanno dimostrato una mortalità maggiore rispetto ai non diabetici, ma con un beneficio altrettanto importante dalla terapia trombolitica.

 

Prevenzione secondaria
Per quanto riguarda la prevenzione secondaria, a differenza dei dati sulla prevenzione primaria, esistono molteplici evidenze scientifiche provenienti da studi di intervento di grandi dimensioni. La prevenzione delle recidive di ictus nella popolazione diabetica è di particolare importanza, perché il diabete è stato descritto in studi osservazionali come un fattore determinante di re-ictus sia precoce che a lungo termine. In aggiunta, ci sono dimostrazioni che questo rischio secondario può essere significativamente ridotto attraverso uno stretto controllo glico-metabolico, come evidenziato pure dallo studio UKPDS.
Attualmente non è possibile affermare se sia il controllo glicemico o il tipo di trattamento utilizzato per raggiungerlo che conferisce il beneficio. Inoltre, è altrettanto chiaro da alcuni dei più grandi e recenti studi clinici di intervento (ACCORD, ADVANCE, VADT) che tali strategie intensive sono anche associate ad un aumento del rischio cardiovascolare se non attentamente implementate (rischio di ipoglicemie).
Per ciò che concerne la dislipidemia, la riduzione dei livelli di LDL-colesterolo ha un’elevata efficacia nella prevenzione secondaria delle malattie macrovascolari. Una coorte dello studio 4S (simvastatina), lo studio CURA e lo studio LIPID (pravastatina) hanno confermato ed esteso anche nei soggetti diabetici i benefici osservati nella popolazione non diabetica. Una meta-analisi ha evidenziato questo beneficio nella prevenzione secondaria nei pazienti con malattia vascolare trattati con statine, con una riduzione del 22% del rischio totale di ictus e del 28% di ictus trombo-embolico, del 23% di ictus non-fatale e del 2% per l'ictus fatale. I dati dello studio Heart Protection Study (HPS) hanno ulteriormente confermato questa tendenza.
Il controllo della pressione arteriosa ha dimostrato di svolgere un ruolo importante nella prevenzione secondaria dell’ischemia cerebrale acuta. Nell’UKPDS, si è dimostrato un rischio relativo di 0.56 nei pazienti con diabete assegnati a stretto controllo dell'ipertensione con captopril o atenololo, mentre il rischio relativo era 0.67 nella sottopopolazione di HOPE trattata con ramipril. Lo studio PROGRESS, utilizzando l’associazione di perindopril e indapamide in pazienti con pregresso ictus, ha mostrato una riduzione del rischio di stroke del 28% nel corso di un periodo di 4 anni (NNT = 11), con il 16% di riduzione di disabilità e il 13% di riduzione di demenza dopo l'ictus.
In aggiunta al controllo glicemico, pressorio e lipidico, è importante l’utilizzo di farmaci anti-aggreganti piastrinici. La maggior parte degli autori è in accordo sull’utilizzo, in generale, dei farmaci anti-aggreganti piastrinici nella prevenzione secondaria e in particolare sui vantaggi di ASA. Esiste, tuttavia, un dibattito circa il dosaggio più efficace da utilizzare. Esistono evidenze valide per dosaggi compresi fra 75 e 325 mg/die; inoltre, il rischio di sanguinamenti gastro-intestinali è equivalente anche per dosaggi più bassi. È stata segnalata la possibilità di una “aspirino-resistenza” nei pazienti diabetici, anche se gli studi clinici non hanno dimostrato alcun beneficio per dosaggi più elevati di ASA. Conseguentemente nella pratica clinica sono maggiormente utilizzati dosaggi compresi fra 75 e 150 mg/die. Come è noto, sono disponibili altri farmaci anti-aggreganti piastrinici, come ad esempio il clopidogrel. Quest’ultimo ha dimostrato un’ulteriore, ma non significativa, riduzione del rischio in prevenzione secondaria rispetto ad ASA, con complicanze ed effetti collaterali equivalenti. Tuttavia, pur non mostrando alcuna superiorità di effetto, il clopidogrel può essere utilizzato in particolari gruppi a rischio, ad esempio in caso di un evento ricorrente in corso di terapia con ASA in un individuo non adatto per terapia anti-coagulante orale. Un altro farmaco anti-aggregante piastrinico è la ticlopidina, impiegata con efficacia nella prevenzione secondaria dell’ictus, impiego spesso limitato nella pratica clinica dai suoi effetti collaterali.
Analogamente all’efficacia delle strategie di prevenzione per la malattia embolica nei pazienti con fibrillazione atriale, è stata suggerita la terapia anti-coagulante con warfarin nella prevenzione secondaria dell’ictus; tuttavia, per i pazienti in ritmo sinusale, le evidenze all'utilizzo del warfarin sono piuttosto scarse.
Nella prevenzione secondaria delle recidive di ictus è divenuto sempre più diffuso il ricorso alla terapia chirurgica, considerati i vantaggi dell’endo-arteriectomia carotidea in pazienti sintomatici con stenosi significativa dell'arteria carotide comune o interna. Attualmente, le indicazioni al trattamento chirurgico riguardano i pazienti sintomatici e con stenosi > 50%. Tuttavia, nonostante la prevalenza dieci volte maggiore di stenosi > 50% osservata nei pazienti diabetici rispetto ai non diabetici, i dati relativi ai benefici dell’endo-arteriectomia nei pazienti diabetici sono meno convincenti. In particolare, non sembra essere presente nessun beneficio statisticamente significativo nel gruppo di pazienti diabetici trattati chirurgicamente con stenosi comprese fra 50 e 70%. Esiste, anzi, un più elevato rischio di complicanze peri-operatorie (soprattutto infarto miocardico). Pertanto, stenosi < 70% possono essere più opportunamente trattate con angioplastica carotidea con impianto di stent.

