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Salvatore Monti, Maria Grazia Deiana, Vincenzo Toscano
UOC Endocrinologia, AO Sant’Andrea, Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma

 

La contraccezione è il metodo che permette di prevenire gravidanze indesiderate e gestire la pianificazione familiare.
Esistono diversi metodi, ognuno dei quali ha un’efficacia anti-concezionale diversa: contraccezione femminile o maschile, ormonale, non ormonale e di barriera, a lunga durata, reversibile e irreversibile (sterilizzazione). Attualmente le modalità più efficaci di contraccezione reversibile a lungo termine sono IUD/spirale intra-uterino e impianto sottocutaneo, seguite dall’utilizzo della pillola anti-concezionale.
La contraccezione ormonale non protegge dalle malattie a trasmissione sessuale (MST), incluso l’HIV. Il condom, se usato in maniera corretta, rappresenta il metodo più efficace contro le MST.
È necessario stabilire con il proprio medico, endocrinologo o ginecologo, il metodo contraccettivo più adatto.


 

CONTRACCEZIONE FEMMINILE

Si suddivide in:

  • ormonale (tramite preparati per bocca, per cerotto, per anello vaginale, per impianto sottocutaneo, spirale medicata);
  • non ormonale: spirale in rame (IUD-Cu), diaframma;
  • contraccezione d’emergenza (da assumere in seguito a rapporti non protetti con rischio di gravidanza);
  • irreversibile: sterilizzazione mediante legatura delle tube.

 

PILLOLA ESTRO-PROGESTINICA ASSUNTA PER BOCCA

Come si usa
Deve essere presa tutti i giorni, preferibilmente alla stessa ora, generalmente a partire dal primo giorno di mestruazione.
Se il blister è di 21 compresse, l’assunzione si interrompe per 7 giorni, e questo provoca un sanguinamento simile alle mestruazioni. Qualunque sia la durata del sanguinamento, dopo 7 giorni di interruzione si deve ricominciare l’assunzione.
Se il blister contiene 28 compresse, non si interrompe e la mestruazione si ha durante l’assunzione delle compresse.
Nelle situazioni in cui sia necessario ridurre la sindrome premestruale, la dismenorrea, l’emicrania o la durata del sanguinamento mestruale, esistono preparati che si assumono in continuo.
La pillola viene normalmente venduta in confezioni «calendario», che aiutano la donna a controllare l’assunzione quotidiana.

Consigli utili
È necessario che la pillola dimenticata venga assunta entro le 12 ore successive, per garantire comunque l’efficacia contraccettiva.
Se la dimenticanza è superiore alle 12 ore, c’è il rischio di ovulazione e quindi di gravidanza. In questo caso è preferibile assumere la pillola ma è necessario associare un altro metodo contraccettivo.
Se nelle 4 ore successive all’assunzione della pillola si ha vomito o diarrea, è necessario prenderne un’altra.
Alcuni farmaci assunti contemporaneamente alla pillola ne riducono l’effetto contraccettivo: antibiotici, anti-epilettici, alcuni sedativi e anti-dolorifici.
In previsione di un intervento chirurgico, è necessario avvertire il medico dell’uso di questo contraccettivo.

 

ESTRO-PROGESTINICO ASSUNTO TRAMITE CEROTTO

Si tratta di un cerotto che viene auto-posizionato una volta a settimana, sempre lo stesso giorno, per tre settimane, con 7 giorni di interruzione.
Nel caso in cui ci si dimentichi di riposizionare il cerotto, è possibile farlo entro 24 ore, garantendo in questo modo la sua efficacia anti-concezionale; nel caso in cui dovessero trascorrere più di 24 ore va comunque riposizionato, ma è necessario l’uso di altri metodi anti-concezionali.
Se il cerotto non è stato applicato correttamente, va sostituito entro 24 ore; se vengono superate le 24 ore è necessario un altro metodo anti-concezionale.

 

ESTRO-PROGESTINICO ASSUNTO TRAMITE ANELLO VAGINALE

Si tratta di un anello trasparente, flessibile che viene inserito dalla donna in vagina. Va mantenuto per 3 settimane e successivamente rimosso, segue una settimana di sospensione, in cui si avrà la mestruazione. È necessario rimuoverlo lo stesso giorno della settimana e alla stessa ora in cui è stato inserito.
Nel caso in cui l’anello venga accidentalmente espulso, esso può essere lavato con acqua fredda o tiepida (mai calda) e deve essere reinserito immediatamente (entro le 3 ore).

 

IMPIANTO SOTTOCUTANEO DI PROGESTINICO

Consiste in un bastoncino che viene impiantato sottocute, a livello del braccio, dal ginecologo in ambulatorio, in anestesia locale. Garantisce un’azione anti-concezionale per 3 anni e successivamente viene rimosso.
Nel caso si desideri una gravidanza, l’impianto può essere immediatamente rimosso, con ripristino della fertilità.

 

SPIRALE INTRA-UTERINA (IUD)

È una tecnica reversibile a lunga durata (5-10 anni per quelle in rame e 5 anni per quelle medicate), che utilizza un dispositivo costituito da una struttura di plastica prevalentemente a “T”.

Modalità d’uso
L’inserimento è effettuato dal ginecologo durante il flusso mestruale, l’applicazione dura solo pochi minuti, non è molto dolorosa. All’estremità del dispositivo è attaccato un sottile filo di nylon, che fuoriesce per un breve tratto dal canale cervicale. Per assicurarsi che lo IUD sia al suo posto, la donna può toccare il filo sul fondo della vagina. È necessario, comunque, un controllo del ginecologico dopo la prima mestruazione e periodicamente nel primo anno, successivamente ogni anno. La rimozione è semplice e non dolorosa: il medico esercita una trazione sul filo per estrarre lo IUD.
Nel caso di un ritardo del ciclo mestruale, è necessario eseguire un test di gravidanza, sebbene il rischio sia molto basso.

 

DIAFRAMMA
È una cupola di gomma o silicone, fissata su un anello flessibile di metallo.

Modalità d’uso
La donna posiziona il diaframma sul fondo della vagina. Il diaframma può essere utilizzato con un prodotto spermicida, in modo da aumentare la sua efficacia contraccettiva.
Il diaframma deve essere posizionato 2-3 ore prima del rapporto sessuale e deve essere mantenuto in sede per 6-8 ore (la permanenza per più tempo può causare infezioni e irritazioni). Successivamente, potrà essere riutilizzato dopo averlo pulito con acqua fredda e sapone neutro, asciugato e riposto con cura all’interno di una scatola.
L’uso del diaframma è più indicato nelle donne che non hanno partorito, soprattutto in coloro che non hanno partorito per via naturale, in quanto dopo il parto vaginale compaiono modificazioni dell’utero che rendono più difficile l’adattamento del metodo e ne riducono l’efficacia.
Si può usare durante l’allattamento.
È controindicato nel caso di infezione da HIV nota.

 

CONTRACCEZIONE D’EMERGENZA

È un metodo contraccettivo che le donne possono usare per prevenire la gravidanza in seguito a un rapporto non protetto o inadeguatamente protetto. Tale metodo deve essere considerato come una misura occasionale e non può sostituirsi a un adeguato metodo anti-concezionale, non è un metodo di protezione per successive gravidanze e non può essere usata dopo ogni rapporto sessuale.
Il farmaco viene impropriamente chiamato “pillola del giorno dopo”, da assumere subito dopo un rapporto a rischio di gravidanza indesiderata, comunque non oltre le 72 ore, o “pillola dei cinque giorni dopo”, da assumere non oltre le 120 ore.
Attualmente in Italia questi metodi d’emergenza possono essere acquistati in farmacia, senza prescrizione medica, da donne di età > 18 anni.
Un altro metodo d’emergenza è il posizionamento della spirale in rame da parte del ginecologo, possibilmente nelle prime 48 ore dopo il rapporto a rischio. Lo IUD-Cu, oltre ad essere un metodo di contraccezione d’emergenza, è anche un metodo anti-concezionale per almeno 10 anni dopo il suo posizionamento.
Nel caso in cui la mestruazione successiva dovesse ritardare di oltre 7 giorni, è consigliata l’esecuzione del test di gravidanza.

 

CONTRACCEZIONE IRREVERSIBILE

La legatura delle tube è una tecnica chirurgica eseguita dal ginecologo, previa anestesia. È necessario valutare bene questa procedura, in quanto non permette, se non in rari casi, il ripristino della fertilità.


 

CONTRACCEZIONE MASCHILE

Si suddivide in:

  • non-ormonale: preservativo;
  • ormonale: ancora in via di studio
  • irreversibile: vasectomia dei deferenti

 

CONDOM O PRESERVATIVO

Consiste in una sottilissima guaina che avvolge completamente il pene in erezione, evitando il contatto diretto con l’apparato genitale della donna, influendo in modo minimo sulla sensibilità di entrambi.

Modalità d’uso
L’efficacia contraccettiva dipende da un suo buon utilizzo. Deve essere messo sul pene in erezione prima di qualsiasi contatto con l’apparato genitale della donna e non al momento dell’eiaculazione. L’uomo deve ritirare il pene dalla vagina prima che l’erezione cessi, per evitare che lo sperma refluisca fuori dal preservativo. Si raccomanda di tenere il preservativo tra le dita durante la retrazione del pene dalla vagina, per evitare che si sfili all’interno di questa e/o per evitare la fuoriuscita di liquido seminale.

Vantaggi: comodità d’uso, libera vendita, riduzione del rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili, soprattutto l’infezione da HIV.

 

CONTRACCEZIONE IRREVERSIBILE

La vasectomia è un metodo diffuso in alcuni paesi del mondo, mentre in Italia la sua regolamentazione giuridica non è ancora definitiva.
È un intervento chirurgico, mini-invasivo, che si esegue in regime ambulatoriale consiste nel sezionare i vasi che permettono il passaggio degli spermatozoi.
È un metodo che va valutato con molta attenzione, in quanto la possibilità di ripristinare il seguito la fertilità non è esclusa, ma sicuramente si riduce con il passare degli anni.

