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Dominique Van Doorne

 

Dopo l’intervento chirurgico gli anatomo-patologi esaminano accuratamente tutta la tiroide e i linfonodi del collo che sono stati rimossi. L’estensione del tumore viene espresso sul referto definitivo attraverso un punteggio progressivo (“Stadiazione TNM”):

  • la lettera “T” definisce le dimensioni e l’estensione locale del tumore tiroideo, con un punteggio crescente compreso fra 1 e 4;
  • la lettera “N” indica la presenza di malattia nei linfonodi del collo e varia fra 0 (metastasi linfonodali assenti) e 1 (metastasi presenti);
  • la lettera “M” indica le possibili metastasi in altre parti del corpo e varia fra 0 (metastasi a distanza assenti) e 1 (metastasi presenti).

L’estensione della chirurgia, la necessità di un eventuale re-intervento e l’entità della terapia successiva all’operazione vengono decise sulla base del tipo istologico e della stadiazione del tumore.

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Dominique Van Doorne

 

Dopo la tiroidectomia totale è necessario assumere per tutta la vita compresse o formulazioni liquide contenenti l’ormone tiroideo (T4), che non è più prodotto nell’organismo. Controlli regolari degli ormoni tiroidei nel sangue (da eseguire ogni 6–12 mesi, una volta raggiunto l’equilibrio) consentono di regolare perfettamente la dose del farmaco necessaria a condurre una vita normale e in pieno benessere.

A volte insieme alla tiroide vengono rimosse (o solo danneggiate) anche le ghiandole paratiroidi, quattro o più delicate ghiandole endocrine collocate sulla superficie posteriore della tiroide. Le paratiroidi regolano il livello del calcio nel sangue attraverso la produzione di ormone paratiroideo. La loro rimozione provoca l'ipoparatiroidismo, caratterizzato dal brusco calo della calcemia e dalla comparsa di formicolii delle mani e dei piedi, alterazioni della sensibilità, contratture e – nei casi più gravi - spasmi muscolari. L'assunzione regolare di compresse di calcio e vitamina D controlla efficacemente questo problema, ma è necessario il controllo periodico del calcio nel sangue e un grande scrupolo nell'assunzione dei farmaci. Spesso i livelli di calcemia tendono a risalire spontaneamente nei mesi successivi all’intervento e il fabbisogno dei farmaci si riduce fino alla sospensione (ipocalcemia transitoria).

In ogni caso, la comparsa dei sintomi prima citati (formicolii e contratture da ipocalcemia) oppure una ipersensibilità cutanea e necessità di urinare spesso associata a nausea e dolori addominali (dovuti ad un eccessivo aumento della calcemia), devono indurre a eseguire rapidamente il controllo degli ormoni tiroidei e della calcemia e una visita medica.

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Dominique Van Doorne

 

La maggior parte delle persone sottoposte a tiroidectomia totale per carcinoma tiroideo dovrà sottoporsi alla terapia con iodio radioattivo (definita “Terapia Ablativa” o "Terapia Radiometabolica"). Poiché lo Iodio-131 emette radiazioni che hanno un raggio di azione limitato a pochi millimetri, la dose di radiazioni somministrata all’organismo è relativamente piccola ed è specificamente concentrata nel tessuto tiroideo, sia normale che tumorale. Lo Iodio-131 è quindi in grado di distruggere efficacemente le cellule tiroidee sfuggite all’intervento chirurgico, senza recare danni importanti al resto dell’organismo.

La terapia consiste semplicemente nell'assunzione – da effettuare in genere una sola volta – di una o due capsule contenenti il radioisotopo (Iodio-131), che andrà a concentrarsi nei residui di tessuto tiroideo ancora presenti nell’organismo dopo l’operazione.

Un eccessivo contenuto di iodio nell’organismo potrebbe “diluire” l’effetto della somministrazione di Iodio-131. Per questo motivo verrà consigliata una breve lista di alimenti, cosmetici e farmaci da evitare nel periodo precedente il trattamento. Se è stata eseguita una TAC con mezzo di contrasto (ricco di iodio) è opportuno aspettare almeno 3 mesi. (vedi Dieta a basso contenuto di iodio)

Dopo la terapia,  il dosaggio della tireoglobulina (marcatore della presenza di cellule tiroidee nel corpo) diventerà uno strumento prezioso per monitorare nel tempo la malattia e le eventuali, anche se rare, recidive.

 

Cosa fare se è richiesta la sospensione della terapia con tiroxina?
Il trattamento con tiroxina (L-T4) deve essere sospeso 30-40 giorni prima del trattamento.
La tiroxina può essere per un certo periodo sostituita con un altro ormone tiroideo (L-T3 o Ti-Tre) che rimane meno a lungo in circolo.
Non si devono sospendere altri trattamenti in corso, salvo rare eccezioni (amiodarone e litio), compreso il calcio e la vitamina D se ancora necessarie.
La dose di L-T3 verrà leggermente ridotta se vi sono problemi cardiaci o psichiatrici.
All’incirca 15 giorni prima del trattamento con radioiodio si sospende la terapia con L-T3. Nella seconda settimana possono iniziare i sintomi dovuti all’ipotiroidismo: stanchezza, fastidio muscolare, sonnolenza, freddo, pelle secca, stipsi, lieve apatia e depressione. Questi sintomi sono fastidiosi ma transitori: passeranno poco tempo dopo il trattamento radiometabolico, quando si riprende il trattamento ormonale sostitutivo con L-T4.

 

Ricovero in reparto di Medicina Nucleare
Per eseguire il trattamento, la legislazione Europea richiede il ricovero in un reparto di Medicina Nucleare perché, nei primi giorni dopo l'assunzione della dose di radioiodio, il corpo elimina, attraverso le urine, le feci, la saliva e la sudorazione, una gran parte della dose somministrata, che non è stata trattenuta dalle cellule tiroidee residue.
E' importante portare tutta la documentazione medica che riguarda sia la patologia tiroidea recente sia lo stato di salute generale. Prima del trattamento verranno controllati l’emocromo, la funzionalità epatica e renale, il TSH, gli ormoni tiroidei, la tireoglobulina, gli anticorpi anti-tireoglobulina e, nelle donne in età fertile, la beta-HCG per escludere eventuali gravidanze in corso. La determinazione della ioduria (la quantità di iodio nelle urine) permette di verificare se è stata rispettata la dieta povera di iodio. In alcuni casi si effettua anche un’ecografia del collo (se non recentemente eseguita).
Dopo la somministrazione della dose di radioiodio, è richiesto il ricovero in “regime di isolamento”, per limitare i contatti interpersonali con persone non trattate e permettere lo smaltimento differenziato delle acque nere. La durata del ricovero è breve (2-4 giorni) e dipende dalla dose somministrata e dal controllo dosimetrico alla dimissione; questo controllo permette di verificare l'avvenuta eliminazione della maggior parte dello iodio non captato dal residuo tiroideo. L'isolamento non è assoluto: durante il ricovero è possibile comunicare con le persone all'esterno mediante un videocitofono e il personale addetto può entrare nella stanza per brevi periodi. Per favorire l’eliminazione dello iodio viene raccomandato l’uso di diuretici, lassativi e di caramelle al limone che aumentano l'eliminazione di iodio con la saliva e riducono il rischio di infiammazione delle ghiandole salivari. Ogni tipo di informazione pratica relativa alla degenza e al periodo successivo (es. trattamento di indumenti, stoviglie, posate, ecc.) viene fornita prima del ricovero dal personale della struttura che eroga il trattamento.
Dopo pochi giorni dal trattamento si esegue una scintigrafia "total-body", che valuta cioè tutto il corpo, per controllare le sedi di captazione dello iodio e valutare l’estensione del tessuto residuo e della malattia. Immediatamente dopo si ricomincia la terapia sostitutiva con L-T4.

 

Effetti collaterali da radioiodio
Gli effetti indesiderati dello iodio sono rari, lievi e transitori e dipendono dalla dose somministrata e dall’entità del residuo cervicale. I più frequenti sono:

  • mal di gola e raucedine, del tutto transitori
  • infiammazione delle ghiandole salivari; nei giorni seguenti il trattamento il senso del gusto può essere alterato e può comparire una sensazione di bocca asciutta. Anche questi disturbi sono in genere transitori e scompaiono nel corso di alcune settimane. Tuttavia anche a distanza di mesi dal trattamento possono verificarsi episodi di infiammazione acuta di una o più ghiandole salivari, con gonfiore e dolore intensi, tali da richiedere trattamenti specifici: può essere necessario l’uso di anti-infiammatori o raramente di cortisone. In alcuni pazienti anche le ghiandole lacrimali possono andare incontro a lieve infiammazione complicata da eventuale ostruzione dei dotti
  • vomito: bisogna chiamare il personale infermieristico e lasciare che il personale addetto si occupi della pulizia degli ambienti contaminati
  • mal di testa: si può prendere un anti-dolorifico
  • diarrea o stipsi: l’alvo deve essere regolare (almeno un’evacuazione al giorno) altrimenti è opportuno prendere un lassativo; la diarrea è abitualmente di lieve entità, ma in caso contrario i medici prescriveranno i trattamenti idonei
  • stanchezza: è bene riposare. In caso di insonnia si può chiedere ai medici un aiuto farmacologico.

L’allergia al radioiodio è rarissima e si presenta con difficoltà respiratorie, brividi, febbre, prurito e rash cutaneo.
Il trattamento con Iodio-131 espone ad una dose di radiazioni così limitata che il rischio di indurre una nuova futura neoplasia è assente, a meno che non si debba ricorrere a dosi molto alte e ripetute per tumori particolarmente estesi o aggressivi.
Il trattamento con radioiodio non compromette la fertilità. L'unica precauzione consigliata è di aspettare 6 mesi prima di concepire per la donna e almeno due mesi per l'uomo. Lo svolgimento della gravidanza dopo questo periodo di attesa è assolutamente normale.

 

Rientro a casa
Durante il ricovero la maggior parte dello iodio radioattivo viene eliminato, ma è opportuno continuare a seguire piccole precauzioni per i successivi 15 giorni, secondo le indicazioni che vengono fornite dal personale del centro.

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Dominique Van Doorne

 

Prima di una scintigrafia o di un trattamento con radioiodio è necessario seguire una dieta a basso contenuto di iodio, allo scopo di rendere le eventuali cellule tiroidee residue avide di iodio.

La dieta deve essere seguita per un tempo di circa tre-quattro settimane, e continuata durante il trattamento. Si può ricominciare la dieta libera un giorno dopo la scintigrafia total-body.

La dieta non è “senza iodio” ma “a basso contenuto di iodio” e cioè prevede un consumo di circa 50 µg al dì o meno.

 

In quali alimenti e prodotti si trova lo iodio?
Lo iodio è molto diffuso: si trova in molti alimenti, in diversi farmaci e in molti prodotti.
Il sale da tavola (cloruro di sodio) contiene spesso iodio (questo è sempre riportato sulla confezione). E' bene precisare che lo iodio non è sodio e che la dieta con poco iodio non è una dieta con poco sodio. Infatti il cloruro di sodio va bene, purché non sia arricchito con iodio.
Sono da evitare tutti i prodotti e gli ingredienti di origine marina, perché sono ricchissimi di iodio (pesci, frutti di mare, crostacei e alghe). Anche l'uovo è ricco di iodio, ma si può usare solo l’albume.
Si consiglia di evitare qualunque cibo già preparato e salato (l’industria alimentare usa spesso sale contenente iodio). Evitare salse già preparate, burro e margarina salati. E' suggeribile comprare pane non salato. I sostitutivi del latte non sono permessi, perché sono a base di soia o di riso contenente sale. Per ricette che richiedono nocciole, usare sempre quelle non salate. Anche il pangrattato confezionato contiene sale, per cui è meglio prepararlo in casa.
E' bene leggere attentamente la lista degli ingredienti sulle etichette dei farmaci e creme per il corpo. In caso di incertezze, suggeriamo di consultare il medico curante, l'endocrinologo o il servizio di medicina nucleare. Per esempio, gli integratori vitaminico/minerali spesso contengono iodio.
Molti mezzi di contrasto radiologici (per TAC, angiografie, coronarografie, urografie, ecc.) sono ricchi di iodio e non devono essere stati somministrati nei 3 mesi precedenti al trattamento radiometabolico.
Anche alcuni disinfettanti (per es. Betadine) sono ricchi di iodio. Evitare anche saponi e shampoo contenenti disinfettanti e iodio.
Il colorante rosso è ricco di iodio (eritrosina): controllare che non ci sia questo colorante nei cibi e nei farmaci.