 

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Alessandro Scorsone
UOC Medicina Interna, Centro di riferimento regionale Diabetologia e Impianto Microinfusori, Presidio Ospedaliero Civico Partinico, ASP 6 Palermo

(aggiornato all'8 maggio 2017)

 

L'arteriopatia è una condizione altamente invalidante che, oltre a coinvolgere le arterie degli arti inferiori, con ulcerazione nella maggioranza dei casi ed elevatissimo rischio di amputazione, si associa in maniera significativa a una localizzazione aterosclerotica severa a carico di altri distretti. L'alto tasso di patologie connesse (soprattutto cardiovascolari) pone l'attenzione non solo sul piede e sulle ulcere, ma, nell'ottica più corretta del paziente nella sua totalità, sulle varie condizioni cliniche che mettono a rischio la sua vita o la sua qualità. Il "piede diabetico" è la manifestazione locale di una condizione sistemica.
Nei soggetti con diabete mellito (DM) per ogni incremento di HbA1c dell’1%, il rischio di arteriopatia ostruttiva periferica (AOP) aumenta del 26%. L’AOP è circa 2.5-3 volte più frequente nei diabetici rispetto ai non diabetici, tuttavia i dati di prevalenza sono piuttosto variabili in relazione alla metodica di studio e al parametro considerato come indicativo di AOP. Molto spesso è assente la presenza di claudicatio intermittens, definibile come la presenza di dolore muscolare localizzato alle gambe (maggiormente ai polpacci, con interessamento via via più prossimale o distale in rapporto alla sede di stenosi/occlusione vasale) con compromissione della capacità di deambulare. Nel soggetto con DM il sintomo dolore non è riferito in maniera netta, sia per l’attenuazione (crampi o senso di fatica) che, come spesso accade, per l’assenza di sensibilità dovuta alla neuropatia diabetica quale complicanza associata.
La stragrande maggioranza delle ulcere su piede diabetico è di tipo neuro-ischemico. L’impiego della classificazione di Leriché-Fontaine o la scala Rutherford non trova una correlazione stretta con la presenza e severità dell’arteriopatia nel soggetto diabetico, data la presenza della neuropatia e, soprattutto in presenza di un'ulcera,  della ridotta capacità di movimento o dell’immobilità del soggetto stesso. In presenza di claudicatio, la valutazione della capacità di marcia attraverso la misurazione dell’intervallo libero di marcia relativo e assoluto e del tempo di recupero (treadmill test, tapis roulant, claudicometria in piano) sono indicati solo negli studi clinici e nei casi con sintomatologia dubbia. Sempre considerando la coesistenza della neuropatia, tale valutazione è inficiata dalla ridotta/assente sensibilità distale, rimanendo indaginosa e non disponibile in tutti i centri.
L’AOP nei soggetti diabetici è asintomatica nel 65% dei casi, si manifesta con claudicatio nel 35% e si presenta già come ischemia critica nel 10%. I segni e sintomi clinici “classici” dell’AOP (ipotermia, cianosi, ipotrofia, …) non si correlano in maniera significativa con la misurazione dell’indice caviglia-braccio (ABI), che in atto rappresenta l’indice di screening e valutazione temporale più affidabile, di basso costo e di maggiore applicabilità (1-3).Le linee guida ADA e SID-AMD raccomandano l'impiego dell'ABI con finalità di screening in tutti i soggetti con DM di età > 50 anni e in tutti i soggetti con DM1, indipendentemente dall'età e sempre in presenza di altri fattori di rischio CV (tab 1).

 

Tabella 1
Interpretazione risultati indice caviglia-braccio
ABI Valutazione
0.91-1.30 Normale
0.70-0.90 AOP lieve
0.40-0.69 AOP moderata
< 0.40 AOP severa
> 1.30 Non attendibile

 

 

Valori > 0.7 in presenza di un'ulcera del piede consentono ancora una sua guarigione (perfusione ridotta ma ancora sufficiente). Un indice ABI ridotto è comunque strettamente predittivo di un evento CV. Un valore > 1.30 (presenza di calcificazioni lungo il decorso dei vasi che ne alterano l'elasticità) si correla di per sé in maniera negativa con la neuropatia diabetica e la mortalità CV, ma non riveste un ruolo diagnostico in presenza di AOP.
Un aspetto diagnostico importantissimo è il riconoscimento dell’ischemia cronica critica (Critical Limb Ischemia, CLI), con la quale si definisce la presenza di ulcera o gangrena o dolore a riposo in soggetti con AOP dimostrata. In presenza di CLI, ad alto rischio di amputazione nei successivi 6-12 mesi, sono rilevabili pressione alla caviglia < 50-50 mmHg (< 30-50 mmHg all’alluce) o ossimetria trans-cutanea (su dorso del piede) < 30-50 mmHg. L’ossimetria trans-cutanea, con elettrodo posizionato sul dorso del piede, ci consente, al di là del livello soglia per amputazione maggiore (senza intervento di rivascolarizzazione), di ottenere informazioni diagnostiche sulla presenza di CLI e di ottenere informazioni nel contempo prognostiche sul ricorso all’amputazione e al suo livello o sulla probabilità di guarigione di una eventuale ulcera:

  • > 50 mmHg: buona probabilità
  • 30-50 mmHg: incerta
  • < 30 mmHg: improbabile.

Non esiste tuttavia una relazione diretta tra TcPO2  e grado di perfusione arteriosa, dato che valori vicini allo zero non indicano un'assenza di flusso ma una condizione di alto consumo di ossigeno a livello tissutale. L'attendibilità della TcPO2 si riduce inoltre in presenza di edema e cellulite del piede.
L'ecocolor-doppler è un’indagine non invasiva accurata, come emerge da meta-analisi di studi riguardanti vari segmenti arteriosi nei confronti con l'angiografia ed in molti casi, in associazione con metodiche radiologiche non invasive, ed è in grado di sostituire l'angiografia nella determinazione della strategia terapeutica. L'ecocolor-doppler è l’esame di primo livello per lo studio morfologico dei segmenti delle arterie dell’arto inferiore. È particolarmente indicato per lo studio della biforcazione femorale e delle arterie femorali superficiale e profonda. Nel distretto femoro-popliteo, per la diagnosi di stenosi ≥ 50% la sensibilità varia dall'82% al 95% con una specificità del 96%, mentre per la diagnosi di occlusione i valori sono sensibilità 90-95% e specificità 96-97%. Nel distretto infra-genicolare, la diagnosi di occlusione presenta sensibilità del 74% e specificità del 93%, mentre per le stenosi > 50% la sensibilità è risultata dell'83% e la specificità dell'84% (tab 2 e 3).