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Fernando Mazzilli, Rossella Mazzilli
Dipartimento di Medicina Clinica e Molecolare, Unità di Andrologia, AO Sant’Andrea, Università “Sapienza”, Roma

 

DEFINIZIONE E FREQUENZA

L’infertilità è definita come assenza involontaria del concepimento dopo almeno un anno di rapporti sessuali mirati o quantomeno non protetti. In realtà bisognerebbe fare una distinzione tra “sterilità” (che riguarda un numero ridotto di situazioni in cui non è affatto possibile la risoluzione) e “ipofertilità” o “subfertilità” (che per fortuna riguarda la maggior parte dei casi e in cui è possibile ottenere il concepimento, mediante opportune terapie).
La condizione di ipofertilità/infertilità riguarda circa il 15-20% delle coppie. A rendere più frequente il problema contribuiscono sicuramente, almeno nel mondo occidentale, fattori socio-economici che portano a cercare un figlio in età più avanzata, quando la fertilità tende normalmente a ridursi.
In particolare, secondo i dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità, nel 35% dei casi risulta preponderante il fattore maschile, nel 35% dei casi risulta preponderante il fattore femminile, nel 15% vi è un fattore di coppia, ossia una condizione in cui coesistono una subfertilità maschile e femminile, e nel restante 15% non si scopre nessuna causa.

 

ETÀ, STILE DI VITA E FATTORI AMBIENTALI

Età: la capacità riproduttiva della coppia diminuisce con l’avanzare dell’età; il fattore età è però particolarmente importante nella donna, per un progressivo esaurimento della capacità funzionale dell’ovaio e un maggior rischio di aborto.
Stile di vita: uno stile di vita individuale o di coppia non corretto (fumo, alcol, sostanze stupefacenti, uso indiscriminato di farmaci anabolizzanti, stress) può causare una significativa diminuzione della fertilità nella coppia. Anche il peso può diminuire la fertilità in entrambi i sessi, ma in particolare nella donna: sia l’obesità che l’eccessiva magrezza possono portare a disturbi dell’ovulazione.
Fattori ambientali: anche “l’impatto ambientale” può contribuire all’infertilità umana. Alcuni inquinanti ambientali sempre più presenti nell’ambiente e in sostanze di utilizzo quotidiano, definiti come “hormone-disrupting chemicals” o “impostori ormonali”, sono in grado di alterare l’asse ipotalamo-ipofisi gonadi. Si tratta di un argomento molto discusso, con pareri contrastanti.

COME ARRIVARE ALLA DIAGNOSI

Per valutare il grado di fertilità di una coppia, si deve procedere contemporaneamente con accertamenti, ed eventuali terapie, sia nel maschio che nella femmina, nonché nella coppia.
Poiché la fecondazione è dovuta all’incontro del gamete maschile (lo spermatozoo) con quello femminile (ovocita), con successivo impianto e sviluppo dell’embrione nell’utero, bisogna valutare gli elementi indispensabili perché ciò avvenga:

  • che nell’uomo si formino spermatozoi in numero e qualità sufficiente;
  • che nella donna ci siano cicli mestruali ovulatori, con la formazione di ovociti;
  • che spermatozoi e ovociti si possano incontrare, e quindi la presenza di rapporti sessuali nel periodo ovulatorio, e il fatto che le tube siano pervie;
  • che l’ovocita fecondato, ossia l’embrione, possa svilupparsi nella sua sede naturale, cioè l’utero.

 

Il fattore maschile
Lo studio della fertilità maschile, oltre che sull’esame clinico, si basa sull’esame del liquido seminale, che per avere risultati attendibili deve essere eseguito in centri specialistici. L’alterazione di uno o più parametri (numero, mobilità, forma) si definisce “dispermia”, che può essere di vario grado e che rappresenta lo specchio della potenzialità fecondante. Le voci più frequenti della terminologia di “gergo” seminologico sono:

  • aspermia: mancanza di liquido seminale eiaculato;
  • oligozoospermia: numero ridotto di spermatozoi;
  • azoospermia: assenza di spermatozoi nel liquido seminale;
  • ipocinesi o astenozoospermia: spermatozoi con scarsa mobilità, necessaria per poter attraversare le vie genitali femminili;
  • teratozoospermia: alterazione della forma degli spermatozoi.

Le cause di queste alterazioni possono essere schematizzate in:

  • pre-testicolari: i testicoli potrebbero funzionare normalmente, ma manca la stimolazione da parte degli ormoni specifici dell’ipofisi (FSH e LH). Queste sono le situazioni più facilmente risolvibili con una terapia sostitutiva (somministrando le gonadotropine mancanti);
  • testicolari: le strutture testicolari sono alterate per patologie di vario tipo, come malattie genetiche, criptorchidismo (ossia mancata discesa di uno o entrambi i testicoli nello scroto), varicocele, infiammazioni o infezioni del tratto genitale (orchi-epididimiti, prostatiti, vescicoliti), immunologiche (anticorpi anti-spermatozoo), ecc;
  • post-testicolari: comprendono quei casi in cui la formazione di spermatozoi è normale, ma non arrivano nell’eiaculato, a causa di un’ostruzione delle vie seminali.

Vi sono a disposizione accertamenti di laboratorio (dosaggi ormonali, studio genetico, ecc) e strumentali (Eco-Doppler, ecc.) che permettono di orientare la diagnosi.
Le possibilità di terapia dipendono dal tipo e dalla gravità della patologia: si possono quindi usare, a seconda dei casi, farmaci, chirurgia o radiologia interventistica.

 

Il fattore femminile
Una delle cause più frequenti dell’infertilità femminile è costituita dai disturbi dell’ovulazione, che a loro volta possono dipendere da amenorrea o anovulatorietà.
L’amenorrea, cioè l’assenza di cicli mestruali, può essere dovuta a cause:

  • pre-ovariche: le ovaie potrebbero funzionare normalmente, ma manca la stimolazione da parte degli ormoni specifici dell’ipofisi (FSH e LH);
  • ovariche: le strutture ovariche sono alterate per patologie di vario tipo, come anomalie genetiche, sindrome dell’ovaio policistico (che spesso si accompagna a irsutismo e obesità di vario grado), menopausa precoce.

L’anovulatorietà, cioè la mancanza di ovulazione, pur in presenza di cicli mestruali regolari, può essere dovuta a iperprolattinemia, micropolicistosi ovarica, endometriosi ovarica, luteinizzazione senza rottura del follicolo e alterazioni di peso (sia obesità che magrezza).
Dal punto di vista diagnostico, al contrario dell’uomo (in cui con l’esame del liquido seminale si verifica facilmente la presenza di spermatozoi), nella donna non esiste un esame analogo per accertare la presenza di ovulazione. Perciò dobbiamo basarci su indicazioni indirette, rappresentate dal monitoraggio ecografico dell’ovulazione e dal dosaggio degli ormoni nelle varie fasi del ciclo mestruale.
Polimenorrea (cicli mestruali più frequenti) o oligomenorrea (cicli mestruali più rari) sono condizioni frequenti, spesso legate a disfunzioni ormonali al di fuori dell’ovaio o a stress, che possono provocare ipofertilità, anche perché rendono più difficile l’individuazione del periodo ovulatorio.
Fattore cervicale: è un’alterazione qualitativa e quantitativa del muco cervicale (ostilità cervicale), dovuta a infezioni vaginali e della cervice uterina o a squilibri ormonali, che rende più difficile la penetrazione degli spermatozoi nel muco cervicale.
Fattore tubarico: è costituito dall’ostruzione bilaterale delle tube, che impedisce che spermatozoo e ovocita possano incontrarsi dopo la rottura del follicolo ovarico.
Fattore uterino: le patologie uterine non rappresentano di per sé causa di infertilità, ma rendono più probabile un mancato attecchimento o un aborto spontaneo, perché ne impediscono la fisiologica distensione. Esse sono rappresentate da fibromiomi uterini, polipi endometriali e malformazioni uterine, come ad esempio l’utero setto, in cui vi è un setto fibroso che divide in due, completamente o in parte, la cavità uterina.
Anche per quanto riguarda il fattore femminile, a seconda del tipo e della gravità della patologia, si potranno utilizzare farmaci o interventi chirurgici.

 

Il fattore di coppia
Problemi di sessualità di coppia: le disfunzioni sessuali possono essere maschili (disfunzione erettile, eiaculazione precoce, ecc) e femminili (vaginismo, ecc) e possono essere di natura psicogena, organica e mista. A determinare una disfunzione erettile vi può essere anche un “disagio” sessuale derivante dalla consapevolezza dell’ipofertilità e quindi dalla necessità di rapporti “a comando” nel periodo ovulatorio della partner.
Infertilità psicogena di coppia: in questi casi, per fortuna non frequenti, i partner, a livello inconscio, vivono la gravidanza e/o l’essere genitori come “pericoli” per la propria integrità fisica e mentale. La diagnosi è spesso assai difficile, perché vi è un atteggiamento di “difesa” da parte della coppia.

Infertilità di coppia da causa sconosciuta
Si tratta di una diagnosi di esclusione, quando tutti gli esami eseguiti non hanno trovato cause ben evidenti. Spesso la definizione è arbitraria, in riferimento soltanto alle indagini già eseguite e non a tutte quelle che dovrebbero essere eseguite. Vi è inoltre il problema della soggettività nell’interpretazione dei risultati di indagini diagnostiche, talvolta considerate erroneamente normali. Pertanto, le attuali possibilità di indagini sempre più sofisticate, se correttamente eseguite, ci permettono di arrivare quasi sempre a una diagnosi.