 

Tabelle riassuntive per la dieta a basso contenuto di iodio

 

Tempi di sospensione consigliati di alcuni farmaci e prodotti prima della terapia con I131
(modificato da linee guida SNM)
Farmaco o prodotto Tempo di sospensione consigliato
Multivitaminici (contenenti iodio) 7 giorni
Espettoranti, soluzioni di Lugol, prodotti a base di alghe marine, prodotti per dimagrire contenenti iodio, disinfettanti, lavande vaginali, dentifrici iodati, tinture per capelli, creme anti-cellulite a base di iodio o prodotti iodati 2-3 settimane, in base al contenuto di iodio
Tintura di iodio 2-3 settimane
Mezzi di contrasto radiografici idrosolubili 3-4 settimane (in caso di funzionalità renale normale)
Mezzi di contrasto radiografici liposolubili (oggi usati raramente) 3 mesi
Amiodarone 3-6 mesi o più

 

 

Cibi ad elevato contenuto di iodio (da evitare)
  • Sale iodato, sale marino (può essere utilizzato sale non iodato)
  • Latticini (latte, formaggio, panna, yogurt, burro, gelato)
  • Uova
  • Pesce, crostacei, molluschi, alghe
  • Cibi contenenti i seguenti additivi: carragen, agar-agar, algin
  • Cibi insaccati o salati
  • Pane contenente conservanti iodati
  • Alimenti e farmaci contenenti coloranti rossi (E 127: eritrosina)
  • Cioccolato (per il contenuto di latte)
  • Prodotti a base di soia
  • Evitare ristoranti (per la difficoltà di stabilire se viene utilizzato sale iodato), in particolare quelli etnici

 

 

Gruppi di alimenti
Alimenti Da evitare Consentiti
Bevande Tutti i prodotti a base di latte, bevande con frutti “rossi”, punch Caffè, thè, bevande gassate, limonata, acqua
Pane cereali Pane industriale, biscotti, prodotti da forno contenenti conservanti iodati, crackers Pane fatto in casa, farina, farina d’avena, pasta, orzo
Latticini Tutti Nessuno
Dolci e dessert Dolci industriali Dolci fatti in casa con prodotti consentiti (zucchero, marmellata)
Uova   Consentite se usate per cucinare in piccole quantità
Grassi Burro Olio, margarina
Frutta – succhi di frutta Frutta o succhi in lattina con coloranti rossi Tutta la frutta fresca e i succhi senza coloranti rossi
Carni-pesci Pesce, molluschi, crostacei, carni affumicate ed insaccate, wurstel Manzo, vitello, maiale, pollo, tacchino, agnello
Verdure Verdure in scatola o surgelate con aggiunta di sale, patate con la buccia, patate fritte, purè istantaneo, legumi, soia Tutte le verdure fresche e quelle non elencate nelle verdure da evitare
Varie Snack foods commerciali, inclusi salatini, noccioline, patatine Erbe, spezie, pepe, aceto, ketchup

 

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Dominique Van Doorne

 

L’assoluta maggioranza dei carcinomi tiroidei è curabile e guarisce completamente. Tuttavia, non può essere esclusa la possibilità di una recidiva (a sua volta curabile e guaribile). Il rischio di una ripresentazione della malattia diminuisce con gli anni, ma non scompare mai del tutto. E’ quindi necessario un controllo specialistico regolare, una o due volte l’anno, per tutta la vita.

Gli accertamenti da eseguire sono estremamente semplici: l’ecografia del collo almeno una volta all'anno, il dosaggio nel sangue degli ormoni tiroidei, del TSH, della tireoglobulina e del suo anticorpo (quest’ultima sostituita dalla calcitonina nel caso del carcinoma midollare). Solo in casi particolari è necessaria la ripetizione della scintigrafia totale corporea.

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Dominique Van Doorne

 

A cosa servono le paratiroidi?
Le paratiroidi sono ghiandole endocrine molto piccole, come delle lenticchie, situate nel collo a ridosso della parete posteriore della tiroide. Sono abitualmente in numero di 4, due superiori e due inferiori. A volte ci possono essere delle paratiroidi in più (cioè più di 4) o “ectopiche”, cioè non situate nella sede normale ma in altre zone del collo oppure nel torace.
L’ormone paratiroideo o paratormone (PTH) prodotto dalle paratiroidi serve a mantenere sempre costante il livello del calcio nel sangue. Le paratiroidi non sono sotto il controllo dell’ipofisi, come succede per la tiroide e altre ghiandole endocrine, ma dei livelli circolanti di calcio (calcemia).
La calcemia è di fondamentale importanza per il corretto svolgimento di numerose funzioni cellulari:

  • contrazione dei muscoli:
    • scheletrici, che servono per i movimenti volontari;
    • cuore;
    • viscerali, come quelli dell’intestino;
  • trasmissione degli impulsi dai nervi ai muscoli;
  • integrità dell’osso;
  • coagulazione del sangue;
  • trasmissione di segnali ormonali all’interno delle cellule.

Le cellule paratiroidee hanno sulle loro membrane dei recettori sensibili al calcio che controllano continuamente il livello di calcio nel sangue. Appena questo si abbassa (ipocalcemia), le cellule producono e liberano in circolo il PTH, che recupera immediatamente i livelli corretti di calcio attraverso 3 meccanismi:

  1. prendendo il calcio (e il fosforo) dall’osso;
  2. riducendo l’eliminazione renale di calcio (e aumentando l’eliminazione renale di fosforo);
  3. aumentando l’assorbimento di calcio (e fosforo) dall’intestino tenue, tramite  l’attivazione della vitamina D

Tutto questo garantisce un livello costante della calcemia, indispensabile per tutte le funzioni calcio-dipendenti del nostro corpo.

 

Come si può controllare che le paratiroidi funzionino correttamente?
Per controllare la funzione delle paratiroidi, si dosano nel sangue i livelli di PTH insieme a quelli di calcio e fosforo. Insieme a questi tre valori, è spesso utile controllare il livello nel sangue di vitamina D e magnesio, e nelle urine di calcio.

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Dominique Van Doorne
Roma

 

CHE COSA È L’IPERPARATIROIDISMO PRIMITIVO?

È una condizione patologica caratterizzata dall’eccessiva produzione di ormone paratiroideo (PTH). Il PTH serve a mantenere il livello di calcio costante nel sangue (vedi paratiroidi e metabolismo calcio-fosforico). L’aumento della secrezione di PTH provoca un aumento della calcemia attraverso un maggior assorbimento intestinale di calcio, una ridotta eliminazione di calcio con le urine e un maggior riassorbimento di calcio dall’osso. Nella popolazione generale la malattia compare in circa 3-5 persone ogni 1000 abitanti. La malattia può insorgere a qualunque età, ma è rara prima dei 50 anni, ed è tre volte più frequente nel sesso femminile. Talvolta, in particolare quando si manifesta in giovane età, si associa ad altri tumori endocrini nel corpo in una sindrome chiamata MEN (neoplasie endocrine multiple).
In passato l’iperparatiroidismo primitivo veniva diagnosticato solo tardivamente per le complicanze che compaiono dopo diversi anni di malattia. Oggi, nei paesi in cui gli esami di laboratorio vengono effettuati in modo periodico a partire dai 40-50 anni, la diagnosi è più precoce, spesso in una fase completamente asintomatica della malattia.

 

QUALI SONO LE CAUSE DELL’IPERPARATIROIDISMO?

L’iperparatiroidismo si divide in primitivo (la malattia nasce nelle ghiandole paratiroidee) o secondario, quando l’aumento del PTH è la risposta del corpo alla riduzione della calcemia dovuta a varie malattie.

Iperparatiroidismo primitivo
Le forme primitive possono essere causate da:

  • adenoma paratiroideo (tumore benigno di una paratiroide) nell’80-85% dei casi. Abitualmente l’adenoma è unico, ma talvolta può coinvolgere due o più paratiroidi (adenoma multiplo);
  • iperplasia diffusa del tessuto paratiroideo con iperfunzione di tutte le ghiandole paratiroidee (15-20% dei casi);
  • carcinoma paratiroideo (tumore maligno rarissimo).

 

Iperparatiroidismo secondario
Le forme secondarie, sempre caratterizzate da un’iperplasia diffusa compensatoria delle ghiandole paratiroidee, sono dovute a quelle condizioni che riducono la calcemia come:

  • insufficienza renale (per eccessiva perdita di calcio dal rene);
  • ridotta introduzione di calcio nell’organismo (per malnutrizione o malassorbimento intestinale);
  • carenza cronica di vitamina D (da malnutrizione o da malassorbimento intestinale). È importante dire che la carenza di vitamina D è molto frequente, raggiungendo la quasi totalità della popolazione oltre 70 anni. Le cause sono alimentari (riduzione nella dieta del grasso animale, dove si trova la pro-vitamina D), minor esposizione al sole (la pro-vitamina D è attivata nella pelle sotto lo stimolo dei raggi solari), obesità (per intrappolamento della vitamina D nel tessuto grasso). In altri paesi diversi cibi sono addizionati con vitamina D per superare la carenza alimentare.

 

QUALI SONO I SINTOMI DELL’IPERPARATIROIDISMO PRIMITIVO?

Solo l’iperparatiroidismo primitivo provoca ipercalcemia. Mentre un aumento lieve di calcio nel sangue non provoca abitualmente sintomi, le ipercalcemie acute e gravi (superiori a 12.5 mg/100 mL) si accompagnano a nausea, vomito, con talvolta grave disidratazione che può arrivare fino al coma.
L’ipercalcemia prolungata provoca, negli anni, danni renali, ossei e vascolari:

  • a livello renale l’eccesso di calcio provoca la formazione di calcoli, che si manifestano spesso con coliche renali; nei casi protratti l’ipercalcemia può provocare anche un danno al glomerulo renale, cioè il filtro renale, con conseguente insufficienza renale cronica;
  • a livello osseo l’eccesso di PTH provoca un aumento del riassorbimento osseo, in particolare della zona esterna o corticale dell’osso. L’osteoporosi che ne consegue, di per sè asintomatica, può provocare fratture spontanee delle vertebre (comparsa improvvisa di dolore acuto, localizzato alla schiena) e delle ossa lunghe (femore);
  • a livello vascolare, l’ipercalcemia può causare, sul lungo termine, calcificazioni delle pareti delle arterie di tutto il corpo e i sintomi dipendono dalle sedi colpite (cervello, cute, reni, ecc).

 

COME SI FA LA DIAGNOSI DI IPERPARATIROIDISMO PRIMITIVO?

La diagnosi biochimica di iperparatiroidismo primitivo si fa quando l’aumento di calcemia si accompagna a valori elevati sia di calcio urinario che di PTH nel sangue.
Una carenza di vitamina D può ritardare la diagnosi di iperparatiroidismo primitivo, perché la calcemia è normale e non elevata, in particolare nelle fasi iniziali della malattia.

 

È POSSIBILE INDIVIDUARE LE GHIANDOLE PARATIROIDEE DOVE SI LOCALIZZA LA MALATTIA?