 

Tabella 2
Attendibilità metodiche strumentali nella diagnosi di occlusione arteriosa
  Sensibilità Specificità
Angio-RM 94% (85-100) 99.2% (97-99.8)
Angio-TC 97% (89-100) 99.6% (99-100)
Colordoppler 90% (74-94) 99% (96-100)

 

 

Tabella 3
Accuratezza diagnostica delle diverse metodiche
nella diagnosi di occlusione arteriosa, a seconda del livello
  AngioRM Ecodoppler
Sopra il ginocchio Sensibilità 87%, specificità 93% Sensibilità 88%, specificità 95%
Sotto il ginocchio Sensibilità 83%, specificità 92% Sensibilità 84%, specificità 93%
Al piede Sensibilità 79-86%, specificità 27-86% Sensibilità 64%, specificità 80%

 

 

L’unico svantaggio dell’ecocolor-doppler è l’essere operatore-dipendente e pertanto affidabile solo in mani esperte: se l'operatore é coinvolto nelle strategie diagnostico-terapeutiche del piede diabetico, è in grado di valutare in maniera corretta la sede ed il grado della stenosi/occlusione arteriosa.
Con l'impiego di angio-TC e angio-RM è possibile ottenere immagini, ripetibili, di aiuto nella pianificazione della procedura di rivascolarizzazione, fornendo informazioni in tempo reale anche sulla compromissione vascolare di altri distretti arteriosi. Queste due tecniche di imaging non sono tuttavia sempre reperibili presso i centri antidiabetici e sono costose. L'angio-RM ha il vantaggio di visualizzare tutti i distretti arteriosi senza l'impiego di mezzi di contrasto nefrotossici e ha una sensibilità pari a quella dell'angiografia digitale (verso cui si confrontano le tecniche di imaging non invasive) nei distretti aorto-iliaci e femoro-poplitei, nonchè a livello cerebrale e renale. Le sensibilità e specificità della metodica si riducono in corrispondenza del piede (inteferenza da parte del sistema venoso). L'angio-RM inoltre non fornisce informazioni sul tipo di placca responsabile della stenosi o dell’occlusione e risente degli artefatti in presenza di stent metallici o materiale protesico.
L'angio-TC multistrato consente una migliore definizione del tipo di placca e quindi fornisce maggiori informazioni sulla tecnica di rivascolarizzazione da utilizzare e sul tipo di materiale da impiegare rispetto alla RM, e dà anche maggiori informazioni sul parenchima circostante. Nonostante il tempo di acquisizione sia attualmente minore con le TC di ultima generazione con ridotta esposizione alle radiazioni, persiste il carico di mezzo di contrasto nefrotossico e in ogni caso i dati provenienti dalla letteratura non mostrano a livello del piede valori di sensibilità e specificità superiori alle altre tecniche di imaging.
L'angiografia rimane quindi la tecnica gold-standard per l'approccio diagnostico e nello stesso tempo terapeutico (l'angiografia a scopo puramente diagnostico dell'AOP non trova spazio nell'algoritmo di gestione del piede diabetico) in presenza di stenosi/occlusione arteriosa.
L'obiettivo della rivascolarizzazione è quello di riaprire tutti i vasi occlusi, ma non può prescindere dalla valutazione clinica e strumentale del soggetto con diabete, con ulcerazione presente o con altre comorbilità presenti. Se non è possibile quanto sopra, anche la riapertura del vaso corrispondente alla regione del piede (angiosoma) in cui si trova l'ulcera (wound-related artery) può essere in grado, qualunque sia la tecnica di rivascolarizzazione, di condurre al salvataggio dell'arto, in percentuale maggiore rispetto alla non riapertura anche parziale, o a guarigione più rapida dell'ulcera stessa. La rivascolarizzazione nel paziente diabetico è indicata (4,5) in presenza di:

  • claudicatio che crea disabilità e/o dolore a riposo;
  • ulcera e TcPO2 < 30 mmHg;
  • ulcera che non va incontro a guarigione entro un mese, nonostante tutti i tentativi possibili.

Controindicazioni alla rivascolarizzazione sono:

  • aspettativa di vita < 6 mesi;
  • incapacità a deambulare;
  • allettamento cronico;
  • presenza di flessione antalgica della gamba sulla coscia non regredibile;
  • presenza di disturbi pschiatrici.

L'angioplastica nel paziente con diabete e AOP è più maneggevole (se effettuata da persone esperte e in centri con grandi volumi) e tecnicamente valida, è gravata da un numero minore di complicazioni rispetto al by-pass e si è dimostrata in grado di ottenere il salvataggio d'arto. L'angioplastica può essere inoltre effettuata nei soggetti non candidabili al bypass (6). Quest'ultimo risulta maggiormente indicato nelle occlusioni della femorale comune, della sua biforcazione o in caso di occlusioni estremamente lunghe delle arterie femoro-poplitee e infra-poplitee.
In definitiva l'approccio diagnostico-terapeutico all’AOP nel soggetto diabetico, al di là della tecnica strumentale impiegata, data la paucità della sintomatologia clinica, eccezion fatta per la presenza di un'ulcera "sentinella" della sua possibile presenza, necessita di un team pluridisciplinare di esperti (diabetologo, infermiere specializzato, podologo, fisioterapista, chirurgo vascolare, emodinamista, infettivologo, ortopedico, psicologo) che affronti la condizione nella sua globalità (centrata sul paziente e le sue condizioni cliniche) e opportunità (obiettivi ideali o realistici e perseguibili, guarigione dell'ulcera e/o salvataggio d'arto).

 

Bibliografia essenziale

  1. Anderson JL, Halperin JL, Albert NM, et al. Management of patients with peripheral artery disease (Compilation of 2005 and 2011 ACCF/AHA Guideline Recommendations): a report of the American College of Cardiology Foundation/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines. Circulation 2013, 127: 1425-43.
  2. Aboyans V, Criqui MH, Abraham P, et al. Measurement and interpretation of the ankle-brachial index: a scientific statement from the American Heart Association. Circulation 2012, 126: 2890-909.
  3. AMD/SICVE/SID/SIRM. Documento di consenso sul trattamento dell'arteriopatia periferica nel diabetico. Dicembre 2012.
  4. Lipsky BA, Berendt AR, Cornia PB, et al. 2012 Infectious Diseases Society of America Clinical Practice Guideline for the diagnosis and treatment of diabetic foot infections. Clin Infect Dis 2012, 54: e132-73.
  5. Aiello A, Anichini R, Brocco E, et al. Treatment of peripheral arterial disease in diabetes: a consensus of the Italian Societies of Diabetes (SID, AMD), Radiology (SIRM) and Vascular Endovascular Surgery (SICVE). Nutr Metab Cardiovasc Dis 2014, 24: 355-69.
  6. Canadian Diabetes Association Clinical Practice Guidelines Expert Committee.Clinical Practice Guidelines. Foot Care. Can J Diabetes 2013, 37: S145-9.
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Enrico Papini, Roberta Rinaldi e Irene Misischi
UOC di Endocrinologia, Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale, Roma

 

Il rischio dell’ulcera del piede può coinvolgere il 25% dei pazienti con diabete (di tipo 1 o 2) (1) e rappresentare una delle principali cause di morbilità e mortalità.
Il primo passo nella gestione delle ulcere del piede diabetico è classificare la ferita. La classificazione si basa sulla valutazione clinica del grado della lesione e dello stato vascolare del piede. L'intensità e la durata del trattamento può essere determinata solo dopo un’accurata valutazione clinica dell'ulcera.
La classificazione più ampiamente utilizzata è quella proposta da Wagner (2) (tabella 1 e figure).