 

PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA

Nei casi di infertilità in cui il problema non è risolvibile con la fecondazione per via naturale, si può ricorrere, dopo consulenza psicologica e genetica, a programmi di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA). Esistono essenzialmente due tipologie di intervento:

  • tecniche di 1° livello: Inseminazione Intra-Uterina (IUI), in cui il liquido seminale, precedentemente preparato, viene inserito all’interno della cavità uterina o nella cervice mediante un catetere flessibile;
  • tecniche di 2° livello: FIVET (fertilizzazione in vitro e trasferimento dell’embrione) e ICSI (iniezione dello spermatozoo all’interno del citoplasma dell’ovocita) prevedono il prelievo di ovociti con successiva fecondazione extra-corporea.

La decisione su quale tecnica adottare dipende da vari fattori: grado di compromissione reale della potenzialità riproduttiva della coppia (causa dell’infertilità, riserva ovarica), durata nel tempo dell’infertilità, equilibrio della vita sessuale, possibilità e disponibilità a sottoporsi a iter diagnostici-terapeutici a volte ripetitivi, e ultimo, certamente non per importanza, l’età, soprattutto della donna.

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Marcella Balbo
Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Ospedale SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo, Alessandria

 

Il diabete mellito è una malattia cronica caratterizzata da iperglicemia, ovvero l’aumento del livello di glucosio (uno zucchero) nel sangue. Questa condizione può dipendere da una ridotta produzione di insulina, oppure dalla ridotta capacità dell’organismo di utilizzare l’insulina che produce.
L’insulina è un ormone, prodotto dal pancreas, che permette l’ingresso del glucosio nelle cellule del nostro organismo e il suo conseguente utilizzo come fonte energetica.In caso di ridotta produzione di insulina o di ridotta funzione dell’insulina presente, il glucosio rimane nel sangue in concentrazioni crescenti, determinando, quindi, l’insorgere del diabete.
Livelli elevati di glucosio nel sangue, se non corretti con una terapia adeguata, sono responsabili della comparsa delle complicanze croniche della malattia, ovvero danni a reni, retina, nervi periferici e sistema cardiovascolare (cuore e arterie).
Il diabete è una malattia di importanza sempre crescente. Esso, infatti, interessa in Italia il 3-5% della popolazione. Il dato preoccupante è il costante aumento del numeto delle persone ammalate di diabete: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’anno 2030 nel mondo ci saranno 360 milioni di persone con diabete, rispetto ai 170 milioni del 2000.
Le complicanze della malattia, inoltre, hanno un grave impatto sulla salute: il diabete, infatti, è la terza causa di insufficienza renale cronica in dialisi, la prima causa di cecità tra i 20 e i 70 anni, la prima causa di amputazione degli arti non traumatica; è responsabile, inoltre, di un incremento da 2 a 4 volte della mortalità per cause cardiovascolari.
Il diabete mellito si classifica in diabete di tipo 1, di tipo 2, diabete gestazionale e altre forme di diabete più rare (da difetti genetici, da farmaci, ecc.).
Il diabete di tipo 1 rappresenta circa il 10% dei casi di diabete ed è caratterizzato da un processo infiammatorio di tipo autoimmune, che colpisce le cellule pancreatiche che producono insulina e ne causa la progressiva distruzione. In questa forma di diabete, dunque, la produzione di insulina è carente e l’unica terapia in grado di controllare l’iperglicemia è la somministrazione dall’esterno di insulina (per via sottocutanea).
Il diabete di tipo 2, invece, che costituisce la forma di gran lunga più comune di diabete, è caratterizzato dalla progressiva incapacità dell’insulina a svolgere la sua funzione. Tale incapacità, definita ‘insulino-resistenza’, è provocata principalmente da stili di vita non corretti (obesità, sedentarietà) e da fattori genetici. Se in un primo momento l’organismo compensa l’insulino-resistenza aumentando la produzione di insulina, col passare del tempo il pancreas si “esaurisce” e la produzione di insulina diminuisce progressivamente, diventando insufficiente. È a questo punto che compare l’iperglicemia e, dunque, il diabete conclamato.
Il diabete gestazionale, infine, è definito come un’alterata tolleranza del corpo umano al glucosio, di gravità variabile, che insorge o viene diagnosticata per la prima volta in gravidanza. Si manifesta generalmente nel terzo trimestre di gravidanza, periodo in cui il progressivo aumento degli ormoni prodotti da ovaio e placenta è responsabile di un aumento dell’insulino-resistenza. La contemporanea riduzione della quantità di insulina pancreatica determina l’insorgenza della malattia.

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Marcella Balbo
Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Ospedale SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo, Alessandria

 

Il diabete di tipo 1 insorge generalmente in giovane età (prima dei 30 anni) e ha per lo più un esordio brusco, con la comparsa di alcuni sintomi tipici. La scarsità o l’assenza di insulina, che caratterizza la malattia, impedisce di utilizzare il glucosio, come fonte energetica. In questa situazione l’organismo è costretto a produrre energia in altri modi, principalmente attraverso il metabolismo dei grassi, che comporta la produzione dei cosiddetti corpi chetonici, e delle proteine. Il glucosio introdotto con l’alimentazione non viene utilizzato dalle cellule, si accumula nel sangue e viene eliminato dal corpo attraverso le urine, richiamando acqua. Si verifica, quindi, un aumento della quantità di urine, con conseguente aumento della sensazione di sete.
Altro sintomo tipico è il calo di peso, dovuto alla perdita di liquidi e all’aumentato consumo di grassi e proteine. In alcuni casi il sintomo di esordio della malattia è la ‘chetoacidosi diabetica’, ovvero un grave accumulo di corpi chetonici, responsabili di uno stato di acidosi, condizione di estrema gravità che può condurre fino al coma.
Il sospetto di diabete mellito tipo 1 è quindi legittimo in caso di comparsa di sintomi quali poliuria (aumento della quantità di urine), polidipsia (aumento del senso della sete), dimagramento (pur con aumento del senso della fame). Clinicamente il paziente generalmente è giovane (anche un bambino piccolo), magro, può avere familiarità per diabete o per malattie autoimmuni (ad esempio tiroidite di Hashimoto, celiachia, …) o può essere egli stesso affetto da malattie autoimmuni.

Il diabete tipo 2, invece, generalmente compare in età più avanzata (dopo i 40 anni) in modo subdolo, con un ritardo della diagnosi anche di diversi anni dalla comparsa dell’iperglicemia. Nella lunga fase in cui prevale l’insulino-resistenza e la produzione di insulina progressivamente si riduce, il paziente per lo più non ha sintomi. L’iperglicemia, tuttavia, può già iniziare a creare le complicanze di malattia.
È necessario, dunque, sospettare la presenza di diabete mellito 2 in caso di pazienti obesi o in sovrappeso, con uno stile di vita sedentario e spesso con alimentazione eccessiva (soprattutto di zuccheri e grassi). Frequente è, inoltre, la presenza di familiarità per obesità e diabete mellito.

Può capitare, poi, che la diagnosi venga fatta in occasione della comparsa di una complicanza di malattia, ad esempio un evento cardiovascolare, la comparsa di una ulcera a un piede (una ferita che non guarisce), il riscontro di proteine nelle urine, la comparsa di alterazioni dei nervi o degli occhi correlate al diabete. In alcuni casi, inoltre, la diagnosi è così tardiva che i livelli di glicemia salgono progressivamente al punto da determinare la comparsa dei sintomi (poliuria, polidipsia, calo ponderale) che generalmente caratterizzano l’insorgenza del diabete tipo 1.

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Marcella Balbo
Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Ospedale SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo, Alessandria

 

I criteri per la diagnosi del diabete mellito, secondo le raccomandazioni del 2013 dell’associazione dei diabetologi americani, si basano su:

  1. glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dL, intendendo per digiuno un periodo di almeno 8 ore senza assunzione di nessun cibo o bevanda diversa dall’acqua

oppure:

  1. glicemia ≥ 200 mg/dL dopo 2 ore dal test OGTT (il test consiste nella somministrazione per bocca di una soluzione contenente 75 g di glucosio, con successiva misurazione della glicemia dopo 120 minuti)

oppure:

  1. HbA1c ≥ 48 mmol/mol o ≥ 6.5% (l’HbA1c o emoglobina glicata è una porzione dell’emoglobina (la proteina contenuta nei globuli rossi del sangue con la funzione di trasportare ossigeno nell’organismo), che si lega con il glucosio contenuto nel sangue e la sua misurazione fornisce una stima attendibile della glicemia media dei 3 mesi precedenti)

oppure:

  1. glicemia ≥ 200 mg/dL misurata in qualunque momento, in paziente con sintomi tipici per iperglicemia (poliuria, polidipsia, calo di peso).

I primi tre criteri, per dare una diagnosi certa di diabete, devono essere confermati, ripetendo il test per due volte.
Importante, inoltre, ricordare che esistono casi di iniziale alterazione del metabolismo glicidico, senza arrivare ai criteri per la diagnosi vera di diabete mellito. Questi casi sono da identificare precocemente, in quanto indicano che il soggetto ha un aumentato rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete:

  1. alterata glicemia a digiuno (IFG = Impaired fasting glucose): glicemia a digiuno compresa tra 100 e 125 mg/dL;
  2. alterata tolleranza al glucosio (IGT = Impaired glucose tolerance): glicemia a 2 ore dal test OGTT 75 g compresa tra 140 e 200 mg/dL;
  3. HbA1c compresa tra 39 e 47 mmol/mol (fra 5.7% e 6.4%).

Per individuare il più precocemente possibile i pazienti colpiti da diabete mellito, viene suggerito di eseguire questi esami (glicemia, HbA1c e test OGTT) nei soggetti che sono a rischio: persone sovrappeso o obese con uno o più fattori di rischio per diabete (età > 45 anni, familiarità per diabete, sedentarietà, pregresso riscontro di IFG o IGT, pregresso riscontro di diabete gestazionale, ipertensione arteriosa, bassi livelli di colesterolo HDL o alti livelli di trigliceridi, storia di malattia cardiovascolare).