Le paratiroidi sono abitualmente ghiandole piccolissime, ma se sono sede di un adenoma diventano “visibili” con tecniche quali l’ecografia del collo, la RMN o la TAC del collo-mediastino.
La maggior parte delle volte le paratiroidi ingrandite si trovano nel collo, ma non sempre in punti visibili all’ecografia. In tal caso, oppure quando le paratiroidi patologiche sono situate nel torace, è necessario fare una RMN o una TAC del collo e torace, sempre con l’uso del contrasto appropriato.
Per completare la diagnosi, si esegue una scintigrafia con doppio contrasto, cioè con Tecnezio e SestaMIBI, che permette di confermare la sede e di valutare se si tratta di una unica paratiroide patologica oppure di una forma multipla o ancora di iperplasia delle 4 ghiandole.
In casi più rari, nessuno degli esami elencati sopra permette di trovare la/le ghiandole responsabili e in tal caso si procede all’intervento chirurgico esplorativo del collo e del mediastino superiore. È importante ribadire che l’esperienza del chirurgo è cruciale per trovare le ghiandole patologiche non visualizzate in sede pre-operatoria.

 

COME SI CURA L’IPERPARATIROIDISMO PRIMITIVO?

Intervento chirurgico
L’endocrinologo valuta l’indicazione all’intervento chirurgico secondo la gravità del quadro e l’età del paziente. Se l’iperparatiroidismo causa ipercalcemia franca (più di 1 mg/dL sopra il livello massimo della calcemia normale) oppure osteoporosi o calcolosi renale, oppure il/la paziente ha meno di 50 anni, è necessario asportare la/e ghiandola/e paratiroidea/e ammalata/e.
L’esperienza del chirurgo, nella chirurgia paratiroidea, aumenta notevolmente le probabilità del successo e limita considerevolmente le complicanze chirurgiche che sono le stesse della chirurgia tiroidea (ipocalcemia se si asportano o ledono le 4 ghiandole paratiroidee, lesione del nervo ricorrente con alterazioni della voce, o emorragia nell’immediato periodo post-chirurgico). Inoltre, nei centri di eccellenza è possibile utilizzare il dosaggio intra-operatorio del PTH (si fa un prelievo di sangue pochi minuti dopo l’asportazione della ghiandola paratiroidea ritenuta ammalata): un dimezzamento dei livelli di PTH intra-operatorio rispetto al controllo pre-operatorio è la prova che è stato asportato tutto il tessuto paratiroideo patologico e che ci sono poche probabilità di aver lasciato una paratiroide iperfunzionante. Se la riduzione del PTH è inferiore (non si dimezza), il chirurgo deve cercare altre ghiandole paratiroidee iperfunzionanti (forme multi-ghiandolari) per evitare che, dopo l’intervento, la malattia sia ancora attiva. Un chirurgo esperto è in grado di guarire oltre il 95% dei casi.

 

Terapia medica dell’iperparatiroidismo primitivo
Poiché l’ipercalcemia si accompagna ad aumento della produzione di urine con perdita di acqua, è importante evitare la disidratazione. Per questo motivo, è importante bere acqua a sufficienza, almeno 2 litri al giorno secondo il livello di calcemia.
Se il paziente sintomatico rifiuta l’intervento chirurgico o non può essere operato per controindicazioni all’intervento o ancora è in attesa dell’intervento e la sua calcemia è nettamente aumentata (supera di 1 mg/d il valore massimo della normalità), è possibile abbassare i livelli della calcemia con un farmaco, il Cinacalcet. Questo è in grado di dare una buona riduzione dei livelli di calcemia (e una parziale riduzione del PTH), ma non ha alcun effetto sull’osteoporosi.
Per il trattamento dell’osteoporosi l’endocrinologo ha oggi diverse categorie di farmaci, tra cui i bisfosfonati e il Denosumab.
Il trattamento della calcolosi renale è compito dell’urologo.

 

Terapia dell’ipercalcemia acuta
Se la calcemia supera 12 mg/dL, si possono manifestare nausea, vomito, disidratazione, confusione fino al coma. Di fronte a questi sintomi è opportuno recarsi in un PS per una idratazione per via endovenosa e la somministrazione endovenosa di farmaci per abbassare la calcemia.

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Dominique Van Doorne

 

Che cosa è l’ipoparatiroidismo?
Per ipoparatiroidismo si intende un quadro clinico dovuto a mancata produzione di PTH da parte delle paratiroidi caratterizzato da ipocalcemia, iperfosforemia (aumento del fosforo nel sangue) e carenza della forma attiva della vitamina D e dai sintomi che lo accompagnano.
Più raramente, il PTH viene prodotto normalmente ma non può agire per un difetto del suo recettore sulle cellule bersaglio (pseudo-ipoparatiroidismo). Nello pseudo-ipoparatiroidismo l’ipocalcemia si accompagna a livelli aumentati di PTH (e non diminuiti come nell’ipoparatiroidismo vero).

 

Quali sono i sintomi dell’ipocalcemia?
L’impossibilità di mantenere una normale concentrazione del calcio nei liquidi extra-cellulari provoca una sintomatologia specifica, che dipende dalla gravità e dalla rapidità d’insorgenza dell’ipocalcemia.
Quando l’ipocalcemia è recente e improvvisa, si possono avere:

  • formicolii (chiamati parestesie) ai piedi, alle mani e alla regione intorno alla bocca, in particolare al  labbro superiore;
  • nelle forme più gravi contrazioni spastiche dei muscoli, crampi dolorosi al minimo movimento dei muscoli degli arti, fino ad un quadro, per fortuna raro, di tetania diffusa che deve essere rapidamente corretto.

Quando l’ipocalcemia insorge lentamente ed è cronica, si possono avere sintomi causati dal deposito dei sali di fosfato di calcio nei tessuti molli, in particolare nel cervello. I sintomi più frequenti sono:

  • problemi oculari, in particolare cataratta;
  • pelle secca e spessa;
  • capelli fragili, che si spezzano fino ad avere zone di alopecia;
  • unghie fragili, con creste orizzontali;
  • ansia, irritabilità, labilità emotiva, depressione, fino a quadri di demenza o psicosi, oggi sempre più rari grazie alla diagnosi precoce.

 

Quali sono le cause dell’ipoparatiroidismo?
Le cause di ipoparatiroidismo sono:

  • danno o asportazione delle paratiroidi durante un  intervento chirurgico di tiroidectomia, di paratiroidectomia o altri interventi sul collo per patologie non endocrine. È la causa più frequente di ipoparatiroidismo;
  • autoimmunitarie (rare), dovute alla presenza di anticorpi che attaccano e distruggono le paratiroidi;
  • processi infiltrativi (malattie sistemiche molto rare) o tumori del collo che invadono e distruggono le paratiroidi;
  • radiazioni sul collo, con lesione permanente di tutte le ghiandole paratiroidee;
  • sindrome genetiche:
  • assenza congenita di paratiroidi;
  • assenza di secrezione di PTH per insensibilità delle ghiandole paratiroidee all’ipocalcemia (danno del sensore al calcio situato sulla membrana della cellula paratiroidea);
  • malassorbimento di magnesio, come avviene nell’etilismo cronico o in sindromi da malassorbimento.

 

Quali sono le cause dello pseudo-ipoparatiroidismo?
Lo pseudo-ipoparatiroidismo è un quadro clinico più raro dell’ipoparatiroidismo, dove l’ipocalcemia si associa a livelli elevato di PTH.
Le cause sono genetiche e comprendono varie anomalie del recettore per il PTH, per cui il PTH non può agire sugli organi bersaglio e non può aumentare il riassorbimento del calcio a livello renale e osseo;

 

Come si cura l’ipocalcemia?
La terapia dell’ipoparatiroidismo mira a correggere l’ipocalcemia con calcio e vitamina D; solo recentemente l'ente regolatorio nazionale (AIFA) ha autorizzato in Italia l'uso di paratormone sintetico iniettivo per il trattamento delle forme più severe e refrattarie di malattia (L. 648). La vitamina D è il farmaco più efficace nella terapia dell’ipoparatiroidismo, perché stimola il riassorbimento di calcio dall’intestino e rimodella il tessuto osseo.
È necessario dare il metabolita attivo della vitamina D, chiamato calcitriolo, perché, in assenza di PTH, la vitamina D non viene attivata a livello renale.
Per trovare il giusto dosaggio del calcitriolo è bene controllare spesso la calcemia.
Per raggiungere una buona calcemia può essere necessaria la somministrazione di 1-3 g al giorno di calcio.
Per monitorare la terapia è importante fare ogni tanto anche il controllo della calciuria (calcio nelle urine delle 24 ore).
La crisi ipocalcemica acuta post-operatoria (vedi Quali sono i sintomi) deve essere trattata con somministrazione endovenosa di calcio.

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Giorgio Borretta, Endocrinologo, Ospedale S. Croce e Carle, Cuneo
Giusi Beretta Anguissola, Endocrinologo, Campus Biomedico, Roma
Daniela Bosco, Endocrinologo, Ospedale S. Giovanni, Roma
Roberto Cesareo, Endocrinologo, Ospedale S. Maria Goretti, Latina
Vincenzo Fiore, Endocrinologo, Ospedale Civile di Tivoli
G. Mancini, Endocrinologo, Ospedale Civile di Palestrina
Laura Mallardo, Endocrinologo, Ospedale S. Pertini, Roma
Sergio Mariani, Endocrinologo, Ospedale S. Spirito, Roma
Giuseppe Monti, Endocrinologo, Ospedale Sant’Andrea, Roma
Andrea Palermo, Endocrinologo, Campus Biomedico, Roma
Gregorio Reda, Endocrinologo, Ospedale S. Pertini, Roma
R. Tozzi, Fisiatra, Ospedale S. Maria Goretti, Latina
Michele Zini, Endocrinologo, Arcispedale A. Maria Nuova, Reggio Emilia

 

COSA È L’OSTEOPOROSI?

L’osteoporosi è una malattia dello scheletro caratterizzata da alterazioni qualitative e quantitative della massa ossea, che predispongono l’osso stesso a un aumentato rischio di fratture. Questa malattia interessa soprattutto le ossa sottoposte a maggior carico, cioè le vertebre, il femore, le ossa del polso e le coste.
Sono considerate primitive le forme di osteoporosi che compaiono dopo la menopausa e con l’avanzare della età, secondarie quelle determinate da un ampio numero di patologie e farmaci.
L’osteoporosi è una malattia di rilevanza sociale. La sua incidenza aumenta con l’età e interessa la maggior parte della popolazione oltre l’ottava decade di vita.
Le fratture osteoporotiche rappresentano una delle maggiori cause di mortalità tra gli anziani.

 

COME SI MANIFESTA L’OSTEOPOROSI?

L’osteoporosi è una malattia insidiosa, perchè decorre per lungo tempo senza che ci siano segni clinici o sintomi rilevanti.
Tra le manifestazioni cliniche più importanti ricordiamo:

  • dolore osseo acuto, che può essere la spia di una frattura ossea (soprattutto vertebrale);
  • dolore cronico persistente, che tende a peggiorare con la stazione eretta prolungata o con l’attività fisica;
  • riduzione della statura (quando superiore a 4 cm è indice di osteoporosi di grado severo);
  • modificazioni della postura e atteggiamento cifotico della colonna.

 

QUALI SONO I FATTORI DI RISCHIO PER L’OSTEOPOROSI?

Il 30% del rischio di osteoporosi è rappresentato da fattori genetici, il rimanente 70% è riconducibile a fattori ambientali, sui quali si può intervenire tramite opera di prevenzione e informazione.
Tra i più importanti fattori di rischio ricordiamo:

  • età
  • sesso femminile
  • menopausa precoce
  • inadeguata assunzione di calcio e vitamina D
  • familiarità per fratture osteoporotiche
  • immobilizzazione prolungata a letto
  • malattia della tiroide o delle paratiroidi
  • insufficienza renale
  • malassorbimento
  • magrezza (BMI < 19)
  • fumo
  • abuso di alcool
  • farmaci (soprattutto cortisone)

 

OSTEOPOROSI SECONDARIA

L’osteoporosi secondaria va sempre distinta da quella post-menopausale o senile.
Le cause di osteoporosi secondaria più comuni sono:

  • endocrine: ipogonadismo, ipertiroidismo, ipercortisolismo, iperparatiroidismo, diabete mellito
  • nutrizionali: malattia celiaca, carenza di vitamina D, sindromi da malassorbimento
  • farmaci: cortisone, ormoni tiroidei, eparina, anti-epilettici, GnRH-agonisti, diuretici dell’ansa, ciclosporina, inibitori dell’aromatasi, chemioterapici
  • malattie renali
  • altre: artrite reumatoide e altre patologie reumatiche, trapianti d’organo, mieloma, anoressia.