 

Tabella 1
Classificazione di Wagner delle ulcere diabetiche
Grado Descrizione
0 Nessuna ulcera in un piede ad alto rischio
1 Ulcera che coinvolge lo strato superficiale della pelle , ma non i tessuti sottostanti
2 Ulcera profonda, penetrante fino a legamenti e muscoli, ma in assenza di coinvolgimento osseo o formazione di ascesso
3 Ulcera profonda con cellulite o formazione di ascessi, spesso associata a osteomielite
4 Gangrena localizzata
5 Gangrena estesa a coinvolgere tutto il piede

 

 

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Figura 1 - Ulcera (grado 1 sec Wagner) che coinvolge lo strato superficiale della pelle

 

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Figura 2 - Ulcera (grado 2 sec Wagner) profonda, penetrante fino a legamenti e muscoli, ma in assenza di coinvolgimento osseo o formazione di ascesso

 

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Figura 3 - Ulcera (grado 3 sec Wagner) profonda con cellulite o formazione di ascessi

 

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Figura 4 - Gangrena localizzata (ulcera grado 4 sec Wagner)

 

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Figura 5 – Gangrena estesa a coinvolgere tutto il piede (ulcera grado 5 sec Wagner)

 

Poiché la classificazione di Wagner si basa unicamente sulla valutazione clinica (profondità dell'ulcera e presenza di necrosi) e non tiene conto dello stato vascolare del piede, sono stati proposti altri sistemi di classificazione. In particolare, il gruppo di lavoro internazionale sulle ulcere del piede diabetico ha proposto di classificare tutte le lesioni ulcerative secondo le seguenti categorie (3): perfusione, estensione, profondità, infezione, e sensibilità (PEDIS). Questa classificazione ha, però, unicamente scopo di ricerca.
Un altro sistema di classificazione è stato proposto dall’Università del Texas, allo scopo di valutare la profondità dell’ulcera, la presenza di infezione nella ferita e gli eventuali segni clinici di ischemia (4). Questo sistema utilizza una matrice di grading sull'asse orizzontale e di staging sull’asse verticale (tabella 2).

 

Tabella 2
Classificazione ulcere diabetiche secondo Università del Texas
  Grado
Stadio 0 1 2 3
A Zona non ulcerata o completamente riepitelizzata Ulcera superficiale che non coinvolge i tendini, le capsule o le ossa Ulcera profonda che coinvolge i tendini, le capsule o le ossa Ulcera penetrante in ossa o articolazioni
B Con infezione Con infezione Con infezione Con infezione
C Con ischemia Con ischemia Con ischemia Con ischemia
D Con infezione e ischemia Con infezione e ischemia Con infezione e ischemia Con infezione e ischemia

 

Uno studio prospettico condotto su 194 pazienti ha confrontato le due classificazioni (Wagner vs Texas University), concludendo che la classificazione dell’Università del Texas rappresenta un migliore indicatore prognostico (5), in quanto a un aumento dello stadio, indipendentemente dal grado, è associata un aumentato rischio di amputazione e un tempo più prolungato per la guarigione.
Recentemente è stata proposta la classificazione di Kobe, che si concentra sull'eziologia principale delle ulcere e ne propone un trattamento appropriato (tabella 3) (6).

 

Tabella 3
Classificazione di Kobe delle ulcere diabetiche
Tipo Eziologia e trattamento dell’ulcera
1 Ulcere principalmente causate da neuropatia periferica e trattate con i sistemi di scarico della pressione
2 Ulcere che derivano principalmente dalla malattia arteriosa periferica, il cui trattamento principale è la rivascolarizzazione
3 Ulcere che hanno nell’infezione l'eziologia principale e che richiedono spesso il debridement
4 Ulcere causate da una combinazione di tutti e tre i fattori (neuropatia periferica, malattia arteriosa periferica e infezioni), trattate con debridement e rivascolarizzazione da valutare caso per caso

 

Questi sistemi di classificazione illustrano la complessità e la natura multifattoriale delle ulcere del piede diabetico. Tuttavia, nessuno dei numerosi sistemi di classificazione è in grado di fornire una classificazione del rischio e di predire l’evoluzione della lesione ulcerativa.

 

Bibliografia

  1. Boulton AJ, Armstrong DG, Albert SF, et al. Comprehensive foot examination and risk assessment: a report of the task force of the foot care interest group of the American Diabetes Association, with endorsement by the American Association of Clinical Endocrinologists. Diabetes Care 2008, 31: 1679-85.
  2. O'Neal LW, Wagner FW. The diabetic foot. Mosby, St Louis 1983: p. 274.
  3. Schaper NC. Diabetic foot ulcer classification system for research purposes: a progress report on criteria for including patients in research studies. Diabetes Metab Res Rev 2004, 20 suppl 1: S90-5.
  4. Lavery LA, Armstrong DG, Harkless LB. Classification of diabetic foot wounds. J Foot Ankle Surg 1996, 35: 528–31.
  5. Oyibo SO, Jude EB, Tarawneh I, et al. A comparison of two diabetic foot ulcer classification systems: the Wagner and the University of Texas wound classification systems. Diabetes Care 2001, 24: 84–8.
  6. Terashi H, Kitano I, Tsuji Y. Total management of diabetic foot ulcerations: Kobe classification as a new classification of diabetic foot wounds. Keio J Med 2011, 60: 17–21.
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Paolo Marenco
AO "G. Salvini" di Garbagnate Milanese, PO di Garbagnate Milanese, 1° Divisione di Medicina Generale, Servizio di Diabetologia e Malattie Metaboliche Correlate

 

Il piede diabetico neuropatico è il risultato di un danno neurologico del sistema nervoso periferico nelle sue componenti sensitiva, motoria e autonomica (1-2).