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Lisa Buci
UO Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Ospedale GB Morgagni, Forlì

 

Nell'inquadramento delle complicanze del diabete mellito partiamo innanzitutto da una distinzione fondamentale: esistono complicanze acute e complicanze croniche.
Le complicanze acute sono quelle condizioni in cui l'alterazione della glicemia (i livelli di zucchero nel sangue) è tale da causare una modificazione improvvisa rispetto alla "normale quotidianità", mentre le complicanze croniche sono quelle dovute alle modifiche lente e subdole che l’alterazione del metabolismo dovuta al diabete col tempo porta a numerosi organi e tessuti, fino a quadri irreversibili.

 

COMPLICANZE ACUTE

Ipoglicemia
È una condizione legata alla diminuzione della glicemia fino al di sotto dei 70 mg/dL (livello comunemente accettato come soglia di allerta) a causa di una eccessiva o inappropriata assunzione di terapia ipoglicemizzante (insulina, sulfanilurea, glinide). Si manifesta inizialmente con sintomi legati all'attivazione del sistema nervoso autonomo, con aumentata attività del sistema adrenergico e colinergico (sudorazione, tremore, palpitazioni e fame), e poi con sintomi neuroglicopenici, cioè dovuti alla carenza di zucchero a livello dei neuroni (difficoltà di concentrazione e di coordinamento, cefalea, confusione, fino anche a convulsione e coma).
Fintanto che il quadro è lieve o moderato, il paziente è in grado di gestire da solo la problematica, introducendo zuccheri per bocca, preferibilmente quelli semplici perchè più rapidi da essere assorbiti; esiste una regola, la cosiddetta "regola del 15", secondo la quale si consiglia di assumere 15 grammi di zuccheri semplici (zolletta di zucchero o bustina di saccarosio o cucchiaio di miele o 125 mL di bibita zuccherata o di succo di frutta) e ricontrollare la glicemia dopo 15 minuti, ripetendo questa procedura finchè non si trovano almeno due valori consecutivi di glicemia al di di 100 mg/dL. Nei quadri gravi, in cui il paziente non è in grado di assumere niente per bocca e necessita di aiuto da parte di altre persone, è possibile somministrare glucagone (se disponibile) tramite siringhe pre-riempite da 1 mg (0.5 mg per bambini sotto i 12 anni), per iniezione iintramuscolare o sottocutanea (le persone che vivono con pazienti diabetici dovrebbero essere educate al riconoscimento e alla gestione di eventuali ipoglicemie); è comunque indicato attivare un Servizio di Emergenza. In caso di disponibilità di via venosa, viene somministrata soluzione glucosata endovena al 20 o 33%, in modo da dare 15-20 grammi di glucosio in 1-3 minuti.

 

Chetoacidosi diabetica
È una condizione legata a valori aumentati di glicemia, non adeguatamente compensati dalla terapia; è tipica del diabete mellito di tipo 1 e si manifesta con nausea, vomito, sete, aumento della quantità di urine, con progressivo peggioramento del malessere fino ad arrivare ad alterazione dello stato di coscienza, fino al coma.
Inizialmente il peggioramento dei livelli di glicemia può essere corretto aumentando la terapia insulinica ma, qualora il quadro si manifesti già con grave sintomatologia (e questo può accadere per esempio quando il paziente non è ancora a conoscenza della propria malattia e quindi presenta i sintomi ma non ha nessuna terapia a disposizione), è assolutamente necessario rivolgersi a personale medico, in particolare in ambito di emergenza, trattandosi di un quadro potenzialmente mortale. La somministrazione di liquidi in vena e di terapia insulinica in somministrazione endovenosa continua, o la necessità di altre terapie verrà stabilita dal personale medico una volta valutato il quadro nella sua interezza.

 

Coma iperosmolare non chetoacidosico
In questo caso il rialzo della glicemia è tipico del diabete mellito di tipo 2, più frequente nei pazienti anziani, associato a eventi scatenanti (come per esempio infezioni, scarsa idratazione, uso di diuretici). Il paziente portatore da molti anni di diabete mellito di tipo 2 spesso conosce bene l'andamento della malattia e quelli che sono gli eventi che determinano aumento della glicemia. Per questo entro un certo limite può gestire alcuni quadri più lievi, aumentando per esempio le dosi insuliniche (se fa una terapia insulinica) e l'idratazione; ci sono però delle situazioni in cui il quadro tende a un progressivo peggioramento (o perchè il paziente non è capace di correggere la terapia o perchè vengono a coesistere vari fattori scatenanti difficilmente gestibili dal paziente e dal contesto familiare intorno a lui) ed è assolutamente necessario rivolgersi a personale medico, in particolare in ambito di emergenza, perchè possano essere somministrate con sollecitudine le terapie necessarie (solitamente idratazione in vena ed insulina in vena in continuo, nonchè farmaci per risolvere la causa scatenante: per esempio antibiotici in caso di grave infezione).

 

COMPLICANZE CRONICHE

Retinopatia diabetica
Il diabete può colpire ogni parte dell'occhio (nel diabetico sono più frequenti infezioni della palpebra e della congiuntiva, cataratta e glaucoma), ma la retina rimane la struttura più a rischio. I suoi numerosissimi vasi capillari sono bersaglio dello zucchero e dei suoi composti anomali, che ne indeboliscono le pareti determinando nella prima fase (retinopatia non proliferante lieve, moderata e grave) la comparsa di micro-aneurismi, edemi, essudati duri per fuoriuscita di materiale lipidico ed emorragie per fuoriuscita di materiale ematico. Da questo processo di sofferenza si genera lo stimolo a produrre nuovi vasi (neo-angiogenesi), deboli e irregolari, che invadono la retina danneggiandola ulteriormente: si entra così nella seconda fase della retinopatia, detta proliferante, in cui le emorragie dai deboli neovasi diventano più frequenti e possono essere seguite dalla formazione di tessuto cicatriziale, che può portare al distacco della retina.
Lo sviluppo della retinopatia diabetica è direttamente correlato alla durata della malattia diabetica: è raro nei primi 5 anni di malattia, è presente nel 50% dei pazienti con una storia di diabete di più di 10 anni e nell'80% se diabetici da più di 20 anni; il quadro può evolvere più rapidamente qualora il diabete sia scarsamente compensato e se coesiste ipertensione arteriosa.
Nei paesi industrializzati la retinopatia diabetica è la prima causa di cecità nella popolazione tra i 25 ed i 60 anni di età. Proprio per questo è fondamentale che il paziente capisca l'utilità di sottoporsi a un semplice esame di screening, l'esame del fondo oculare, che viene eseguito a livello ambulatoriale; ulteriori esami (più frequentemente la fluorangiografia, più raramente  la tomografia ottica computerizzata) si renderanno necessari solo in un secondo momento, su indicazione dello specialista oculista, in caso di riscontro di alterazioni. Il trattamento con laser tenta di distruggere i capillari anomali, ridurre l'edema, bloccare le alterazioni vascolari o i capillari che stanno trasudando.

 

Nefropatia diabetica
A livello renale l'alterazione glicemica danneggia il glomerulo renale (l'unità funzionale dei nostri reni), causando perdita di proteine; infatti la microalbuminuria, ovvero la perdita di proteine in piccole quantità (da 30 a 300 mg/die), è il primo segnale di danno renale ed indica peraltro (e purtroppo) che lo stesso tipo di danno sofferto dai piccoli vasi renali è stato subito anche dagli altri vasi del corpo, piccoli e grandi, e rappresenta di per sè un marcatore di aumentato rischio di morbilità e mortalità cardiovascolare. Le tappe successive della nefropatia diabetica sono caratterizzate da proteinuria, ridotta filtrazione glomerulare e aumentata pressione arteriosa. La microalbuminuria è quindi un esame di screening importantissimo e semplice, che può essere eseguito con raccolta delle urine delle 24 ore o anche più facilmente sulle urine del mattino.
Il primo trattamento indicato, oltre a rendere ottimali glicemia e pressione arteriosa, è quello con farmaci della famiglia degli ACE-inibitori o dei sartanici; nella nefropatia conclamata è opportuno ridurre l'apporto proteico a 0.8 g proteine per kg di peso corporeo al giorno (quindi per una persona di 70 kg non più di 56 grammi al giorno).
In Italia il diabete mellito è causa, ogni anno, di circa il 20% di nuovi casi di insufficienza renale terminale (necessità di dialisi).

 

Neuropatia diabetica
Il danno dell'iperglicemia colpisce direttamente la guaina mielinica che avvolge i nervi, distruggendola, e i vasi che irrorano i nervi. Poichè l'effetto si ripercuote sia sul sistema nervoso periferico responsabile della sensibilità, sia sul sistema nervoso responsabile dei movimenti, sia sul sistema nervoso autonomo che governa i visceri, il quadro clinico che ne deriva è estremamente diversificato. Si passa dalla forma più comune di neuropatia sensitiva cronica, che si manifesta con alterazioni della sensibilità, perdita della sensibilità distale e del senso di vibrazione, diminuzione/perdita dei riflessi tendinei, fino a malessere e dolore, alle più rare mono-neuropatie (colpiscono in modo acuto un singolo nervo, sono più frequenti negli anziani di sesso maschile) e alla più devastante neuropatia motoria prossimale (detta anche femorale, che colpisce gli arti inferiori e porta a dolore e poi a debolezza, inizialmente unilaterale ma poi bilaterale, spesso associata a perdita di peso e depressione). Il coinvolgimento del sistema nervoso autonomo comporta un peggioramento della qualità della vita, in quanto rende difficile il mantenimento di adeguati livelli di pressione arteriosa nel passaggio dalla posizione distesa a quella eretta (ipotensione posturale), tachicardia a riposo, difficoltà ad urinare, incapacità di percepire le ipoglicemie, eiaculazione retrograda, impotenza maschile, diarrea notturna. Inoltre, va ricordato che nei pazienti diabetici sono più frequenti le sindromi da intrappolamento dei nervi, come la sindrome del tunnel carpale.
Per la cura del dolore da neuropatia sono stati provati anti-depressivi, che modificano la percezione del dolore, e anti-convulsivanti.