 

DIAGNOSI DIFFERENZIALE

L’esclusione di forme secondarie può essere fatta con pochi esami di primo livello: emocromo, VES, protidemia frazionata, calcio, fosforo, fosfatasi alcalina totale, creatinina, calciuria nelle 24 h.
Le forme di osteoporosi secondaria comportano percorsi diagnostici specifici, con esami di II livello: calcio ionizzato, TSH, PTH, 25OH-vitamina D, cortisolo libero urinario, testosterone, immunofissazione sierica e/o urinaria, anticorpi anti-transglutaminasi, esami specifici per patologie associate.
Almeno nei soggetti anziani, visto l'alto tasso di carenza di vitamina D, il dosaggio della vitamina D andrebbe inserito tra gli esami di primo livello.

 

COME SI FA LA DIAGNOSI DI OSTEOPOROSI?

Oltre all’esame clinico e agli esami di laboratorio, il miglior modo di identificare i pazienti a rischio elevato di osteoporosi è la valutazione qualitativa e quantitativa della densità ossea tramite i seguenti esami strumentali.

 

Densitometria ossea (DEXA)
È a tutt’oggi l’esame di riferimento per la diagnosi di osteoporosi, in quanto in grado di quantificare la riduzione della massa ossea e valutare nel tempo l’efficacia del trattamento.
Il parametro di elezione per la diagnosi di osteoporosi secondo i criteri OMS è una Bone Mineral Density (BMD) con valore di T-score < - 2.5 misurata con tecnica DEXA.
L’esame è rapido, indolore e comporta una irrilevante esposizione radiante. La DEXA va eseguita in tutte le donne dopo i 65 anni di età, ma in presenza di fattori di rischio va anticipata nelle donne e eseguita anche nei maschi. L’esame è eseguito a livello della colonna lombare e del femore, e in casi particolari a livello dell’avambraccio. La sua ripetizione è raramente giustificata a intervalli inferiori ai 2 anni. Densitometri di ultima generazione sono anche in grado di rilevare parametri dell'osso di tipo qualitativo, finalizzati alla valutazione della microarchitettura dell'osso e che pertanto forniscono dati aggiuntivi alla valutazione del rischio di frattura.

 

Ultrasonografia ossea (QUS)
Fornisce parametri che sono indici indiretti di massa e integrità strutturale dell’osso, misurati a livello del calcagno e delle falangi. Il suo utilizzo è complementare alla densitometria ossea (DEXA).

 

Rx colonna vertebrale
Permette lo studio morfometrico delle vertebre. Tale esame, inutile per porre diagnosi di osteoporosi, è fondamentale quando abbiamo il sospetto che il paziente possa avere una frattura vertebrale. Il tratto della colonna vertebrale che deve essere valutato è quello dorso-lombo-sacrale.

 

COME SI PREVIENE L’OSTEOPOROSI?

La prevenzione è possibile e si effettua correggendo i fattori di rischio.

Astensione dal fumo e dall’alcool.

Attività fisica continuativa, al fine di prevenire il rischio di cadute e fratture: camminare per più di 30 minuti al giorno oppure attività fisica personalizzata, tesa al rinforzo muscolare e alla rieducazione all’equilibrio e alla deambulazione.

Adeguato apporto di calcio: il fabbisogno di calcio quotidiano varia a seconda delle varie età della vita come si vede nella tabella.

 

Necessità di calcio
1-5 anni 800 mg/die
6-10 anni 800-1200 mg/die
11-24 anni 1200-1500 mg/die
25-50 anni 1000 mg/die
Gravidanza e allattamento 1200-1500 mg/die
Donne post-menopausa in trattamento estrogenico
Uomini di 50-65 anni
1000 mg/die
Donne post-menopausa senza trattamento estrogenico
Uomini oltre i 65 anni
1500 mg/die

 

 

Contenuto medio di calcio in alcuni alimenti
Alimento mg Ca/100 g alimento
Formaggi a lunga stagionatura (grana, emmenthal) 900-1100
Formaggi a media stagionatura (taleggio, fontina, provolone) 600-900
Formaggi frechi (ricotta, mozzarella, robiola) 400-600
Pesce azzurro 350
Rucola 300
Mandorle, noci, nocciole 250-300
Cavoli, rape, verze, fagioli 250
Gamberetti 120
Latte e yogurth (intero e magro) 100-120
Spinaci, broccoli 80-100

 

Adeguato apporto di vitamina D (indispensabile all’ assorbimento del calcio). La vitamina D è prodotta dal nostro organismo dopo sufficiente esposizione alla luce solare (almeno mezz’ora ogni giorno) ed è assunta in minor misura con gli alimenti.

 

Contenuto medio di vitamina D in alcuni alimenti
Alimento UI di vitamina D/porzione
Olio di fegato di merluzzo 1360/cucchiaio
Salmone grigliato 360/100 g
Sgombro grigliato 345/100 g
Sardine in scatola 250/50 g
Tonno in olio 200/85 g
Uovo 20/tuorlo
Formaggio svizzero 12/30 g

 

Qualora l’apporto di calcio e vitamina D sia insufficiente, è necessaria una supplementazione farmacologica. Le dosi di calcio vanno commisurate al grado di carenza alimentare e in genere oscillano tra i 500-1000 mg al giorno. È sempre utile una supplementazione con 800-1000 UI/die di vitamina D.
Un adeguato apporto di calcio e vitamina D rappresenta la premessa per qualsiasi trattamento farmacologico specifico. La carenza di calcio e vitamina D è la causa più comune di mancata risposta alla terapia farmacologica dell’osteoporosi.

 

QUALE ATTIVITÀ FISICA?

Nelle persone anziane la forza muscolare si riduce dal 2 al 4% ogni anno, a partire dalla sesta decade. Questo è dovuto alla riduzione sia della massa muscolare che delle dimensioni e del numero di fibre e di cellule nervose nel midollo spinale. Dopo gli 80 anni la riduzione della forza muscolare è inoltre associata a un graduale aumento delle limitazioni funzionali e della frequenza di cadute.
L'attività fisica, migliorando la forza muscolare, è efficace nella prevenzione dell'osteoporosi e delle cadute.
Negli anziani è controindicata un'attività fisica a elevato impatto, come la corsa o i salti, perché può provocare dolore articolare, fratture da stress e danni della cartilagine articolare. È consigliabile quindi praticare attività con basso o moderato impatto di carico come il cammino e gli esercizi di resistenza (sollevare e abbassare un carico leggero per più ripetizioni). Le continue contrazioni muscolari e le sollecitazioni dei tendini stimolano l’aumento della densità dell’osso. Negli anziani anche un’attività moderata, come una passeggiata, viene attualmente considerata valida nella prevenzione dell’osteoporosi e delle fratture. Camminare per più di 30 minuti al dì svolge un’azione positiva, aumentando la destrezza e riducendo il rischio di cadute.
È opportuno sottolineare che, con caratteristiche e obiettivi diversi, l’attività fisica è indispensabile in ogni età al fine di prevenire l’insorgenza dell’osteoporosi.

Attività fisica adattata all’età
Nei bambini e in età giovanile, dove è necessario il raggiungimento del massimo picco di massa ossea, è consigliabile un’attività sportiva regolare, preferibilmente in carico e con un impatto importante (calcio, basket, atletica leggera, pallavolo, …).
Nella prima età post-menopausale e nelle donne in pre-menopausa si devono creare i presupposti per un mantenimento o una minore riduzione possibile della massa ossea, incoraggiando una regolare attività fisica, personalizzando la tipologia degli esercizi.
Nelle persone anziane l'attività fisica ha come obiettivi la prevenzione delle cadute, il miglioramento dell’agilità, dell’equilibrio e della coordinazione.A volte l’anziano può trovare beneficio da attività collettive come la danza che, oltre a migliorare la forza muscolare e la capacità aerobica, può svolgere un ruolo determinante nel migliorare l’equilibrio e la coordinazione, prevenendo le cadute, costituendo anche un’alternativa per quei soggetti non adatti a praticare esercizi di rinforzo muscolare.

 

TERAPIA FARMACOLOGICA

A tutt’oggi sono in commercio numerosi farmaci in grado di arrestare l’evoluzione della malattia e di ridurre, in particolare, il rischio di fratture vertebrali, non vertebrali e di femore.
Esula tuttavia dallo scopo di questa trattazione la descrizione di tali farmaci e per essi si rimanda ad un confronto con lo specialista di fiducia esperto in patologie osteometaboliche.

 

CONCLUSIONI

L’approccio moderno al paziente con osteoporosi, accanto alla valutazione dei valori densitometrici, pone particolare attenzione alla valutazione dei fattori di rischio. Il peso di tali fattori, valutato singolarmente e/o in associazione, può aumentare considerevolmente il rischio fratturativo a 10 anni e rendere giustificabile una terapia farmacologica prescindendo, in alcuni casi, dalla valutazione densitometrica.

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Chiara Sabbadin
Unità di Endocrinologia, Dipartimento di Medicina, Università di Padova

 

Che cos’è l’iposurrenalismo
È una condizione dipendente dall’insufficiente produzione di cortisolo da parte del surrene, una ghiandola posta al di sopra di ognuno dei due reni.
Può essere:

  • primario (detto anche morbo di Addison): il problema è una malattia della corteccia delle ghiandole surrenaliche, con una mancanza degli ormoni che sono lì prodotti in situazioni normali (importanti sono cortisolo e aldosterone);
  • centrale (o secondario): il problema è una malattia dell’ipofisi o dell’ipotalamo, che porta a mancanza di ACTH. L’ACTH è l’ormone che stimola la produzione di cortisolo da parte dei surreni. In questo caso, anche se i surreni sono normali, non vengono stimolati a funzionare. Rimane invece normale la produzione di aldosterone, che non dipende dallo stimolo dell’ACTH.

 

Perché è importante diagnosticarlo?
Il cortisolo è il cosiddetto “ormone dello stress”, fondamentale per la normale risposta dell’organismo agli stress di qualunque natura: sforzi fisici, stress psicologici intensi, malattie, interventi chirurgici. Il cortisolo, infatti, regola le energie disponibili nel corpo, la pressione arteriosa, il ritmo sonno-veglia e influenza moltissimi altri sistemi, da quello immunitario, a quello gastro-intestinale, riproduttivo e osseo. Un’alterata produzione di cortisolo può mettere a rischio la salute del paziente, soprattutto in corso di eventi stressanti, come infezioni, traumi, interventi chirurgici o grave stress psico-somatico.

 

Quanto è frequente?
L’iposurrenalismo primario è una patologia abbastanza rara: in Europa c’è circa un malato ogni 10.000 abitanti.
La forma centrale, invece, ha una frequenza tripla (3 casi ogni 10.000 abitanti) e colpisce soprattutto le persone intorno a 50 anni.

 

Da cosa dipende?
L’iposurrenalismo primario nei paesi industrializzati è soprattutto causato da anticorpi che provocano la distruzione del surrene. In 4 casi su 5 sono presenti contemporaneamente altre malattie da anticorpi, che possono colpire il pancreas (diabete di tipo 1), la tiroide, lo stomaco, ecc.
Ormai molto più rare sono le cause infettive, soprattutto la tubercolosi, che in passato era la causa più frequente di iposurrenalismo.
Altre cause possono essere genetiche (di solito diagnosticate già nel bambino) o dipendenti da danni ai surreni provocati da interventi chirurgici, radioterapia, farmaci, tumori, alterazioni vascolari, accumulo di sostanze prodotte in eccesso dall’organismo.
Per quanto riguarda l’iposurrenalismo centrale, la causa di gran lunga più frequente è la somministrazione di cortisone per lungo tempo. Altre possibili cause sono danni all’ipofisi prodotti da tumori, interventi chirurgici, radioterapia, farmaci, infezioni, infiammazioni, alterazioni vascolari, accumulo di sostanze prodotte in eccesso dall’organismo.