 

Fisiopatologia e patogenesi
La presenza di una o più di queste componenti può portare a differenti presentazioni del piede diabetico neuropatico, ma tutte espongono al rischio di una lesione che può portare all’amputazione ed anche alla morte del paziente, nei casi in cui si sovrapponga un’infezione che da locale può diventare sistemica (3-5).
La componente sensitiva può determinare perdita della percezione del dolore, che arriva fino all’estremo di un intervento chirurgico senza bisogno di anestesia. In pratica, può essere presente una lesione anche vasta e infetta, senza che ne venga rilevata la presenza se non con l’osservazione diretta da parte del paziente, di un suo familiare o di un operatore sanitario.
La componente motoria determina alterazioni del rapporto fra muscoli flessori ed estensori, con conseguente sbilanciamento delle articolazioni. Si possono avere quindi dita a griffe, accentuazione del cavo del piede, sporgenza delle teste metatarsali, accentuazione di alterazioni strutturali già presenti (valgismi).
La componente autonomica è meno evidente. Agirebbe sulla sudorazione del piede, determinando secchezza della cute, con conseguenti fissurazioni cutanee che possono sovra-infettarsi, e poi sul microcircolo, determinando edema periferico, ipertermia ed arrossamento.

 

Clinica
Ipo/iperestesie, alterazioni della sensibilità, assenza del riflesso achilleo caratterizzano i primi stadi nella neuropatia.
L’ulcera del piede diabetico neuropatico si localizza in aree di eccessiva e anomala pressione, tipicamente alla pianta del piede (mal perforante plantare), specialmente in corrispondenza delle teste metatarsali e del tallone, all’apice di dita a martello. Spesso i margini sono ipercheratosici, non sempre corrispondenti alla parte visibile della lesione, occorre eseguire la specillazione.
Le alterazioni del microcircolo e dei rapporti articolari possono determinare osteo-artropatia, con conseguente crollo della volta plantare, erosioni, microfratture, che rientrano nel quadro di piede di Charcot (6-26).
In sintesi:

  • il piede diabetico neuropatico è deforme, rossastro, asciutto/ipercheratosico, caldo, con polsi presenti;
  • l’ulcera neuropatica si presenta in regione plantare/zone di appoggio, ha margini duri, non è dolorosa.

 

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Diagnostica
L’iter diagnostico del piede diabetico neuropatico prevede:

  • DNI (Diabetic Neuropatic Index): un questionario a punti che individua la neuropatia (tabella);
  • test con il monofilamento di Semmes-Weinstein per testare la sensibilità pressoria (fig 1);
  • test con diapason (sensibilità vibratoria)(fig 2);
  • test con biotesiometro per testare la sensibilità vibratoria (fig 3);
  • valutazione dei riflessi (achilleo).

 

Calcolo DNI

Ispezione del piede:

  • deformità
  • cute secca
  • callosità
  • infezione
  • ulcera

Normale = 0
Alterato = 1
(Ulcera + 1)

Riflessi achillei

Presente = 0
Con rinforzo = 0.5
Assente = 1

Sensibilità vibratoria dell’alluce

Presente = 0
Con rinforzo = 0.5
Assente = 1

Test positivo se > 2 punti

 

 

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Figura 1: test con monofilamento

 

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Figura 2: test con diapason

 

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Figura 3: biotesiometro

 

La podografia può essere di ausilio nelle fase di prevenzione o dopo la guarigione della lesione, per lo studio della camminata e della conseguente distribuzione delle forze di pressione, per costruire un plantare specifico per il singolo paziente (fig 4,5).

 

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Figura 4: podografia

 

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Figura 5: telepodometro

 

Bibliografia

  1. Reiber GE, Vileikyte L, Boyko EJ, et al. Causal pathways for incident lower-extremity ulcers in patients with diabetes from two settings. Diabetes Care 1999, 22: 157-62.
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  25. Ahmadi ME, Morrison WB, Carrino JA, et al. Neuropathic arthropathy of the foot with and without superimposed osteomyelitis: MR imaging characteristics. Radiology 2006, 238: 622-31.
  26. Apelqvist J, Bakker K, van Houtum WH, Schaper NC. International Working Group on the Diabetic Foot (IWGDF) Editorial Board. Practical guidelines on the management and prevention of the diabetic foot: based upon the International Consensus on the Diabetic Foot (2007). Diabetes Metab Res Rev 2008, 24 suppl 1: S181-7.
  27. Arad Y, Fonseca V, Peters A, Vinik A. Beyond the monofilament for the insensate diabetic foot. A systematic review of randomized trials to prevent the occurrence of plantar foot ulcers in patients with diabetes. Diabetes Care 2011, 34: 1041-6.
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Silvia Acquati
UO Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Dipartimento di Medicina Specialistica, Ospedale GB Morgagni, Forlì

(aggiornato al 7 settembre 2017)

 