 

Vasculopatie maggiori
La patologia diabetica si associa non solo a un danno a livello dei vasi capillari (micro-angiopatia), ma anche a livello dei vasi arteriosi di maggiori dimensioni, come per esempio le coronarie, i vasi sovra-aortici, le arterie degli arti inferiori: da ciò deriva un aumentato rischio di cardiopatia ischemica, ictus e vasculopatie periferiche, che sono poi purtroppo la causa più frequente di morte nei diabetici di tipo 1 di lunga durata e nei tipi 2.
Le lesioni ateromatose nei pazienti diabetici sono sostanzialmente identiche, dal punto di vista istologico, a quelle della popolazione non diabetica, ma più diffuse; possono comparire ad un'età più precoce rispetto ai non diabetici, e progredire più rapidamente.
Nell'ambito della prevenzione cardiovascolare nel paziente diabetico rimane comunque fondamentale correggere non solo l'iperglicemia, ma valutare il rischio cardiovascolare globale (età, sesso, familiarità per coronaropatia o morte improvvisa, attività fisica, fumo, peso corporeo e distribuzione del grasso corporeo, durata della malattia diabetica, controllo glicemico, pressione arteriosa, microalbuminuria, lipidi plasmatici) e spronare il paziente alla correzione dei fattori modificabili.
Va inoltre ricordato che esiste una forma di cardiomiopatia diabetica, caratterizzata da disfunzione e ipertrofia ventricolare sinistra del tutto indipendente dall’ischemia miocardica e dall’ipertensione, che può aumentare il rischio di scompenso cardiaco congestizio.

 

Ipertensione arteriosa
Più che una complicanza, l'ipertensione è una comorbilità comune nella patologia diabetica, che si ritrova nel 10-30% dei tipi 1 e nel 30-50% dei tipi 2; i valori di pressione arteriosa iniziano ad aumentare quando si sviluppa microalbuminuria (ed in questo senso può essere considerata come una conseguenza della patologia diabetica) ma a sua volta costituisce un fattore di rischio maggiore nello sviluppo delle complicanze sia microvascolari (aggrava infatti nefropatia e retinopatia) che macrovascolari (ictus, arteriopatie coronariche, ...). È comunque importante ricordare che, mentre nel paziente diabetico di tipo 1 l'ipertensione è spesso conseguenza di una nefropatia sottostante, nel tipo 2 è spesso già presente alla diagnosi e fa parte di un insieme di altri fattori di rischio cardio-metabolico (obesità, fumo, vita sedentaria) per i quali rimane fondamentale insistere sulla terapia comportamentale per ridurre i fattori di rischio per lo sviluppo della patologia cardiovascolare prima ancora che su quella farmacologica: diminuzione del peso, attività fisica aerobica quotidiana per almeno 30-40 minuti, dieta povera di sale, abolizione del fumo, aumento dell'introito di frutta ed ancor più di vegetali, eliminazione di alcolici e caffeinaì.
Nel tempo sono stati rivalutati gli obiettivi di pressione arteriosa da mantenere nel paziente diabetico: oggi è riconosciuto che i livelli soddisfacenti sono inferiori a 140/80 mmHg, che diventano 150/90 mmHg nel paziente anziano e 130/80 mmHg nel paziente con complicanze già presenti.
I farmaci a disposizione sono gli ACE-inibitori e in alternativa (se non tollerati) i sartanici (gli antagonisti del recettore dell'angiotensina II), ma anche i calcio-antagonisti, i ß-bloccanti e i diuretici.

 

Dislipidemia diabetica
Nel paziente diabetico la composizione dei grassi nel sangue favorisce l’aterosclerosi: alcune particelle di colesterolo tendono con maggior facilità a costituire quelle placche che aggrediscono i vasi arteriosi, portando a una loro progressiva ostruzione; alcuni esempi sono rappresentati dal colesterolo LDL con predominanza di particelle piccole e dense o dalla diminuzione della concentrazione delle lipoproteine ad alta densità. A questo si aggiunge che, in caso di scarso compenso glicemico, si ha un aumento dei livelli di trigliceridi (incremento della concentrazione di lipoproteine ricche di trigliceridi).
Il primo tentativo terapeutico è sempre quello di correggere gli errori nel proprio stile di vita, ma in caso di mancato raggiungimento dell'obiettivo (LDL < 100 mg/dL, trigliceridi < 150 mg/dL), è indicato iniziare un trattamento farmacologico con le statine.

 

Piede diabetico
Si tratta di una delle complicanze più temibili della patologia diabetica, perchè a tutt'oggi il diabete rimane la causa più frequente di amputazione degli arti inferiori.
Si distinguono diversi tipi di piede diabetico. Nel tipo ischemico, il danno preponderante è a carico dei vasi arteriosi che, presentando dei restringimenti nel loro percorso, non permettono un'adeguata circolazione del sangue; l'arteriopatia obliterante degli arti inferiori può essere inizialmente silente, ma poi si manifesta con quella che viene definita claudicatio, ovvero la limitazione a camminare oltre una certa distanza per comparsa di dolore alle gambe che obbliga a fermarsi ed aspettare la scomparsa del dolore. Rispetto ad altri tipi di malattie arteriose, vengono colpiti anche i vasi arteriosi più distali e più piccoli. Nel piede neuropatico predomina, invece, il danno a livello delle fibre nervose dell'arto inferiore, con perdita di sensibilità fino al punto di non percepire più nemmeno gli stimoli dolorosi (un esempio tipico è il paziente che si addormenta vicino al camino con i piedi rivolti verso il fuoco e arriva ad ustionarsi senza rendersene conto). Spesso il piede viene definito misto, per concomitante presenza di tutti e due gli aspetti, ischemico e neuropatico.
Nella gestione del piede diabetico è fondamentale prima di tutto l'educazione: per esempio imparare a portare tipi di scarpe adeguati, a tagliare correttamente le unghie, a lavarsi correttamente evitando pediluvi con acqua bollente che possono ustionare. Per valutare la circolazione è possibile eseguire un test ambulatoriale con misurazione delle pressioni a diversi livelli, mentre per valutare la sensibilità esiste il test del monofilamento, anch'esso facilmente eseguibile in ambulatorio.
Alla comparsa di una lesione ulcerosa del piede, è opportuno che il paziente si rechi senza perdere tempo al Servizio Podologico del proprio Ambulatorio Diabetologico; la terapia richiede medicazioni locali, trattamento antibiotico, e valutazione del grado di ischemia presente, per stabilire la necessità di procedere a rivascolarizzazione dell'arto (in questo caso è il chirurgo vascolare che stabilisce la necessità di trattamento tramite angio-plastica o by-pass).
Il piede di Charcot (o artropatia neuropatica) è una rara ma devastante complicanza del diabete: le ossa delle articolazioni del piede, danneggiate da un processo di progressivo riassorbimento della loro massa ossea, vanno incontro a crolli e piccole fratture, fino a perdere completamente i loro normali rapporti articolari e causare gravi deformità del piede, che si presenta tumefatto, arrossato e dolorante; se diagnosticato in una fase iniziale, è possibile bloccare il processo, immobilizzando il piede ed evitando il carico per mesi ma, in una fase avanzata, la possibilità di arrivare all'amputazione è molto elevata.

 

Disfunzione erettile
Si tratta di una complicanza frequente, causata sia dai danni vascolari che dai danni neuropatici, che impedisce un’erezione completa o soddisfacente; il corretto inquadramento prevede la raccolta dei dati anamnestici, anche con questionari dedicati alla specifica problematica, l'esame obiettivo e il dosaggio di alcuni parametri ormonali.
Il trattamento più comune è quello farmacologico con gli inibitori della fosfodiesterasi, che richiede spesso dosaggi superiori rispetto a quelli necessari per i pazienti non diabetici. Esiste anche la possibilità di autosomministrarsi, con iniezione nel corpo cavernoso, farmaci ad azione vasoattiva (prostaglandine), o di ricorrere a dispositivi meccanici o all’impianto chirurgico di protesi: è opportuno che queste alternative terapeutiche vengano suggerite e seguite da medici specialisti nell'ambito andrologico.

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Dieta

Attività fisica e sport

Farmaci

Controlli

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Carla Micaela Cuttica
SSD Endocrinologia, EO Ospedali Galliera, Genova

 