 

Quali sono le manifestazioni dell’iposurrenalismo?
L’iposurrenalismo di solito inizia molto lentamente con disturbi vaghi: il paziente spesso inizia a lamentare debolezza che peggiora progressivamente, nausea, dolori addominali, calo di peso, pressione bassa e difficoltà a svolgere le solite attività. Nelle forme primarie la pelle diventa scura (come un’abbronzatura che non sparisce) per i livelli aumentati di ACTH, mentre nelle forme centrali i sintomi possono dipendere dalla presenza di una massa che cresce all’interno del cranio (per esempio mal di testa, alterazioni della vista).
Negli esami generali del sangue si trovano sodio basso e tendenza all’ipoglicemia e solo nelle forme primarie anche potassio alto.
Questa situazione può durare a lungo senza arrivare alla diagnosi, per poi aggravarsi in modo improvviso in corso di fatti acuti (malattia, febbre, trauma, ecc), diventando un’emergenza medica.

 

Come si fa la diagnosi?
Il sospetto dato dai sintomi e/o dagli esami generali del sangue viene confermato trovando bassi livelli di cortisolo nel sangue.
In alcuni casi particolari (per esempio, dopo trattamento con cortisonici) o con valori dubbi di cortisolo nel sangue, si può fare un esame più approfondito in ospedale, misurando i livelli di cortisolo dopo iniezione di un farmaco.
Il dosaggio dell’ACTH farà poi capire se l’iposurrenalismo è primario (ACTH molto alto) o centrale (ACTH normale o basso). Questo porterà il medico a decidere come proseguire gli accertamenti per capire la causa dell’iposurrenalismo.

 

Qual è la terapia?
La terapia dell’iposurrenalismo si basa sulla somministrazione di cortisonici. L’obiettivo è quello di compensare il deficit, per far star bene il paziente. Questo non è semplicissimo, perché i livelli di cortisolo nel sangue non sono costanti nella giornata, ma sono più alti al mattino e più bassi intorno a mezzanotte. I farmaci a nostra disposizione non sono in grado di imitare perfettamente queste modificazioni che avvengono normalmente nel corso della giornata.
Si possono utilizzare idrocortisone o cortisone acetato, da prendere 2 o 3 volte nel corso della giornata, oppure una forma particolare di cortisone a rilascio modificato, che si prende una sola volta al giorno.
Nelle sole forme primarie si deve prendere anche fludrocortisone, che ha lo scopo di sostituire l’attività dell’aldosterone, fondamentale per l’equilibrio dell’acqua e dei sali e per il controllo della pressione. Il fludrocortisone non è in commercio in Italia, ma viene procurato gratuitamente ai pazienti che ne hanno bisogno attraverso gli ospedali.

 

Come proteggersi
Qualunque sia la forma di cortisone utilizzata, è indispensabile:

  • non interromperla mai;
  • aumentare il dosaggio in corso di stress (sforzi fisici intensi, traumi, febbre, malattie acute, interventi chirurgici, ecc);
  • passare alle forme per iniezione in caso di vomito o diarrea (in cui il farmaco dato per bocca non verrebbe assorbito).

Quindi in caso di malattia (o incidente), il farmaco non deve assolutamente essere sospeso (per esempio perché “sto già prendendo l’antibiotico”), ma al contrario aumentato sotto controllo medico. È fondamentale, quindi, che il paziente sia ben educato a riconoscere e affrontare tali condizioni e sia seguito e periodicamente controllato da personale medico competente. Altrettanto importante è la prevenzione di tutte le situazioni che possono metterlo a rischio, quindi:

  • consultare immediatamente il medico in caso di febbre o malattia;
  • avvertire il dentista (e ancor più il chirurgo) dell’esistenza di questa malattia, in maniera che vengano presi tutti i provvedimenti necessari a evitare problemi;
  • fare tutte le vaccinazioni a disposizione (a cominciare dalla anti-influenzale), in maniera da proteggersi dalle possibili malattie che potrebbero essere causa di problemi;
  • portare sempre con sé qualcosa (braccialetto, tesserino, documento, …, tatuaggio) che indichi la presenza di questa malattia, in maniera che, anche nel malaugurato caso il paziente fosse incosciente, per esempio dopo un incidente, i soccorritori possano comportarsi nel modo migliore per evitargli guai peggiori.
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Soraya Puglisi
Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, Medicina Interna 1 a Indirizzo Endocrinologico, AOU San Luigi di Orbassano, Università di Torino

 

Cosa è l'iperaldosteronismo?
L'iperaldosteronismo primitivo è una malattia causata da un'aumentata produzione di aldosterone da parte del surrene. L'aldosterone è un ormone che serve a regolare la pressione arteriosa attraverso l'eliminazione e il riassorbimento di sodio e potassio a livello del rene.

Cosa provoca?
L'aumentata produzione di aldosterone, causata nella maggior parte dei casi da una patologia benigna come un tumore benigno del surrene o un ingrandimento di entrambe le ghiandole surrenaliche, provoca a livello renale un maggior riassorbimento di sodio (e di acqua) e una maggior eliminazione di potassio. Questo spiega le principali caratteristiche della malattia: ipertensione arteriosa (spesso difficilmente controllabile, nonostante la terapia con più farmaci) e, in circa un terzo dei pazienti, bassi livelli di potassio nel sangue.
L'iperaldosteronismo primitivo in passato era considerato molto raro, mentre oggi si pensa che potrebbe essere la causa dell’ipertensione arteriosa in 1 caso ogni 10-20 pazienti.

Come fare la diagnosi?
Bisogna sospettare la presenza di questa patologia e fare esami per dimostrarla, nei casi di ipertensione resistente (non si riesce a normalizzare la pressione nonostante l'utilizzo contemporaneo di 3 farmaci per abbassarla, tra cui almeno un diuretico, assunti regolarmente a dose piena) e ipertensione trovata prima dei 40 anni. L’iperaldosteronismo dovrebbe essere cercato anche nei pazienti con ipertensione in cui è stata trovata casualmente una massa surrenalica e in quelli che hanno genitori, fratelli o figli con questa malattia.
Per fare la diagnosi, bisogna fare un prelievo del sangue per dosare gli ormoni aldosterone e renina, dopo che il medico ha modificato ed eventualmente interrotto la terapia per la pressione (se questa utilizza dei farmaci che possono rendere difficile capire il risultato degli esami). Solitamente è poi necessario un altro esame per la conferma definitiva: il più utilizzato è un test in cui si fanno diversi prelievi di sangue mentre è in corso una flebo che dura 4 ore, per valutare come cambiano i valori degli ormoni.
Quando gli esami ormonali hanno dato la sicurezza della diagnosi, bisogna fare una TAC dell’addome per scoprire se c’è una massa nel surrene.

Come si cura?
Se si trova la massa, bisogna eliminarla chirurgicamente. Prima dell’intervento è spesso necessario eseguire una procedura particolare, detta cateterismo, che viene fatta solo in centri specializzati, per essere sicuri che quella massa sia la causa dell’iperaldosteronismo.
Se non si trova la massa o nel caso in cui l’intervento chirurgico sia sconsigliato (per l’età del paziente o la presenza di altre malattie), si utilizzano farmaci specifici come lo spironolattone.

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Maria Elena Aloini1, Pina Lardo2, Antonio Stigliano1
1Dipartimento di Medicina Clinica e Molecolare, Ospedale Sant'Andrea, Facoltà di Medicina e Psicologia, "Sapienza" Università di Roma
2
Ambulatorio Endocrinologia, Azienda Sanitaria Potenza

 

Si definisce “incidentaloma” una massa del surrene, che non dà sintomi, scoperta per caso facendo esami radiologici sull’addome per altri motivi. Trovarla è una cosa frequente, perché si fanno sempre più frequentemente esami radiologici.
Nella maggior parte dei casi si tratta di lesioni che interessano un solo surrene, ma entrambi possono essere interessati in un caso su 6.
In oltre tre quarti dei casi gli incidentalomi sono adenomi che prendono origine dalla corticale surrenalica senza dare eccesso di ormoni, ma in un sesto dei casi possono provocare una secrezione ormonale eccessiva, soprattutto di cortisolo. Una minoranza di casi (meno di 1 su 10) sono di origine maligna.
Al momento in cui vengono trovati per la prima volta, bisogna rispondere a due domande principali:

  1. c’è la possibilità che siano maligni?
  2. c’è una secrezione eccessiva di ormoni?

Le linee guida raccomandano che tutti gli incidentalomi surrenalici vengano sottoposti a un esame radiologico per verificare che abbiano caratteristiche di benignità. La TAC senza mezzo di contrasto è attualmente la metodica più affidabile per distinguere le lesioni surrenaliche benigne (aspetto omogeneo, margini regolari e contenuto ricco di grassi) da quelle maligne: se le caratteristiche della massa surrenalica ne indicano la natura benigna, non serve fare altri esami radiologici; se la natura non è chiara, è invece necessario approfondire con altri esami.
Per quanto riguarda la valutazione della secrezione, tutti devono essere sottoposti a un test in cui si prende per bocca 1 mg di desametasone la sera alle h 23 e si fa un prelievo di sangue per il dosaggio della cortisolemia la mattina successiva fra le 8 e le 9 (gli orari sono importanti, come pure il fatto di dormire regolarmente nel corso di quella notte). Se il livello di cortisolemia dopo questo test è inferiore a 1.8 μg/dL (50 nmol/L), si può escludere la secrezione autonoma di cortisolo. Se il livello è maggiore, potrebbero essere utili altri test. È importante definire la presenza di secrezione autonoma di cortisolo, perché è associata a maggiore presenza di fattori di rischio cardio-vascolare (obesità, diabete, ipertensione arteriosa, dislipidemia) e ad aumentato rischio di sviluppare malattie cardio-vascolari e metaboliche, osteoporosi e fratture, rischio trombotico. L’eccesso di cortisolo aumenta di 4-5 volte la mortalità, soprattutto per eventi cardio-vascolari (infarto e ictus) e per infezioni.
Si può poi eseguire il dosaggio delle metanefrine (nel sangue o nelle urine delle 24 ore) per escludere un particolare tipo di lesione surrenalica, il feocromocitoma, nel caso di dubbio ai risultati della TAC o comunque sempre prima di eseguire una biopsia surrenalica o andare all’intervento chirurgico (se si decide di asportare la lesione).
In presenza di ipertensione e/o bassi livelli di potassio nel sangue, è raccomandata l’esecuzione di un altro test, il rapporto aldosterone/renina nel sangue, per escludere un’altra forma di eccessiva secrezione ormonale, l’iperaldosteronismo primitivo.
Infine, nei pazienti con aspetti radiologici o clinici che facciano sospettare iperandrogenismo o carcinoma cortico-surrenalico, va eseguito anche il dosaggio degli ormoni sessuali e dei loro precursori.
Fatto l’inquadramento diagnostico (lesione benigna/maligna, eccesso di ormoni sì/no), bisogna decidere la terapia.
C’è accordo sul fatto che vadano asportate chirurgicamente le lesioni maligne e quelle che producono eccesso di ormoni. Negli altri casi non esistono al momento sufficienti evidenze per definire quale sia la terapia migliore (chirurgia, farmaci o semplici controlli nel tempo). Le linee guida lasciano scegliere, sulla base delle caratteristiche della singola lesione e del singolo paziente, tenendo conto anche delle sue preferenze.
È stato dimostrato che l’asportazione del surrene che contiene il nodulo con secrezione autonoma di cortisolo porta a risultati migliori per quanto riguarda la diminuzione della mortalità e delle patologie prima descritte. La chirurgia deve quindi essere presa in considerazione in presenza di patologie correlate all’eccesso di cortisolo (ipertensione, diabete, dislipidemia, osteoporosi) multiple, progressive, che non rispondono ai trattamenti specifici, associate a danno d’organo. Ma il paziente deve essere in condizioni tali da poter affrontare l’intervento ed essere preparato alla possibilità di dover fare (anche per un tempo molto lungo) una terapia sostitutiva con cortisone, finché il surrene rimasto non è in grado di produrre abbastanza cortisolo per le necessità dell’organismo.
Se l’intervento chirurgico non è indicato o si decide di non operare per una qualsiasi ragione, bisogna comunque fare dei controlli clinici nel tempo per valutare lo sviluppo/peggioramento di patologie potenzialmente associate all’eccesso ormonale (pressione arteriosa, metabolismo glucidico e lipidico, elettroliti, …). Inoltre, poichè gli adenomi con chiare caratteristiche radiologiche di benignità generalmente non crescono di dimensioni, mentre le masse maligne hanno una rapida crescita, le LG indicano che:

  • se alla prima valutazione le caratteristiche radiologiche sono senza dubbio benigne, indipendentemente dalle dimensioni, non è necessario ripetere esami radiologici;
  • negli altri casi è meglio ripetere nel tempo gli esami radiologici per verificare se le dimensioni rimangono stabili o se crescono (e in tal caso prendere gli opportuni prtovvedimenti).