Il piede diabetico vascolare (ischemico) è determinato dalla presenza di vasculopatia periferica, che si manifesta con la comparsa di ulcere e/o gangrena.
L’arteriopatia obliterante periferica (PAD) è più comune nei pazienti con diabete e circa il 50% dei pazienti con piede diabetico ulcerato è affetto da PAD. L’arteriopatia periferica nel diabete interessa prevalentemente il sistema vascolare infra-inguinale ed è diversa rispetto alla popolazione non diabetica per caratteristiche cliniche, trattamento ed esiti. Identificare la PAD in questi pazienti è importante, perché la sua presenza è associata ad esiti peggiori, come più lenta (o mancata) guarigione delle ulcere, maggiori tassi di amputazione degli arti inferiori, associazione con successivi eventi cardio-vascolari e mortalità.
La diagnosi di PAD è talora difficoltosa in pazienti con diabete, in quanto mancano spesso sintomi tipici, come claudicatio o dolore a riposo. Le calcificazioni della parete arteriosa, la presenza di infezione e la neuropatia periferica, spesso concomitanti, possono influire negativamente sulla validità dei test diagnostici per PAD. Di fronte a un sospetto di PAD, si dovrebbero sempre prendere in considerazione i potenziali effetti negativi sulla guarigione dell'ulcera e il rischio di amputazione.
La presenza di PAD deve essere ricercata annualmente in ogni paziente, almeno con anamnesi e palpazione dei polsi dei piedi. L’assenza dei polsi periferici e la presenza di un arto freddo, soffi femorali e un tempo di riempimento venoso lento sono tutti elementi clinici specifici che segnalano all'operatore sanitario la presenza di PAD. In una revisione sistematica recente (3), sono stati identificati come fattori predittivi di futura ulcerazione sintomi e segni di PAD, come polsi assenti, claudicatio e basso ABI.
Anche se l’anamnesi correttamente raccolta e l'esame obiettivo possono suggerire la presenza di PAD in un paziente con un'ulcera del piede, la loro sensibilità diagnostica è troppo bassa. Anche nelle mani di un esperto, nonostante la presenza di ischemia possono essere presenti polsi palpabili. Pertanto, in tutti i pazienti dovrebbe essere eseguita una valutazione più obiettiva. Nel contesto dell’esame clinico bisogna valutare forma dell’onda doppler delle arterie alla caviglia e al piede e misurare sia la pressione sistolica alla caviglia che l’indice caviglia-braccio ABI (vedi arteriopatia diabetica). Il riscontro di ABI < 0.9 è un test utile per la rilevazione di PAD nei soggetti diabetici asintomatici che non hanno neuropatia periferica. La neuropatia periferica è associata a calcificazioni della parete mediale delle arterie (sclerosi di Mönckeberg) nella parte inferiore della gamba, che può provocare arterie rigide ed elevato ABI, perché la sclerosi calcifica della tunica media non necessariamente causa stenosi arteriosa e ridotto flusso sanguigno. La presenza di arterie incomprimibili (definite da ABI ≥ 1.3), è un fattore associato a esiti peggiori nei pazienti ischemici. Al contrario, il rilevamento di una forma d’onda arteriosa trifasica con doppler portatile sembra più specifica per assenza di PAD. La pressione all’alluce può essere utile se ci sono fattori che influenzano l'ABI: la misurazione di un indice alluce-braccio (TBI) ≥ 0.75 rende improbabile la presenza di PAD. Tutte le tecniche devono essere eseguita in modo standardizzato da operatori qualificati. Gli operatori sanitari devono essere consapevoli dei limiti di ciascuna metodica e devono decidere quale utilizzare, singolarmente o in combinazione, in base alla loro competenza e alla disponibilità di test.
Nei pazienti con piede diabetico vascolare, nessun sintomo o segno specifico di arteriopatia può prevedere in modo affidabile la probabilità di guarigione dell'ulcera. Una qualsiasi delle seguenti rilevazioni aumenta di almeno il 25% la probabilità di guarigione:

  • pressione di perfusione cutanea di almeno 40 mmHg;
  • pressione all’alluce ≥ 30mmHg;
  • TcPO2 ≥ 25 mmHg (letteratura limitata).

Tuttavia, prevedere la guarigione di un'ulcera del piede diabetico è un processo complesso associato a variabili diverse dalla PAD, quali:

  • entità del danno tissutale;
  • presenza di infezione;
  • carico meccanico sull'ulcera;
  • comorbilità (es. IRC in stadio terminale, cardiopatia, anemia).

La guarigione è quindi correlata alla gravità del deficit di perfusione in associazione ad altre caratteristiche del piede e del paziente. Infine, la probabilità di guarigione è legata alla qualità delle cure delle sovramenzionate variabili.
Dato che la possibilità di guarigione è scarsa in pazienti con pressione al dito < 30 mmHg o TcPO2 < 25 mmHg, in questi pazienti risulta utile la diagnostica per immagini e la rivascolarizzazione. La diagnostica per immagini urgente e il trattamento devono essere presi in considerazione anche nei pazienti con PAD e valori maggiori di pressione all’alluce e TcPO2 se esistono fattori aggravanti la prognosi, come infezione ed estesa compromissione tissutale. Infine, alla luce della loro limitata utilità diagnostica e prognostica, nessuna delle prove di cui sopra può escludere completamente la PAD come causa di mancata guarigione di un'ulcera del piede; in questi pazienti dovrebbe pertanto essere effettuata la diagnostica per immagini al fine di determinare se il paziente può trarre beneficio dalla rivascolarizzazione. All’analisi post-hoc uno studio ha suggerito che un periodo di 4 settimane è sufficiente per valutare la probabilità di guarigione nei pazienti con ulcera neuropatica non complicata. In uno studio osservazionale, un minor tempo d’attesa per la rivascolarizzazione (< 8 settimane) era associato a maggiore probabilità di guarigione delle ulcere nel piede ischemico.
Per ragioni pragmatiche, si consiglia di prendere in considerazione l'imaging vascolare e la successiva rivascolarizzazione in presenza di ulcere neuro-ischemiche che non migliorano entro 6 settimane senza che siano documentabili altre cause. In passato, è stato attribuito un ruolo importante alla micro-angiopatia diabetica quale ostacolo alla guarigione. Tuttavia, non esiste attualmente alcuna prova in merito e la PAD è la più importante causa di ridotta perfusione del piede in un paziente diabetico. Tuttavia, va osservato che la PAD può non essere l’unica causa di ridotta perfusione distale, in quanto edema ed infezione possono contribuire a ridotta ossigenazione e dovrebbero essere trattati di conseguenza.
Decidere chi ha bisogno di rivascolarizzazione e quale procedura utilizzare è complesso. È inaccettabile fare affidamento su un solo esame clinico: prima di una procedura di rivascolarizzazione, dovrebbero essere ottenute informazioni anatomiche sulle arterie dell'arto inferiore, per valutare presenza, gravità e distribuzione di stenosi arteriose o occlusioni. Ottenere immagini dettagliate delle arterie sotto il ginocchio e del piede è di importanza critica nei pazienti con diabete. Le tecniche per definire il sistema arterioso dell'arto inferiore nei pazienti con diabete sono ecografia doppler, angio-MR, angio-TC e angiografia digitale, ognuna delle quali ha vantaggi, svantaggi e controindicazioni. La decisione su quale modalità di imaging utilizzare dipenderà da eventuali controindicazioni legate al paziente, nonché da disponibilità e competenze locali.
Lo scopo della rivascolarizzazione è ripristinare il flusso diretto in almeno una delle arterie del piede, preferibilmente l'arteria che alimenta la regione anatomica dell’ulcera, con lo scopo di assicurare pressione minima di perfusione cutanea di 40 mmHg, pressione all’alluce ≥ 30 mmHg e TcPO2 ≥ 25 mmHg. La portata sanguigna richiesta è influenzata da fattori, quali la presenza di infezione, l’entità del danno tessutale e il carico deambulatorio. Una procedura di rivascolarizzazione può avere diversi obiettivi:

  1. promuovere la guarigione delle ferite;
  2. contribuire alla risoluzione dell'infezione;
  3. ridurre il rischio o l’entità dell’amputazione.