Dieta = “mangiare meglio”
Nel diabete usare il termine “dieta” può risultare incompleto e riduttivo, evoca in noi il concetto di sacrificio e di rinuncia, di qualcosa che si fa per un periodo limitato di tempo; è più corretto invece parlare di alimentazione corretta o meglio ancora di terapia medica nutrizionale. L’alimentazione corretta è il cardine della terapia del diabete, in grado di ridurre già di per sé in maniera importante i livelli di emoglobina glicata (HbA1c) anche di oltre 1 punto percentuale. Se la persona con diabete è anche in eccesso di peso (sovrappeso BMI* = 25-29.9 kg/m2, o obesità BMI ≥ 30 kg/m2), la terapia nutrizionale sarà rivolta anche a far perdere peso: basta un calo anche modesto (5-10% del peso corporeo) per avere effetti positivi.
L’approccio principale per ottenere e mantenere il calo di peso è modificare lo stile di vita: una riduzione della quantità di cibo ingerita (anche moderata, per esempio una riduzione di circa 300-500 calorie al giorno) e un aumento dell’attività fisica (anche modesto, per esempio con un consumo di circa 200-300 calorie al giorno) permettono un lento ma progressivo calo di peso. La terapia nutrizionale con cui tenere sotto controllo il diabete va mantenuta sempre, con costanza, e quindi deve essere il più vicino possibile alla normalità. Non ci sono cibi “assolutamente vietati”, ma solo cibi da consumare “con attenzione” e l’attenzione va posta sulla qualità dei cibi oltre che sulla quantità.
Particolare attenzione va data ai cibi che contengono carboidrati, perché influenzano direttamente i livelli di glicemia. I carboidrati dovrebbero rappresentare il 45-60% delle calorie totali giornaliere, di cui meno del 10% come carboidrati “semplici”. Per avere un migliore controllo della glicemia vanno preferiti quindi i carboidrati “complessi” (es. pane, pasta, cereali anche integrali, legumi, frutti delle aree temperate) che hanno un assorbimento più lento, e quelli a più basso indice glicemico**. I carboidrati “semplici” (a più rapido assorbimento), i “dolci”, non sono vietati in assoluto, ma è necessario ridurne l’assunzione. Se inseriti nel piano nutrizionale, vanno a sostituire parte dei carboidrati complessi, ma possono richiedere variazioni della terapia; vanno comunque assunti con moderazione e attenzione. Bisogna prestare particolare attenzione anche alle bevande zuccherate, che vanno il più possibile evitate. Ricordiamo che l’eccesso di carboidrati semplici comporta ipertrigliceridemia (aumento dei livelli dei grassi trigliceridi nel sangue). I pazienti trattati con insulina ai pasti e che non introducono livelli costanti di carboidrati, devono modificare l’insulina in base ai carboidrati dei pasti, e in questo caso risulta importante eseguire il conteggio dei carboidrati, anche per ridurre il rischio di ipoglicemia o di iperglicemia. Il team curante, in particolare la dietista, sapranno dare le giuste indicazioni. Sono sicuri i dolcificanti privi di calorie non nutritivi, usati con moderazione. Al momento non ci sono studi che suggeriscano l’uso di diete a basso contenuto di carboidrati (< 130 g/die).
Proteine: nei pazienti senza nefropatia (malattia dei reni) dovrebbero fornire il 10-20% delle calorie totali. Nei soggetti con malattia renale va diminuito l’apporto giornaliero di proteine (0.8 g/kg/giorno). Come fonte di proteine possono essere privilegiate le carni bianche (evitando le parti grasse), il pesce, le proteine vegetali; l’importante è variare: un’alimentazione variata è più accettabile e piacevole. Al momento non sono raccomandabili nelle persone con diabete diete per dimagrire con alto contenuto di proteine.
Grassi: dovrebbero fornire circa il 30% delle calorie totali giornaliere. Se è presente un eccesso di colesterolo nel sangue (ipercolesterolemia), va preferito un consumo di grassi con ridotto contenuto di colesterolo, in modo da portare il colesterolo nella dieta a un valore inferiore a 200 mg/die. Vanno limitati al massimo i cibi troppo conditi o troppo ricchi di grassi, specialmente se con grassi saturi (burro, panna, lardo, margarine) o con olio di palma. Vanno preferiti i grassi mono-insaturi (olio d’oliva, oli vegetali tranne olio di palma e di cocco). Vanno introdotte almeno due porzioni alla settimana di pesce, preferibilmente azzurro, in grado di fornire acidi grassi omega-3 polinsaturi, che migliorano il profilo cardiovascolare.
Le fibre, soprattutto solubili, sono importanti: rallentano l’assorbimento di zuccheri e grassi; sono consigliate 5 porzioni al giorno fra vegetali e frutta e 4 porzioni alla settimana di legumi.
Bisogna bere almeno un litro e mezzo di acqua al giorno. Vanno limitati gli alcolici (vino e birra compresi), soprattutto in chi è in eccesso di peso o in chi ha elevati livelli di trigliceridi nel sangue. Può essere consentito mezzo bicchiere di vino a pasto, meglio se rosso. L’alcol può dare ipoglicemia ritardata, soprattutto in chi fa terapia.
Limitare il sale e i cibi conservati sotto sale, soprattutto in chi soffre di ipertensione arteriosa; può essere utilizzato il sale iodato, sempre con moderazione.
Insomma il diabete si può curare anche a tavola, sia a casa che mangiando fuori casa, a patto di saper scegliere i piatti giusti e le giuste porzioni. La dieta mediterranea, tipica del nostro paese, ricca in carboidrati complessi, fibre vegetali, pesce, olio d’oliva, aiuta a migliorare il controllo glicemico e a ridurre i fattori di rischio cardiovascolare. Il team curante saprà dare le giuste indicazioni e suggerimenti.

* BMI = body mass index o indice di massa corporea. Si calcola facendo la divisione fra il peso corporeo espresso in kg e l'altezza espressa in m al quadrato.

** indice glicemico = livelli di glicemia raggiunti dopo assunzione di un alimento rispetto a una pari quantità di pane che è l’alimento di riferimento.

 

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Carla Micaela Cuttica
SSD Endocrinologia, EO Ospedali Galliera, Genova

 

Attività fisica e sport = “muoversi di più”
L’attività fisica regolare è una parte fondamentale della terapia per una persona col diabete mellito, a qualsiasi età. L’attività fisica, cioè il movimento del corpo che richiede un consumo di energia superiore rispetto a quello che si consuma a riposo, contribuisce a ridurre la glicemia, aiuta a perdere peso laddove necessario o a mantenerlo, diminuisce stress, ansia e affaticamento, migliora il sonno e la sensazione di benessere, abbassa la pressione arteriosa, riduce il rischio cardiovascolare, riduce il rischio delle complicanze legate al diabete, rinforza ossa e muscoli, aumenta la massa muscolare (“massa magra”) riducendo il grasso corporeo (“massa grassa”), migliora la qualità di vita, favorisce modifiche dello stile di vita, come per esempio la sospensione del fumo ed una maggiore aderenza alla dieta, riduce i costi del trattamento. Non importa quanta attività fisica, se moderata o intensa, ma è più importante la percentuale di tempo passata in qualsiasi forma di movimento: insomma è più importante ridurre la sedentarietà che intensificare lo sforzo per brevi periodi.
L’attività fisica va sempre concordata col curante e individualizzata in base all’età e alla presenza o meno di complicanze o di altre malattie. L’attività fisica, prevalentemente di tipo aerobico, va distribuita in almeno tre giorni/settimana, con non più due giorni consecutivi senza attività. In corso di esercizio fisico programmato va regolata la terapia insulinica, se non è programmato è opportuno prevedere l’introduzione di supplementi di glucosio. L’automonitoraggio glicemico deve essere intensificato prima, eventualmente durante l’esercizio (durata maggiore di un’ora) e dopo l’esercizio fisico. La persona con diabete deve essere informata sul rischio di ipoglicemia in corso di attività e tardiva post-esercizio fisico, avere indicazioni relative all’eventuale integrazione di carboidrati e alla gestione della terapia ipoglicemizzante. La presenza di chetosi sconsiglia l’attività fisica.
Sono sempre più numerose le persone con diabete che praticano attività sportiva anche agonistica, raggiungendo elevati risultati che nulla hanno da invidiare ai non diabetici. Iniziare una regolare attività fisica è il primo passo; mantenerla regolarmente è il passo successivo. Bisogna essere costanti, come sempre quando si ha a che fare col diabete. Il team curante saprà dare le indicazioni adatte per ogni paziente.

Si possono trovare suggerimenti pratici parlandone sempre prima col team curante su www.diabetes.ca/diabetes-and-you/healthy-living-resources/exercise

 

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Carla Micaela Cuttica
SSD Endocrinologia, EO Ospedali Galliera, Genova

 

FARMACI: “LA TERAPIA GIUSTA PER IL PAZIENTE GIUSTO”

La prima cura è l’informazione: più cose sa il paziente sul suo diabete, più è disponibile a curarsi bene e sempre. In questo è importante il team curante (medico, infermiere, dietista, podologo, altro personale dedicato, …) che garantisce il conseguimento delle adeguate conoscenze e abilità nell’uso corretto dei farmaci. Mantenere un buon controllo della glicemia e dell’emoglobina glicata (HbA1c), con obiettivi individualizzati in base all’età e al quadro clinico, permette di prevenire o ritardare l’insorgenza o la progressione delle complicanze croniche del diabete (ovvero danni ai reni, occhi, nervi, sistema cardiovascolare). È necessario però ricordare sempre che nessun farmaco è in grado di sostituire completamente un corretto stile di vita: alimentazione corretta e movimento restano le basi della terapia per il diabete.
I tipi di farmaci a disposizione per il diabete sono molti e tutti efficaci in vario grado, l’importante è usarli bene, nelle persone giuste e al momento giusto. Nel diabete mellito tipo 1 – insulino-dipendente, la terapia è insulinica, mentre in generale nel diabete mellito tipo 2 si possono utilizzare anche altri farmaci, a volte combinati fra loro.

 

PROPRIETÀ E CARATTERISTICHE DEI PRINCIPALI FARMACI

Insuline
A somministrazione sottocutanea. Insostituibili in tutti i casi di diabete mellito tipo 1, usabili laddove necessario anche nel diabete mellito tipo 2 in combinazione o meno ad altri farmaci per il diabete.
Danno aumento di peso. Possono dare ipoglicemia (bassi livelli di glucosio nel sangue).
Ci sono molti tipi di insulina, a varia velocità e durata d’azione: ad azione più rapida e più breve per coprire il fabbisogno di insulina ai pasti, ad azione più lenta e più duratura per coprire anche il fabbisogno insulinico di base.
L’insulina può essere iniettata con penne appositamente realizzate con aghi sottili, siringhe (ormai poco usate), pompe di infusione. Il piano di cura valutato col curante prevede siano concordate e definite il numero giornaliero di iniezioni, l’orario delle iniezioni e le dosi di insulina. Il team curante deve fornire e periodicamente “rinforzare” le informazioni necessarie per la corretta tecnica di iniezione di insulina, la rotazione dei siti di iniezione, l’utilizzo di aghi adeguati.
Il microinfusore di insulina è un apparecchio portatile di precisione, controllato da un sistema programmabile, che libera insulina (regolare o analogo) da un apposito serbatoio secondo una quantità stabilita; la pompa può essere sistemata in un marsupio o in una cintura e libera insulina tramite un infusore connesso ad un piccolo ago cannula inserito sottocute sull’addome. Utilizzare un microinfusore richiede molto impegno e ancora più attenzione rispetto ai sistemi tradizionali di iniezione.