 

Bibliografia

  1. Bourdeau I, El Ghorayeb N, Gagnon N, Lacroix A. Differential diagnosis, investigation and therapy of bilateral adrenal incidentalomas. Eur J Endocrinol 2018, 179: R57–67.
  2. Elhassan YS, Alahdab F, Prete A, et al. Natural history of adrenal incidentalomas with and without mild autonomous cortisol excess: a systematic review and meta-analysis. Ann Intern Med 2019, 171: 107-16.
  3. Fassnacht M, Tsagarakis S, Terzolo M, et al. European Society of Endocrinology clinical practice guidelines on the management of adrenal incidentalomas, in collaboration with the European Network for the Study of Adrenal Tumors. Eur J Endocrinol 2023, 189: G1–42.
  4. Aresta C, Favero V, Morelli V, et al. Cardiovascular complications of mild autonomous cortisol secretion. Best Pract Res Clin Endocrinol Metab 2021, 35: 101494.
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Benedetta Zampetti1 & Letizia Canu2
1SC di Endocrinologia, Ospedale Niguarda, Milano
2Dipartimento di Fisiopatologia Clinica, Unità di Endocrinologia, Università di Firenze

Cosa sono?
Il feocromocitoma è un tumore raro, che nasce all’interno dei surreni, ghiandole localizzate sopra ciascun rene, di solito fra i 20 e i 40 anni.
Il paraganglioma è un tumore simile al feocromocitoma, che si può sviluppare in punti diversi dell'organismo, all’interno dell’addome, o del torace o del collo.
Il feocromocitoma/paraganglioma è nella maggior parte dei casi benigno, ma produce spesso ormoni in eccesso, che sono di solito la causa che lo fa scoprire.
Talvolta può essere causato da malattie genetiche.

 

I sintomi
I sintomi più comuni sono:

  • mal di testa, di intensità e frequenza variabile;
  • pressione alta, che talvolta va e viene;
  • batticuore e respirazione accelerata;
  • pelle fredda e sudata;
  • ansia, agitazione, nausea.

I sintomi possono comparire e scomparire nel giro di pochi minuti, come se fossero delle "crisi".
Il tumore talvolta non provoca sintomi e viene trovato "per caso", cioè nel corso di esami (come ecografia o TAC) fatti per altri motivi.

 

La diagnosi
Per avere la certezza della diagnosi, bisogna dosare nel sangue e/o nelle urine gli ormoni prodotti in eccesso dal tumore (catecolamine e loro derivati). Prima di fare gli esami, bisogna dare al medico l’elenco delle medicine che vengono prese, perchè alcuni farmaci possono rendere difficile l’interpretazione dei risultati.
Bisogna poi trovare dove è il tumore, con TAC o risonanza magnetica o altri esami.
Quando la diagnosi è certa, vale la pena (soprattutto nei giovani) di eseguire esami genetici, per capire se la malattia è isolata (solo in quel paziente) o può colpire diversi membri di una famiglia. In questo caso, bisogna fare gli esami genetici anche nei familiari (fratelli, figli, cugini, ecc): in quelli che hanno la stessa alterazione genetica si cercherà la malattia, anche se non ci sono sintomi, prima che possa fare danni.

 

La terapia
Il tumore si asporta chirurgicamente.
In preparazione alla chirurgia bisogna prendere delle medicine per controllare la pressione e la frequenza cardiaca e per preparare l'organismo all'intervento chirurgico. Non tutti i farmaci vanno bene e bisogna sempre dire al medico quali altri farmaci si stanno già prendendo.
La chirurgia porta a guarigione nella grande maggioranza dei casi, ma è sempre necessario proseguire i controlli perché il tumore in alcuni casi può ripresentarsi anche a distanza di anni.

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Roberto Castello, Medicina/Endocrinologia, AOUI Verona
Francesca Zambotti, Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, AOUI Verona

 

Il ciclo mestruale si suddivide in due fasi:

  • fase follicolare o estrogenica, dalla mestruazione all’ovulazione;
  • fase luteinica o progestinica, dall’ovulazione alla mestruazione successiva.

L’ovulazione separa le due fasi e molte donne possono riconoscere soggettivamente il momento dell’ovulazione in base ad alcuni segni: presenza nei giorni precedenti di perdite (con secrezioni filanti e trasparenti) o dolore al basso ventre.

La durata media di un ciclo mestruale è di 28 giorni, contando dal primo giorno di comparsa del sanguinamento mestruale al primo giorno del ciclo successivo. Proprio perché tale valore è una media sono considerate normali piccole variazioni intorno a tale valore. Si ritengono invece patologici:

  • cicli di durata più breve di 25 giorni, ossia la comparsa di un maggior numero di cicli mestruali in un anno, definita polimenorrea;
  • cicli di durata superiore a 35 giorni che comportano quindi un minor numero di cicli all’anno, condizione definita oligomenorrea.

L’assenza di mestruazioni per più di 3 mesi si definisce amenorrea.

Oltre alle variazioni della durata dei cicli possono presentarsi anche alterazioni dell’entità del sanguinamento mestruale, anche se ciò è più difficile da quantificare e la norma è una questione individuale.

  • Menorragia è un flusso mestruale di durata maggiore rispetto alla norma della paziente.
  • Ipermenorrea è un sanguinamento mestruale di entità maggiore rispetto alla norma (> 80 mL).
  • La comparsa di perdite ematiche vaginali al di fuori del periodo mestruale si definisce spotting se è di lieve entità, oppure metrorragia se si parla di una quantità più abbondante.

Le alterazioni del ciclo mestruale non sono sempre patologiche. Infatti subito dopo il menarca, cioè la prima mestruazione della vita di una donna, o in vicinanza della menopausa la presenza di irregolarità è abbastanza frequente e non richiede accertamenti medici a meno che non persista.

All’interno del periodo fertile di una donna, che va dal menarca alla menopausa, la gravidanza è la principale causa di alterazioni del ciclo mestruale e la prima da escludere in ogni caso. Può sembrare banale, ma a volte e soprattutto in chi ha cicli non molto regolari l’avvio di una gravidanza può non essere evidente alla donna stessa. Escludere una gravidanza è importante anche per la scelta di possibili esami diagnostici e terapie, dato che alcuni di questi potrebbero essere dannosi per il feto.
Una volta esclusa una gravidanza in atto, esistono altre molteplici cause di alterazioni del ciclo mestruale. La complessa sequenza di attivazioni ormonali che permette la regolarità mestruale risente, infatti, di molte influenze esterne, quali lo stress, le variazioni di peso (sia in difetto che in eccesso) o l’eccessiva attività fisica. Anche per questo la regolarità mestruale è un indicatore di buona salute fisica e psicologica della donna. Fra le patologie la causa più diffusa di alterazioni mestruali e in particolare di amenorrea o di oligomenorrea è la sindrome dell’ovaio policistico. Molto diffusa nella popolazione femminile peraltro sana, questa sindrome consiste nella presenza contemporanea di manifestazioni cliniche di eccesso di androgeni (come l’irsutismo) o nella conferma di un eccesso di androgeni ai dosaggi di laboratorio, più la presenza di alterazioni mestruali o di multiple microcisti ovariche all’ecografia. Cause meno frequenti di alterazioni mestruali coinvolgono patologie di organi capaci di produrre ormoni, come ipofisi, surrene, ovaio e tiroide, oppure malattie importanti che mettono in sofferenza l’intero organismo, come l’insufficienza renale o l’insufficienza epatica, oppure patologie limitate a tube e utero, che vanno da semplici infezioni e infiammazioni ai tumori benigni e non. Anche alcuni farmaci e integratori possono dare alterazioni mestruali, alcuni volutamente, come i contraccettivi orali, altri come effetti collaterali, come alcuni anti-psicotici, anti-androgeni, anti-coagulanti, ginseng, ginko, soia.

Per alcune donne la mestruazione si associa a un dolore tale da rendere difficile o impossibile lo svolgimento delle attività quotidiane o comunque necessitare di un trattamento specifico. Tale problematica si definisce dismenorrea, è più frequente nelle adolescenti e tende a ridursi con gli anni, dopo le gravidanze e con l’uso di contraccettivi orali. Fumo di sigaretta, sedentarietà, depressione e l’ansia nei riguardi delle mestruazioni possono invece peggiorare il dolore. Il dolore può iniziare prima o contemporaneamente alla comparsa del flusso mestruale e dura 1-3 giorni. È localizzato alla parte bassa dell’addome sotto forma di crampi, ma può anche presentarsi come un dolore sordo e costante, che si irradia alla schiena o alle gambe e spesso si associa a mal di testa, nausea, stipsi o diarrea, a volte vomito. Il dolore deriva principalmente dalle normali contrazioni dell’utero, che espelle lo strato cellulare che ne riveste la cavità per rigenerarlo prima del ciclo successivo. In alcuni casi, invece, il dolore deriva dalla presenza di malformazioni o malattie a carico dell’apparato genitale.

Alla dismenorrea spesso si associa la sindrome premestruale, che consiste in disturbi, di intensità variabile da donna a donna, che compaiono nell’ultima parte del ciclo mestruale. La forma lieve è diffusissima, ma non altera in maniera rilevante le attività della donna e non necessita di terapia specifica. I sintomi tipici includono irritabilità e variabilità dell’umore, depressione, difficoltà di concentrazione, stanchezza, insonnia, dolore o tensione delle mammelle, sensazione di gonfiore, mal di testa, disturbi dell’appetito, diarrea o stitichezza, dolori addominali e muscolari, acne. È dovuta alle fluttuazioni degli ormoni, estrogeni e progesterone, che possono causare una temporanea ritenzione di sali e liquidi.

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Roberto Castello, Medicina/Endocrinologia, AOUI Verona
Francesca Zambotti, Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, AOUI Verona

 


IRSUTISMO

Negli esseri umani sulla superficie corporea si trovano due tipi di pelo:

  • il vello che è la peluria sottile e corta, scarsamente o non colorata, che ricopre le aree cutanee apparentemente prive di peli;
  • il pelo terminale che è lungo, duro, scuro come quello del cuoio capelluto, delle ciglia e sopracciglia, delle ascelle e del pube.