Non è ancora chiaro come identificare quei pazienti con PAD e ulcera del piede che possono trarre maggior beneficio dalla rivascolarizzazione. È stato postulato che il ripristino del flusso pulsato attraverso un'arteria che alimenta direttamente la zona ulcerata abbia risultati migliori rispetto a quando il flusso viene distribuito da un vaso collaterale derivante da angiosomi limitrofi. Purtroppo molte delle casistiche riportate sono ad alto rischio di bias, senza univoca adeguatezza dell’indicazione o dei tentativi fatti o aggiustamento per gravità o durata dell’ulcera.
Un centro specializzato nel trattamento del piede diabetico dovrebbe avere a disposizione gli strumenti diagnostici necessari e la possibilità di accedere rapidamente sia a trattamenti endo-vascolari che chirurgici della PAD. I pazienti con segni di PAD e infezione del piede sono ad alto rischio di perdita estesa di tessuto e di amputazione maggiore e dovrebbero essere trattati in regime d’urgenza. Non esistono evidenze sufficienti per stabilire quale tecnica di rivascolarizzazione, endo-vascolare o chirurgica, sia superiore e le decisioni devono essere prese da un team multi-disciplinare, considerando vari fattori quali la topografia dell’arteriopatia, la disponibilità di vena autologa, le comorbilità e le competenze degli specialisti coinvolti. Le linee guida concordano nel raccomandare di evitare la rivascolarizzazione nei pazienti con scarse prospettive cliniche e con sfavorevole rapporto rischio-beneficio.
Dopo una procedura di rivascolarizzazione per un'ulcera del piede, il paziente deve essere seguito da un team multi-disciplinare nel contesto di un percorso diagnostico-terapeutico. Va infine ricordato che tutti i pazienti affetti da PAD hanno un elevato rischio di altre malattie cardio-vascolari, che richiedono percorsi diagnostici dedicati. Tutti i pazienti con diabete e ulcera ischemica del piede dovrebbero essere sottoposti a trattamento aggressivo dei fattori di rischio cardio-vascolare, tra cui il sostegno per smettere di fumare, il trattamento dell'ipertensione e la prescrizione di una statina, nonché basse dosi di aspirina o clopidogrel.

 

Bibliografia

  1. Prompers L, Huijberts M, Apelqvist J, et al. High prevalence of ischaemia, infection and serious comorbidity in patients with diabetic foot disease in Europe. Baseline results from the Eurodiale study. Diabetologia 2007, 50: 18-25.
  2. Elgzyri T, Larsson J, Thörne J, et al. Outcome of ischemic foot ulcer in diabetic patients who had no invasive vascular intervention. Eur J Vasc Endovasc Surg 2013, 46: 110-7.
  3. Monteiro-Soares M, Boyko EJ, Ribeiro J, et al. Predictive factors for diabetic foot ulceration: a systematic review. Diabetes Metab Res Rev 2012, 28: 574-600.
  4. Aiello A, Anichini R, Brocco E, et al. Treatment of peripheral arterial disease in diabetes: a consensus of the Italian Societies of Diabetes (SID, AMD), Radiology (SIRM) and Vascular Endovascular Surgery (SICVE). Nutr Metab Cardiovasc Dis 2014, 24: 355-69.
  5. Bus SA, Van Netten JJ, Lavery LA, et al. IWGDF Guidance on the prevention of foot ulcers in at-risk patients with diabetes. Diabetes Metab Res Rev 2016, 32 suppl 1: 16-2.
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Antimo Aiello
UOC Diabetologia-Endocrinologia, Ospedale Regionale Campobasso

 

Nel diabetico le infezioni del piede (piede diabetico infetto, PDI) sono fra le maggiori responsabili dell’elevata morbilità e mortalità e la causa più frequente di amputazione dell’arto inferiore. In studi clinici retrospettivi si è riscontrato che l’infezione conduce ad un’amputazione minore nel 24-60% dei casi e ad un’amputazione maggiore nel 10-40% dei casi.
Le infezioni del piede nelle persone con diabete di solito iniziano con una soluzione di continuità della cute, frequentemente con un’ulcerazione neuropatica. Ciò permette alla flora che normalmente colonizza la pelle di penetrare e raggiungere i tessuti sottocutanei e l’osso. La particolare anatomia del piede permette poi il diffondersi, rapidamente, dei batteri dalla superficie plantare o dorsale verso la caviglia. Sviluppo, progressione e mancata guarigione dell’infezione sono favoriti dalla concomitante presenza di arteriopatia (alterazioni trofiche, ridotto apporto di O2, nutrienti e farmaci, ridotta rimozione di tossine, mancata risposta iperemica all’infezione) e iperglicemia (compromissione dei meccanismi di distruzione ossidativa dei microrganismi, alterazioni immunitarie responsabili del circolo vizioso: infezione -> scompenso metabolico -> immuno-depressione -> infezione). Per questo in ogni caso di ulcera, soprattutto se infetta, sono obbligatori l’attenta valutazione vascolare e la correzione dell’iperglicemia. Si consiglia di coinvolgere precocemente un chirurgo vascolare, per valutare la necessità di rivascolarizzazione ogni volta che l’ischemia complica un PDI, ma soprattutto in ogni paziente con ischemia critica dell’arto. Poiché tutte le ferite della pelle ospitano microrganismi (compresi i potenziali patogeni), l’infezione, prima che microbiologicamente, deve essere diagnosticata clinicamente, valutando attentamente la situazione locale e tenendo presente che, anche in presenza di grave infezione al piede, nel diabetico possono essere assenti sintomi generali; di contro, infezioni di tessuti profondi, come l’osso, spesso danno ingannevolmente pochi segni superficiali. L’evidenza di infezione generalmente include i segni classici di infiammazione (rossore, calore, gonfiore, dolore) o secrezioni purulente, ma può includere anche segni secondari, come secrezione siero-ematica, tessuto di granulazione friabile, sfrangiamento dei bordi della ferita, cattivo odore, ritardata guarigione della lesione.

 

Fig 1. Flemmone V dito

 

Fig 2. Infezione da anaerobi

 

Fig 3. Infezione I dito

 

Una volta accertata la presenza di infezione, ne vanno valutate gravità ed estensione. Per far questo, si può utilizzare regolarmente uno degli schemi validati, come il PEDIS (Perfusion, Extent/size, Depth/tissue loss, Infection, and Sensation), sviluppato dal IWGDF (2), o quello proposto dal IDSA (7) e riportati nella tabella 1. Altre classificazioni molto usate sono quelle di Wagner (8) e della Texas University (9).