 

Metformina
Ad assunzione orale. Riduce la glicemia migliorando la sensibilità all’insulina nei tessuti, in particolare nel fegato, riduce la produzione epatica di glucosio, riduce l’insulino-resistenza. È il farmaco in genere di prima scelta nel diabete mellito tipo 2, in particolare quando non bastano le modificazioni nella dieta, nell’attività fisica e nello stile di vita.
Non ha effetti negativi sul peso.
La metformina può essere associata a molti altri farmaci per il diabete, compresa l’insulina. Va usata con cautela ed eventualmente sospesa in presenza di insufficienza renale di una certa gravità.
Può essere poco tollerata per disturbi gastrointestinali, che in genere si riducono col tempo o che si possono superare utilizzando le formulazioni a rilascio prolungato.

 

Inibitori dell’alfa-glucosidasi (Acarbosio)
Ad assunzione orale. Vengono usati per la cura del diabete mellito tipo 2. Riducono la glicemia inibendo l’enzima che scinde i carboidrati complessi e i disaccaridi in zuccheri assorbibili nell’intestino, per cui riducono e rallentano l’assorbimento intestinale degli zuccheri. Possono essere poco tollerati per disturbi intestinali. Non hanno effetti negativi sul peso e non danno ipoglicemie.

 

Tiazoledinedioni (Glitazoni).
Vengono usati per la cura del diabete mellito tipo 2. Sono farmaci ad assunzione per bocca, che agiscono principalmente attraverso il recettore PPAR-gamma (recettore nucleare presente prevalentemente nelle cellule del tessuto adiposo), migliorando la sensibilità all’insulina.
Possono dare aumento di peso, edemi e ritenzione idrica.
Sono controindicati se è presente insufficienza cardiaca, in caso di tumori della vescica o presenza di sangue nelle urine di causa ignota. Nelle donne, in particolare in post-menopausa, è stato evidenziato un maggior rischio di fratture ossee.
Attualmente è disponibile il pioglitazone, da solo o in associazione con altri anti-diabetici orali.

 

Sulfoniluree e Glinidi
Ad assunzione orale. Vengono usate per la cura del diabete mellito tipo 2. Stimolano il pancreas a liberare più insulina. Danno rischio di ipoglicemia (le glinidi meno delle sulfoniluree). Danno aumento di peso.

 

Agonisti del recettore del GLP-1 o analoghi del GLP-1
A somministrazione sottocutanea. Vengono usati per la cura del diabete mellito tipo 2. Aumentano l’azione dell’incretina denominata GLP-1 (glucagon-like peptide-1), che è un ormone prodotto dall’apparato digerente. Fanno sì che il pancreas produca più insulina in risposta all’aumento della glicemia dopo i pasti. Inoltre, inibiscono la secrezione di glucagone (altro ormone prodotto dal pancreas e che rilascia glucosio dal deposito epatico), rallentano lo svuotamento dello stomaco e riducono l’appetito. Non provocano ipoglicemia. Danno calo ponderale. Possono causare nausea che migliora nel tempo. Solo in rari casi sono sufficienti da soli: in genere devono essere usati con altri farmaci per il diabete, la cui dose va per lo più ridotta.

 

Gliptine (inibitori dell’enzima dipeptil-peptidasi-4 o DPP-4)
Ad assunzione orale. Vengono usate per la cura del diabete mellito tipo 2. Aumentano i livelli di alcuni ormoni (incretine, in particolare il GLP-1 o glucagon-like peptide-1) prodotti a livello dell’apparato digerente, grazie all’inibizione dell’enzima DPP-4 che li degrada. Fanno sì che aumenti l’insulina prodotta dal pancreas in risposta all’aumento della glicemia dopo i pasti; inoltre, riducono il glucagone, altro ormone prodotto dal pancreas e che rilascia glucosio dal deposito epatico. Non hanno effetti negativi sul peso. Non danno ipoglicemie.

 

Gliflozine
Bloccano buona parte del riassorbimento del glucosio a livello del rene, inibendo la proteina renale SGLT-2 e quindi aumentando l’eliminazione del glucosio attraverso le urine. Vanno usati nel diabete mellito di tipo 2. Ad assunzione orale. Non danno ipoglicemie. Sono efficaci sul calo di peso. Migliorano la pressione arteriosa. Possono dare rischio di infezioni delle vie urinarie e genitali, contrastabili con adeguate norme igieniche.

 

In caso di ipertensione arteriosa o di dislipidemia (in particolare livelli di colesterolo LDL o “colesterolo cattivo” alto o di trigliceridi alti nel sangue) andranno introdotti anche farmaci ad azione anti-ipertensiva (che fanno tornare normale la pressione arteriosa) e farmaci ad azione ipolipemizzante (che riducono i grassi nel sangue), per contribuire a ridurre il rischio cardiovascolare globale. La terapia anti-aggregante con acido acetilsalicilico (aspirina) è indicata in prevenzione secondaria, dopo un evento vascolare o in presenza di arteriopatia obliterante periferica (circolazione difficoltosa nelle arterie periferiche); può essere considerata in prevenzione primaria in caso di multipli fattori di rischio cardiovascolare.
Il team curante saprà dare le indicazioni adatte per ogni paziente.
Ricorda di avvisare subito il tuo medico se sei in gravidanza: durante il periodo della gravidanza molti farmaci dovranno essere cambiati.

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Carla Micaela Cuttica
SSD Endocrinologia, EO Ospedali Galliera, Genova

 

Controlli: “non sei solo, concordali col team curante”
Mantenere i livelli di emoglobina glicata e di glicemia ai livelli concordati col curante permette di mantenersi a lungo in salute.
L’emoglobina glicata (HbA1c) stima la media delle glicemie dei 2-3 mesi precedenti, permettendo in tal modo di valutare l’efficacia della terapia. Va controllata almeno due volte l’anno, ma in caso di scarso controllo o di modifiche della terapia va controllata più spesso (ogni 3 mesi). L’HbA1c non fornisce però una misura della variabilità della glicemia o della presenza di ipoglicemie (bassi livelli di glucosio nel sangue); inoltre il risultato può essere alterato dalla presenza di anemia o malattie dei globuli rossi.
L’auto-monitoraggio domiciliare della glicemia è quindi importante. L’autocontrollo della glicemia è parte integrante dell’educazione strutturata terapeutica che il team di cura (medici, infermieri, dietisti e altre figure professionali coinvolte) deve fornire alla persona col diabete: vanno date le adeguate informazioni teoriche e pratiche sul funzionamento del glucometro, su come e quando eseguire le misurazioni e su come mettere in atto le conseguenti azioni correttive in base al risultato. Nel diabete mellito tipo 1 e nel diabete mellito tipo 2 insulino-trattato sono indispensabili controlli quotidiani. Nel diabete mellito tipo 2 in terapia orale, l’autocontrollo della glicemia richiede minori frequenze di misurazione, stabilite anche in base alla terapia farmacologica in atto ed alla presenza o meno di malattie intercorrenti o di ipoglicemie. In casi selezionati di diabete mellito tipo 1 con ipoglicemie inavvertite o frequenti può essere utile il monitoraggio glicemico continuo (con una specie di registratore portatile che misura la glicemia parecchie volte all’ora). In caso di frequenti ipoglicemie nel diabete tipo 1, specialmente se asintomatiche, possono essere utili i microinfusori con sensore integrato, che sospendono automaticamente l’infusione di insulina.

Alla diagnosi di diabete e poi periodicamente in base ai risultati, andranno controllati:

  • il peso corporeo, l’alimentazione in atto e l’attività fisica, per aggiornare le indicazioni sull’alimentazione;
  • i parametri di rischio cardiovascolare (con controllo della pressione arteriosa, della pulsazione delle arterie nelle gambe e nei piedi, dei grassi nel sangue, elettrocardiogramma od accertamenti cardiologici più approfonditi in caso di sospetta sintomatologia cardiaca, …);
  • l’eventuale presenza di complicanze legate al diabete (danni a occhi, reni, nervi);
  • la funzionalità tiroidea;
  • i piedi, dando indicazioni sulla cura dei piedi.

Vanno ricercate malattie autoimmuni laddove utile.

Il team curante saprà dare le indicazioni adatte per ogni paziente.

 

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Carla Micaela Cuttica
SSD Endocrinologia, EO Ospedali Galliera, Genova

 

Evitare o ridurre il sovrappeso e l’obesità, modificando le abitudini alimentari scorrette e svolgendo un’attività fisica regolare sono ad oggi i mezzi più adatti a prevenire l’insorgenza del diabete mellito tipo 2 nei soggetti con pre-diabete o con ridotta tolleranza al glucosio.
Nelle persone con diabete già manifesto, la terapia è sempre più “individualizzata” in base alle caratteristiche e al tipo di diabete del singolo paziente. La persona con diabete resta però sempre il primo attore nel mantenere costante la sua attenzione su quella che è una malattia cronica ma che se bene controllata permette una vita lunga e priva di complicanze.
Tra i nuovi farmaci che potranno essere disponibili in tempi più o meno lunghi abbiamo i seguenti.
Insulina spray: polvere secca di insulina umana ad azione rapida per inalazione. Somministrata attraverso un piccolo inalatore a forma di fischietto, giunge nella parte profonda del polmone dove si scioglie rapidamente e viene rilasciata in circolo. Approvata negli Stati Uniti per la terapia del diabete mellito tipo 1 (in combinazione con insulina ad azione prolungata) e del diabete mellito tipo 2. Va assunta all’inizio del pasto, il picco di insulina si raggiunge dopo 12-15 minuti dalla somministrazione e torna ai livelli basali dopo circa tre ore. Sembra dare minor rischio di aumento di peso e di ipoglicemia grave rispetto all’insulina standard. Non è indicata nei pazienti con malattie polmonari, come asma e broncopneumopatia cronica ostruttiva, nei fumatori o in chi ha smesso di fumare da poco.
Insulina in somministrazione orale: sono in corso studi per trovare e perfezionare un sistema di trasporto che eviti la distruzione dell’insulina da parte dei succhi gastrici, in maniera che poi possa venire assorbita nell’intestino.
Smart Insulin”: insulina modificata con introduzione di due diverse molecole, una che funziona come sensore del glucosio e la seconda che ne prolunga la permanenza in circolo. L’insulina smart viene liberata progressivamente in risposta ai valori crescenti della glicemia: in condizioni di glicemia normale l’effetto dell’insulina smart è bloccato dal legame alle proteine circolanti (principalmente l’albumina); quando la glicemia aumenta, il glucosio si lega alla parte che funziona da sensore liberando l’insulina. L’efficacia è di circa 13 ore. Per ora gli studi sono ancora in fase sperimentale.
Continuano le ricerche per produrre microinfusori di insulina con sistemi a circuito chiuso, con monitoraggio della glicemia ed erogazione automatica di insulina, in grado di imitare la fisiologica produzione del pancreas (pancreas artificiale).