Nei maschi il pelo terminale si trova anche su torace, dorso, addome.
Con il termine irsutismo si definisce l’eccessiva presenza nella donna di pelo terminale in sedi tipicamente maschili, quali viso, labbro superiore, torace, addome, dorso e cosce. In queste aree cutanee i follicoli piliferi hanno anche nelle donne la potenziale capacità di rispondere agli ormoni maschili, producendo il caratteristico pelo tipico del maschio, ma nella donna gli ormoni maschili sono presenti in bassissime concentrazioni. Quindi l’irsutismo si presenta quando c’è un patologico eccesso di androgeni in circolo o quando la cute risulta eccessivamente sensibile a normali concentrazioni di androgeni.
L’irsutismo deve essere distinto dall’ipertricosi, che si definisce come l’eccessiva crescita di vello su tutta la superficie corporea, la cui presenza è influenzata soprattutto da fattori ereditari o può essere indotta da farmaci, da squilibri metabolici (come nell’anoressia nervosa) o da irritazioni cutanee.
La più frequente causa di irsutismo è la sindrome dell’ovaio policistico, patologia benigna molto diffusa, caratterizzata da eccesso di androgeni, irsutismo, acne o alopecia e alterazioni ovariche e del ciclo mestruale. Altre cause di eccesso di androgeni sono i tumori delle ovaie o dei surreni e malattie genetiche. Nel diagnosticare la presenza di irsutismo vanno tenute in considerazione anche le differenze che esistono fra le diverse etnie: gli asiatici hanno meno peli dei caucasici o dei neri.
Molte donne che si lamentano di un eccesso di peli non soffrono in realtà di vero irsutismo. Si può considerare nella norma la presenza di pochi peli terminali visibili sul volto, attorno alle areole mammarie, sulla parte inferiore del dorso e dell’addome, mentre è indice di iperandrogenismo la presenza di peli terminali sulla parte superiore del dorso e sul torace.
Per definire l’entità dell’irsutismo si usa generalmente un sistema di punteggi, noto come scala di Ferriman-Gallwey, dando un voto da 0 (assente crescita) a 4 (estesa presenza) per ognuna di 9 aree corporee ritenute sensibili agli androgeni: labbro superiore, mento, torace, parte superiore e inferiore del dorso, addome superiore e inferiore, braccio, coscia. Gamba e avambraccio sono esclusi dalla valutazione, poiché sono zone di scarsa sensibilità agli androgeni e la presenza di pelo terminale su queste due aree non concorre alla definizione di irsutismo, benché una donna possa lamentarsene. Nelle donne caucasiche si considera patologico un punteggio totale superiore a 8 o un punteggio superiore a 3 in una determinata area corporea.
Il trattamento dell’irsutismo si basa sull’uso di misure cosmetiche di rimozione del pelo e di specifici farmaci.
Le misure cosmetiche spaziano da metodi classici e ampiamente disponibili, come la rasatura e la ceretta, a metodi più recenti e più specialistici, come fotoepilazione, elettrolisi e laser. Possono essere da sole sufficienti a gestire un irsutismo lieve e localizzato ad aree ristrette.
I farmaci specificamente approvati per il trattamento dell’iperandrogenismo nella donna sono pochi. Spesso si ricorre a farmaci off-label, ossia ancora privi di una specifica indicazione d’uso per l’irsutismo, ma che hanno dimostrato negli studi clinici la loro efficacia. Questi farmaci sono a completo carico della paziente. Si tratta di solito di sostanze che interferiscono con la produzione o l’azione degli ormoni maschili e pertanto categoricamente non utilizzabili in gravidanza o in chi programma di avere una gravidanza per il rischio di danni al feto nel caso il bambino fosse un maschio. Se si ha il desiderio di una gravidanza a breve termine, il trattamento dell’irsutismo va rimandato a dopo la gravidanza, a meno che non vi siano cause specifiche o gravi dell’irsutismo che vanno affrontate. Quando si iniziano i trattamenti farmacologici per l’irsutismo, è necessario avere chiaro che nessuno di essi porta risultati apprezzabili in tempi rapidi. Infatti, il loro effetto è quello di ridurre la crescita di nuovi peli, ma non hanno grossi effetti su quelli già presenti. Poiché il pelo ha una lunga vita media, i primi risultati si vedono dopo circa 6 mesi di terapia. Nel frattempo vanno attuate tutte le misure cosmetiche necessarie a rimuovere i peli già presenti. I farmaci più usati sono i contraccettivi orali contenenti sostanze ad azione non androgenica. Possono anche essere usati in associazione ad altre specifiche sostanze anti-androgeniche in casi più severi. Fra le sostanze di uso più frequente ci sono lo spironolattone, la finasteride, il ciproterone acetato e la flutamide.


ACNE

L'acne è una infiammazione del follicolo pilosebaceo e del tessuto peri-follicolare, che si verifica soprattutto al volto e al torace. Si presenta con lesioni cutanee diverse, presenti contemporaneamente o in fasi successive. Appartengono all’acne i comedoni o punti neri, le papule, le pustole e le cisti che a volte possono lasciare cicatrici. Altra caratteristica è il suo decorso cronico con riacutizzazioni.
Le condizioni favorevoli allo sviluppo dell’acne sono l’ipercheratinizzazione e l’elevata produzione di sebo, che portano all’occlusione del follicolo, la colonizzazione da parte di batteri (come il Propionibacterium acnes) e l’infiammazione. Gli ormoni sessuali svolgono un'azione di primo piano nell'eziologia dell'acne, agendo direttamente sulle ghiandole sebacee. La secrezione delle ghiandole sebacee dipende dagli ormoni sessuali maschili. Gli androgeni, infatti, stimolano la proliferazione dei sebociti e la produzione di sebo, mentre gli estrogeni inibiscono le ghiandole sebacee. Tali azioni hanno una variabilità individuale e alcuni soggetti sono più sensibili di altri. A conferma dell'importanza degli ormoni nell’acne sta il fatto che I’acne può essere aggravata dalla somministrazione di testosterone, di sostanze anabolizzanti e di corticosteroidi.
Le manifestazioni cliniche dell’acne si distinguono in infiammatorie e non infiammatorie. Le lesioni non infiammatorie sono i comedoni, ossia dilatazioni del follicolo sebaceo, che possono essere aperti (detti punti neri per l’accumulo di melanina) o chiusi (punti bianchi per l’accumulo di cheratina). Le lesioni infiammatorie derivano per lo più da comedoni chiusi e sono papule, pustole, noduli e cisti. Le varie lesioni possono sovrapporsi e coesistere nello stesso individuo. Le lesioni infiammatorie più profonde danno spesso esiti cicatriziali.
Il trattamento dell’acne punta a risolvere i fattori che ne favoriscono lo sviluppo. Sono impiegabili sia farmaci locali cutanei sia farmaci per via orale.
Il trattamento di prima linea per l’acne è costituito dai retinoidi, cioè derivati dell’acido retinoico o vitamina A. Sono capaci di regolare la produzione di cheratina e sebo e hanno proprietà anti-infiammatorie. L’acne tende a recidivare senza una terapia di mantenimento. I retinoidi sono un’utile terapia per evitare la ricomparsa dell’acne grave una volta trattata.
Fra gli antimicrobici topici sono usati il perossido di benzoile, un potente battericida ad azione rapida, che esiste in varie formulazioni, a concentrazioni fra 1 e 10%, da scegliere in base alla sensibilità cutanea, e gli antibiotici in crema. Se l’acne è di maggiore gravità, sono invece necessari antibiotici per via orale, da assumere per alcune settimane e che vanno utilizzati solo in caso di lesioni infiammatorie.
Nelle forme di acne gravi o resistenti alle altre terapie si usa l’isotretinoina orale, prescrivibile solo da uno specialista dermatologo.
Molto vantaggiose risultano le associazioni di diversi farmaci. La combinazione di un retinoide topico più un antibiotico topico o orale più il perossido di benzoile è la terapia standard, che consente risultati più rapidi ed evidenti rispetto all’uso dei singoli farmaci senza maggiori effetti collaterali.
La terapia ormonale dell’acne si basa sull’uso nella donna dei contraccettivi ormonali. Essi sono capaci di ridurre la secrezione di sebo, con conseguente provata efficacia nella riduzione del numero delle lesioni acneiche. Sono la terapia di scelta per donne con un eccesso di androgeni o se sono presenti altre motivazioni all’uso di contraccettivi orali come delle irregolarità mestruali o se c’è una volontà anti-concezionale.

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Agostino Paoletta
Endocrinologia U.L.S.S. 15 "Alta Padovana, Cittadella (PD)

 

Cosa è
La menopausa è definita come la cessazione definitiva del periodo mestruale dopo almeno 12 mesi di assenza dellemestruazioni. In media avviene a 51 anni di età e segna la fine della vita riproduttiva naturale femminile. Alcune donne raggiungono la menopausa in maniera precoce (prima dei 40 anni), a causa della rimozione chirurgica dell'utero e delle ovaie, chemioterapia, trattamento medico, o per cause naturali.

 

Quali disturbi può dare
La menopausa è contraddistinta da una serie di segni e sintomi di natura psicologica, fisica, emotiva e sociale. I sintomi più comuni che la accompagnano sono: ansia, calo del desiderio sessuale, irritabilità, palpitazioni, secchezza vaginale, sudorazioni notturne, vampate di calore.

 

Bisogna fare una terapia? E perchè?
Molte donne accettano di superare questi sintomi senza nessuna terapia per la paura di assumere farmaci che hanno sentito potrebbero provocare più rischi che benefici. Ma quanto è vera questa affermazione? Fin dagli anni ’40 erano stati messi in commercio negli USA gli estrogeni per contrastare i disturbi della menopausa (vampate, secchezza vaginale), ma l’uso di questi ormoni subì un enorme aumento dal 1966, dopo che la menopausa non venne più considerata un evento naturale della vita della donna, ma una vera e propria malattia da carenza di ormoni ovarici che poteva essere curata e addirittura prevenuta con la somministrazione di estrogeni il più precocemente possibile. Fino alla metà degli anni ’70, la terapia ormonale sostitutiva fu fatta usando gli estrogeni da soli, ma dal 1975, dopo che alcuni studi dimostrarono la correlazione fra assunzione di estrogeni e comparsa di cancro dell’endometrio, fu utilizzato il trattamento combinato con estrogeni più progestinici, per sfruttare l’azione protettiva del progesterone sull’endometrio.
Inizialmente, la terapia ormonale sostitutiva fu utilizzata per trattamenti di breve durata e solo per i disturbi immediati della menopausa (vampate, secchezza vaginale, ecc), ma in seguito fu proposta anche, e soprattutto, per trattamenti di lunga durata, con lo scopo di ridurre il rischio di malattie cardiovascolari e prevenire l’osteoporosi post-menopausale. Sino a 10 anni fa in effetti, alla luce di questi dati, c’era stata una enfatizzazione della terapia ormonale sostitutiva per arrivare successivamente ad una “demonizzazione” della stessa, dopo che nel 2002 furono resi noti i dati di un famoso studio che aveva dimostrato un apparente aumento del rischio di carcinoma della mammella e di un apparente effetto negativo della terapia nelle donne che ne facevano uso. Questo studio esercitò un forte impatto tra le donne e tra gli stessi medici e come spesso succede in questi casi, da un eccesso di prescrizione in passato, si passò ad un’ingiustificata paura di prescrivere ormoni per la menopausa, anche a chi se ne poteva giovare. Vi fu un declino entro il 2003 di circa il 40% dell’uso della terapia con estro-progestinici in menopausa e molti dubbi sul suo utilizzo.

 

Le indicazioni attuali
Il trattamento della menopausa è tuttora argomento di discussione. Oggi sappiamo, dopo numerosi studi, che la terapia ormonale sostitutiva è indicata soprattutto per ridurre i sintomi vasomotori e urogenitali da carenza di estrogeni. La terapia è efficace anche nel prevenire la perdita di massa ossea associata alla post-menopausa ed è in grado di ridurre l’incidenza di tutte le fratture correlate all’osteoporosi, incluse quelle vertebrali e femorali.
Prima di qualsiasi terapia farmacologica, la prima cosa da consigliare alla donna che va in menopausa è una dieta equilibrata: soprattutto un’alimentazione povera di grassi saturi e zuccheri semplici, preferendo frutta e verdura, cereali e legumi, pesce, carne bianca, latte e formaggi freschi; se esistono intolleranze ai latticini, integrare la dieta con 1000 mg di calcio al dì, più vitamina D. Inoltre fare almeno mezz’ora di movimento fisico al giorno, evitare il fumo e limitare gli alcolici.
Se si decide insieme al medico di intraprendere una terapia ormonale sostitutiva, l'obiettivo è la cura dei sintomi, utile per migliorare la qualità di vita della donna in menopausa.
Gli estrogeni e i progestinici possono essere somministrati per via orale, trans-dermica o trans-vaginale.
Non esistono ancora dati definitivi per quanto tempo possa essere proseguita la terapia. In genere l’utilizzo a breve termine (per ≤ 5 anni) non sembra essere associato a rischi.
Per la scelta di uno schema terapeutico la prima e fondamentale distinzione che si deve fare è se si tratta di una donna con o senza utero.