 

Tabella 1
Classificazione infezione al piede dei diabetici
(Gruppo di lavoro internazionale sul piede diabetico e Infectious Diseases Society of America)
Manifestazione clinica di infezione Grado PEDIS IDSA infezione/gravità
NON sintomi o segni di infezione
Presenza infezione definita dalla presenza di almeno 2 dei seguenti elementi:
  • gonfiore locale o indurimento
  • eritema
  • dolorabilità locale o dolore
  • calore locale
  • secrezione purulenta (spessore, secrezione opaca o sanguinolenta)
1 Non infette
Infezione locale coinvolgente solo la pelle e il tessuto sottocutaneo (senza il coinvolgimento di tessuti più profondi e senza segni sistemici come descritto di seguito).
Se presente, l’eritema deve essere da 0.5 cm fino a ≤ 2 cm intorno all'ulcera.
Escludere altre cause di risposta infiammatoria della pelle (ad esempio trauma, gotta, Charcot acuto, fratture, trombosi, stasi venosa).
2 Lieve
Infezione locale (come descritto sopra) con eritema > 2 cm, o coinvolgente strutture più profonde della pelle e dei tessuti sottocutanei (es. ascesso, osteomielite, artrite settica, fascite) e nessun segno di risposta infiammatoria sistemica (come descritto sotto). 3 Moderata
Infezione locale (come descritto sopra) con i segni di SIRS (systemic inflammatory response syndrome) come manifestato da ≥ 2 dei seguenti:
  • temperatura > 38°C o < 36°C
  • frequenza cardiaca > 90 battiti/min
  • frequenza respiratoria > 20 atti/min o PaCO2 < 32 mm Hg
  • numero di globuli bianchi > 12.000 o < 4000 cellule/mL o forme immature ≥ 10%
4 Severa

 

In caso di dito a salsicciotto (sausage toe), ulcere con osso esposto o specillabile (probe-to-bone test), lesione ulcerativa con superficie > 2 cm2 e profonda > 3 mm, lesioni croniche e localizzate a livello di prominenze ossee, o in ogni caso di ulcere che, seppur ben trattate e” scaricate”, non guariscono, va considerata la presenza di osteomielite. La diagnosi va confermata da Rx e RM e coltura positiva di tessuto osseo.
Ogni volta che si è in presenza di infezione, è opportuno trattarla in maniera aggressiva, visto che le infezioni al piede possono peggiorare rapidamente. Tutte le ferite devono essere attentamente controllate, palpate e sondate. Valutando attentamente la ferita, è necessario determinare la necessità di debridement, incisione e drenaggio o di altri interventi chirurgici. Si consiglia un intervento chirurgico urgente per infezioni del piede accompagnate da gas nei tessuti più profondi, in caso di ascesso o di fascite necrotizzante.
Lesioni clinicamente non infette non necessitano di copertura antibiotica, mentre per le lesioni clinicamente infette, in attesa degli esami microbiologici va iniziata una terapia antibiotica “empirica” basata sulla gravità dell’infezione, sul “probabile” agente eziologico (tabella 2) e sulle condizioni generali del soggetto.

 

Tabella 2
Terapia antibiotica “empirica”
Gravità infezione Germi sospettati Antibiotici consigliati
Grado 2 (lieve)
Terapia orale
Staphylococcus aureus (MSSA) Amoxicillina-clavulanico 1 g x 3
Levofloxacina 500 mg
Streptococcus spp Clindamicina 300 mg x 3
Doxiciclina 100-200 mg
Grado 3-4 (moderata-severa)
Terapia iniettiva
MSSA, Streptococcus, Enterobacteriacea ß-lattamasi inibitori Ceftriaxone 1 g im
Ampicillina-sulbactam 3 g ev x 3
Pseudomonas Piperacillina/tazobactam 4.5 g ev x 4
Ticarcillina/clavulanico 1.2 g im x 3
MRSA Vancomicina 1 g ev x 2
Linezolid 600 mg ev x 2

 

La copertura per MRSA nella scelta antibiotica empirica va iniziata in presenza dei seguenti fattori: alta prevalenza locale, recente ospedalizzazione o permanenza in strutture di lungo-degenza, recente terapia antibiotica, pregresso riscontro di infezione da MRSA a livello della stessa lesione, IRC in trattamento dialitico.
L’ospedalizzazione urgente è indicata quando:

  • è presente infezione grave, ischemia critica o instabilità metabolica;
  • c’è necessità di molteplici procedure diagnostiche o chirurgiche, di terapia endovenosa, di medicazioni frequenti e complesse.

Il ricovero in ospedale va consigliato anche per pazienti incapaci di seguire per motivi vari una corretta terapia o privi di supporto familiare adeguato.
Vista la gravità e la complessità del PDI, è fondamentale fornire un approccio multidisciplinare, coordinato preferibilmente da un team multi-professionale di gestione del piede diabetico.

 

Bibliografia

  1. Lipsky BA. Infectious problems of the foot in diabetic patients. In: The Diabetic Foot, 6th edition, Bowker JH, Pfeifer MA (eds), St. Louis, Mosby, 2001: 467-80.
  2. International Working Group on the Diabetic Foot. International Consensus on the Diabetic Foot. May 1999; Amsterdam: pages 1-96.
  3. Pecoraro RE, Ahroni JH, Boyko EJ, Stencil, VL. Chronology and determinants of tissue repair in diabetic lower-extremity ulcers. Diabetes 1991, 40: 1305-13.
  4. Reiber GE, Pecoraro RE, Koepsell TD. Risk factors for amputation in patients with diabetes mellitus. A case control study. Ann Intern Med 1992, 117: 97-105.
  5. Greer N, Foman NA, MacDonald R, et al. Advanced wound care therapies for nonhealing diabetic, venous, and arterial ulcers. Ann Intern Med 2013, 159: 532-42.
  6. Bowering K, John M. Canadian Diabetes Association Clinical Practice Guidelines Expert Committee. Clinical Practice Guidelines Foot Care. Can J Diabetes 2013, 37: S145-9.
  7. Lipsky BA, Berendt AR, Cornia PB, et al. 2012 Infectious Diseases Society of America (IDSA) clinical practice guideline for the diagnosis and treatment of diabetic foot infections. Clin Infect Dis 2012, 54: 132-73.
  8. Wagner FW Jr. The dysvascular foot: a system for diagnosis and treatment. Foot Ankle 1981, 2: 64–122.
  9. Armstrong DG, Lavery LA, Harkless LB. Validation of a diabetic wound classification system. The contribution of depth, infection, and ischemia to risk of amputation. Diabetes Care 1998, 21: 855–9.