  • donne senza utero (pregressa isterectomia): si usano i soli estrogeni;
  • donne con utero: all’estrogeno è obbligatorio aggiungere un progestinico, allo scopo di minimizzare il rischio di cancro all’endometrio.

 

Controlli in corso di terapia
Una volta iniziata la terapia, le pazienti dovrebbero sottoporsi a un controllo clinico annuale, che includa la valutazione della funzionalità epatica, renale e dell’assetto lipidico. Non è necessario un monitoraggio dei parametri emocoagulativi, in quanto le modificazioni in corso di terapia sono modeste e non tali da aumentare il rischio di eventi tromboembolici se non in donne predisposte. È inoltre consigliato eseguire annualmente anche visita ginecologica, PAP-Test, mammografia, ecografia pelvica e una rivalutazione dello stile di vita.

 

Rischi e benefici della terapia ormonale sostitutiva
La terapia ormonale sostitutiva in post-menopausa, se utilizzata correttamente, può dare più vantaggi che rischi.
L’età di inizio è un fattore critico, perché porta maggiori benefici soprattutto se iniziata subito dopo l’inizio della menopausa; al contrario può diventare rischiosa se iniziata tardivamente, quando molte patologie cardiovascolari, tumorali o neurodegenerative sono già presenti, o se condotta con dosaggi ormonali inappropriati. Nelle donne sane con un’età inferiore ai 60 anni o con meno di 10 anni di menopausa, l’uso della terapia ormonale non determina un aumento di rischio di malattie cardiovascolari.
Quando si decide di iniziare la terapia, questa dovrebbe essere individualizzata e tenere conto soprattutto degli eventuali fattori di rischio. Le linee guida delle varie società scientifiche suggeriscono l'uso della terapia con i dosaggi più bassi efficaci e per il minore tempo possibile. Le raccomandazioni per la durata della terapia sono diverse secondo gli ormoni utilizzati. La terapia con estrogeni è la più efficace quando sono presenti sintomi a livello vulvare e atrofia vaginale. Quando sono presenti solo i sintomi vaginali, sono consigliati bassi dosaggi a livello locale. Le donne con menopausa precoce o prematura dovrebbero utilizzare la terapia ormonale almeno fino al raggiungimento dell’età media della menopausa naturale (51 anni), prendendo in considerazione un periodo di trattamento più prolungato, se necessario, per la gestione dei sintomi. Anche se la terapia con soli estrogeni non sembra aumentare il rischio di cancro della mammella, non vi sono ancora sufficienti dati di sicurezza per sostenerne l'uso in donne con pregresso cancro mammario. Sia gli estrogeni per via trans-dermica (cerotto) sia quelli a basso dosaggio per via orale sono stati associati a più bassi rischi.

 

Altre possibili terapie
Per le donne che non possono o non vogliono usare estrogeni per il controllo dei sintomi vasomotori gravi, dovrebbero essere attuati prima i cambiamenti dello stile di vita.
Se è necessaria la terapia farmacologica, ma non possono essere utilizzati estrogeni, potrebbero essere utilizzati con successo altri farmaci, come ad esempio alcuni anti-depressivi.
I dati oggi a disposizione sulla maggior parte dei supplementi nutrizionali, come ad esempio gli isoflavoni, oggi molto utilizzati, sono limitati dalla mancanza di studi clinici controllati. La soia può avere alcune proprietà estrogeniche, ma potrebbe essere rischiosa se utilizzata a dosi elevate e per lunghi periodi.

 

Conclusione
I recenti studi sono a favore dell’utilizzo della terapia ormonale sostitutiva nelle donne in menopausa quando il rapporto rischio-beneficio è favorevole, ma benefici e rischi devono essere valutati caso per caso.

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Giovanni Corona
UO Endocrinologia, Dipartimento Medico, Azienda ASL di Bologna, Ospedale Maggiore
UO Andrologia e Medicina della Sessualità, Università di Firenze

 

La disfunzione erettile (DE) è definita come la persistente incapacità a raggiungere e mantenere un’erezione sufficiente per avere un rapporto sessuale soddisfacente.
Si stima che circa 3 milioni di soggetti in Italia potrebbero presentare un certo grado di DE (circa il 13% della popolazione).
Essenzialmente la DE rappresenta un sintomo che qualcosa non funziona nel nostro organismo. Talora può essere semplicemente espressione di problemi di coppia o la conseguenza di un disturbo psicologico come un’ansia da prestazione (“ho paura di fallire”). Tuttavia, in altre circostanze, specie in soggetti di età più avanzata, la DE può rappresentare un sintomo sentinella di importanti problemi organici, in particolare di malattie cardio-vascolari (CV). Si stima, infatti, che, in presenza di esposizione a fattori di rischio per malattie CV, quali fumo, obesità, sedentarietà, abuso di alcool, ipertensione arteriosa, diabete e dislipidemia, la DE possa precedere di circa 3 anni la comparsa di infarto del miocardio.
La presenza del sintomo DE, in particolare un suo progressivo peggioramento, devono necessariamente rappresentare la spinta per rivolgersi al proprio medico curante ed effettuare gli esami necessari a escludere un problema prevalentemente organico. Solitamente un colloquio con una persona esperta o uno specialista andrologo e l’esecuzione di pochi esami del sangue, quali il dosaggio dei livelli di glicemia, testosterone, colesterolo e trigliceridi, permettono un adeguato inquadramento della patologia nella gran parte dei casi. Esami più complessi sono necessari solo in un numero limitato di casi.
La terapia della DE si basa essenzialmente sulle correzione e la modificazione dei fattori di rischio sottostanti. La semplice riduzione di peso e la sospensione del fumo possono essere risolutivi in casi più lievi. Quando questo non è sufficiente, l’utilizzo degli inibitori delle fosfo-diesterasi, quali avanafil, sildenafil, vardenafil, tadalafil, rappresenta la terapia di prima scelta nella maggior parte dei casi. Si tratta di farmaci sicuri ed efficaci, che essenzialmente agiscono potenziando la normale risposta erettile.
Gli effetti collaterali sono limitati e di entità lieve: cefalea, vampate di calore, dolori di schiena, disturbi visivi, congestione nasale e tachicardia; gli eventi più gravi sono estremamente rari.
Quando gli esami iniziali documentano la presenza di bassi livelli di testosterone, la terapia iniziale si deve basare sull’utilizzo di testosterone, disponibile in gel o formulazioni iniettive.
In forme più gravi di DE è possibile utilizzare farmaci iniettivi, come l’alprostadil, che garantiscono una buona efficacia terapeutica in pazienti con danno vascolare o neurologico maggiore.
Quando la monoterapia risulti inefficace, è possibile, sotto controllo medico, un approccio combinato di terapia orale e iniettiva.
Infine quando anche questa opzione fallisce, in casi selezionati è possibile ricorrere all’impianto di protesi peniene.

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Aldo Calogero
Dipartimento di Scienze Mediche e Pediatriche, Sezione di Endocrinologia, Andrologia e Medicina Interna, Università di Catania

 

L’ipogonadismo maschile primario consiste in una diminuita funzionalità dei testicoli, che comporta un’inadeguata secrezione degli ormoni maschili (androgeni) e/o un deficit nella produzione di spermatozoi, con conseguente infertilità.
Molteplici cause possono compromettere direttamente la funzionalità testicolare, con conseguente aumento dei valori ematici delle gonadotropine (LH ed FSH). Le cause testicolari di ipogonadismo si distinguono in congenite o acquisite (tab. 1).

 

Tabella 1
Principali cause di ipogonadismo primario
Congenite Sindrome di Klinefelter e varianti
Altre rare patologie cromosomiche
Microdelezioni del cromosoma Y
Criptorchidismo
Sindromi rare con interessamento anche di altri organi: Steinert, Noonan
Acquisite Traumi
Torsioni testicolari
Farmaci: ketoconazolo, spironolattone, cimetidina, flutamide, ciproterone acetato, oppioidi, analoghi super-agonisti del GnRH
Neoplasie testicolari
Chemioterapia
Radiazioni ionizzanti
Orchiti
Malattie autoimmuni
Malattie infiltrative
Malattie sistemiche: cirrosi epatica, insufficienza renale cronica
Varicocele

 

Con l’avanzare dell’età, i livelli ematici di testosterone, il principale ormone maschile, diminuiscono progressivamente e pertanto una percentuale variabile di maschi finisce per avere concentrazioni ematiche di questo ormone al di sotto dei valori minimi. Questa sindrome è denominata ipogonadismo età-correlato (in inglese late onset hypogonadism o LOH). Queste osservazioni quindi dimostrano che nel maschio l’andropausa non esiste, in quanto non si ha una cessazione improvvisa e completa dell’attività testicolare, come invece avviene nella donna al momento della menopausa.

 

Segni e sintomi
I sintomi e i segni più comuni sono dovuti alla carenza di androgeni.
Se il deficit androgenico insorge prima della pubertà, risulta compromessa la maturazione degli organi genitali, sono assenti i caratteri sessuali secondari e si ha invece un abnorme accrescimento scheletrico.
Nell’adulto l’ipogonadismo provoca diminuzione della libido, disfunzione erettile, attenuazione dei caratteri sessuali secondari, disturbi trofici a carico di vari apparati, osteoporosi (tab. 2).

 

Tabella 2
Segni e sintomi di ipogonadismo
Della sfera sessuale Calo del desiderio sessuale
Atrofia testicolare
Disfunzione erettile
Azoospermia e Ipofertilità
Dell’aspetto corporeo Alopecia
Ginecomastia
Criptorchidismo
Del sistema nervoso Insonnia
Difficoltà di concentrazione
Nervosismo
Disturbi dell’umore
Depressione
Altro Astenia
Osteopenia
Osteoporosi

 

 

Diagnosi
L’ipogonadismo viene diagnosticato sulla base di segni e sintomi persistenti legati alla carenza di androgeni e sulla valutazione dei livelli di testosterone totale, che risultano costantemente bassi (in almeno due prelievi in giorni diversi). La diagnosi di ipogonadismo viene posta chiaramente quando i valori di testosterone totale sono inferiori a 8 nmol/L. Per valori compresi tra 8 e 12 nmol/L, invece, la diagnosi di ipogonadismo non è chiara e pertanto è necessario che siano presenti anche sintomi e segni di ipogonadismo.
L’esame obiettivo dovrebbe includere la valutazione dell'indice di massa corporea, il rapporto vita-fianchi (o la circonferenza addominale), i peli del corpo, la perdita di capelli, la presenza di ginecomastia e la dimensione dei testicoli (misurati con un orchidometro o mediante ecografia testicolare) e l'esplorazione ano-digito-rettale della prostata.

 

Terapia
La terapia ormonale sostitutiva a base di testosterone, da iniziare solo dopo aver eliminato le cause curabili dell’ipogonadismo, ha lo scopo di indurre e mantenere i caratteri sessuali secondari, migliorare la funzione sessuale, il senso di benessere e la salute dell’osso.
Esistono preparati a base di testosterone per via orale (poco efficaci), per via iniettiva (iniezioni ogni settimane o mesi a seconda del preparato e della situazione clinica) e per via transdermica (gel da applicare tutti i giorni). La rimborsabilità di questi preparati varia nelle diverse regioni.
Prima di iniziare la terapia bisogna eseguire alcuni esami per escludere controindicazioni e altri esami vanno eseguiti poi periodicamente in corso di trattamento per verificare che non ci siano effetti collaterali.