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Francesca Grippaldi
Medicina Generale indirizzo Endocrinologico, Ospedale Civile Maggiore, Verona.
Servizio di Diabetologia, Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, Negrar Verona.

 

Cosa è il diabete?
Il diabete mellito è una malattia del metabolismo caratterizzata da aumento costante del livello di zucchero nel sangue (iperglicemia) con disturbi del metabolismo degli zuccheri, dei grassi e delle proteine, dipendenti da difetti della produzione e/o azione dell’insulina.

 

Quali forme di diabete esistono?
Tra le varie forme di diabete, la più frequente nei bambini è il diabete mellito di tipo 1, caratterizzato da una distruzione da parte di anticorpi delle cellule pancreatiche (beta-cellule) che producono insulina. Negli ultimi anni, parallelamente alla crescente obesità infantile, si sono visti anche casi di diabete mellito tipo 2, patologia a lungo considerata come esclusiva dell'età adulta, caratterizzata da resistenza all’azione dell’insulina e progressiva perdita della secrezione beta-cellulare. Il MODY (Maturity Onset Diabetes of the Young) rappresenta un'altra forma di diabete, che si può manifestare in bambini e adolescenti: si tratta di forme ereditarie, caratterizzate da familiarità per diabete, assenza di obesità e chetosi, dovute a un deficit primario della funzione beta-cellulare e della secrezione insulinica. Altre forme di diabete, che in misura minore possono interessare l'età pediatrica, sono:

  • il diabete neonatale, condizione monogenica rara (1/400.000-500.000 nascite), caratterizzata dalla comparsa di iperglicemia richiedente terapia insulinica nei primi mesi di vita, legata a difetti nello sviluppo o funzione delle beta-cellule pancreatiche;
  • il diabete mitocondriale, in genere associato a sordità neurosensoriale e legato anch'esso a perdita della funzione beta-cellulare su base non autoimmune;
  • forme di diabete secondario ad altre patologie (fibrosi cistica, malattie endocrine) o all'uso di farmaci quali ad esempio i cortisonici.

 

Quanti sono i bambini diabetici?
Il diabete mellito tipo 1 rappresenta il 90% di tutti i casi di diabete durante l'infanzia e l'adolescenza. Negli ultimi anni la sua incidenza è aumentata significativamente nella fascia di età da 0 a 14 anni, con un aumento particolarmente marcato nei bambini di età sotto i 5 anni. Nel mondo ci sono circa 490.000 bambini di età inferiore ai 14 anni affetti da diabete tipo 1, con 79.000 nuove diagnosi ogni anno e un incremento annuo dell'incidenza di circa il 3%. In Italia l'incidenza maggiore si riscontra in Sardegna e in provincia di Trento e la minore in Campania.

 

Come si manifesta il diabete nel bambino?
Il diabete tipo 1 ha un esordio brusco, spesso stagionale (autunno/inverno) e dopo una malattia virale, con il classico quadro della chetoacidosi diabetica, le cui principali manifestazioni cliniche sono: aumento della quantità di urine (poliuria con enuresi notturna) e della sete (polidipsia), crampi muscolari, formicolii alle gambe, debolezza, disturbi della vista, perdita dell’appetito, nausea, vomito, dolore addominale (talvolta violento al punto da essere confuso con appendicite), alito acetonemico (fruttato), modalità particolare di respirare (respiro profondo e accelerato), disidratazione (secchezza della cute e delle mucose), tachicardia, calo della pressione, temperatura fredda, prurito e bruciore a carico dei genitali esterni, calo di peso o ritardo di crescita della statura, alterazioni mestruali (cicli più rari o assenti), alterazione dello stato di coscienza fino al coma.

 

Come si cura il diabete?
La diagnosi e il trattamento precoci sono di primaria importanza per evitare le complicanze associate con tale patologia.
La terapia insulinica è l'unico trattamento di tale patologia. Tutti i bambini e gli adolescenti devono essere seguiti da un team multidisciplinare di specialisti fin dal momento della diagnosi. La scelta degli obiettivi glicemici deve essere individualizzata nelle diverse fasce di età, bilanciando il beneficio di ottenere un valore più basso di HbA1c (indicatore di compenso glicemico) con il rischio di ipoglicemia. Lo schema di terapia insulinica di prima scelta è il cosiddetto “basal-bolus”, in cui si somministra l’insulina 4 volte al giorno (ai pasti e alla sera al momento di andare a letto). Il controllo dei livelli di glicemia viene fatto con appositi apparecchi detti glucometri: questi rilevatori, con il prelievo di una goccia di sangue dai polpastrelli delle dita delle mani, hanno la possibilità di evidenziare il livello di zucchero nel sangue in quel momento, memorizzare i dati, calcolarne la media, segnalare le ipoglicemie e suggerire la quantità di insulina da somministrare (se si esegue la conta dei carboidrati negli adolescenti).
In alcuni soggetti che, malgrado tutti gli sforzi con il regime basal-bolus, presentano scarso controllo dei valori di glicemia, marcata instabilità e ipoglicemie ricorrenti, può essere presa in considerazione l’uso di una minipompa per infondere insulina in modo continuo.
Alla diagnosi bisogna eseguire la ricerca di altre malattie autoimmuni associate al diabete (soprattutto della tiroide e malattia celiaca). Va inoltre raccomandata la gestione delle complicanze croniche (malattia renale, ipertensione, alterazioni dei grassi nel sangue, malattia dell’occhio). I genitori e il team diabetologico dovrebbero sviluppare insieme al personale scolastico un "piano individualizzato di cura", che comprenda le informazioni necessarie perchè il ragazzo partecipi completamente e con sicurezza all'esperienza della scuola. La cura appropriata del diabete a scuola è necessaria per la sicurezza immediata del ragazzo, il benessere a lungo termine e la migliore prestazione scolastica. In Italia, tuttavia, in base alle disposizioni di legge e ai regolamenti scolastici, il personale scolastico non sanitario non può essere obbligato (e spesso è vietato) a eseguire il monitoraggio dei livelli glicemici e la somministrazione di farmaci iniettivi (come l’insulina e il glucagone talvolta necessario per dominare le crisi ipoglicemiche). I ragazzi diabetici dovrebbero avere la possibilità di partecipare a campi educativi residenziali, nei quali l'obiettivo principale è garantire un'esperienza di vacanza in un ambiente sicuro, durante il quale fornire educazione e addestramento pratico nella gestione del diabete.

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Francesca Grippaldi
Medicina Generale indirizzo Endocrinologico, Ospedale Civile Maggiore, Verona.
Servizio di Diabetologia, Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, Negrar Verona.

 

Cosa è il diabete gestazionale e quanto è frequente?
Per diabete gestazionale si intende il riscontro di aumentati valori glicemici (zucchero nel sangue) durante la gravidanza.
Compare soprattutto durante il secondo o il terzo trimestre di gravidanza. Durante questo periodo, la placenta produce ormoni che contrastano l'azione dell'insulina (ormone prodotto dal pancreas che serve a mantenere la glicemia nei limiti di norma). Il pancreas della madre risponde allora aumentando la produzione di insulina. Se l'organismo non riesce ad aumentarne la produzione, i livelli di zucchero nel sangue (glicemia) aumentano e si parlerà quindi di iperglicemia (diabete).
Negli ultimi anni vi è stato un aumento delle gravidanze in cui compare diabete gestazionale: dal 5-6% al 18-20% dei casi. Questo ha portato all’aumento di visite e controlli in gravidanza, con conseguente aumento dei costi, e a un aumento del numero delle gravidanze a rischio con aumento dei parti cesarei, dell'osservazione neonatale, ecc.

 

Perché il diabete influenza negativamente la gravidanza?
Attraverso la placenta lo zucchero della madre passa al feto, provocandone una crescita eccessiva. È per questo che i figli di madri diabetiche possono nascere macrosomici, cioè di peso oltre i 4 kg. Date le dimensioni del neonato, spesso è necessario il parto cesareo. Inoltre, alla nascita questi bambini possono avere necessità di una struttura attrezzata con reparto di patologia neonatale per superare alcuni problemi neonatali, tra cui l’ipoglicemia (cioè presenza di livelli di zucchero troppo bassi nel sangue). Tutte queste situazioni possono essere facilmente evitate controllando la glicemia durante la gravidanza.

 

Come scoprire se una donna gravida ha diabete gestazionale?
Tutte le donne in gravidanza potrebbero sviluppare il diabete gestazionale, ma alcune donne presentano un rischio maggiore.
Fattori di rischio:

  • età maggiore di 35 anni;
  • sovrappeso/obesità prima della gravidanza: si calcola l’indice di massa corporea (BMI), dividendo il peso (in kg) per l’altezza (in metri, elevata al quadrato). Il BMI viene considerato normale se minore di 25 kg/m2;
  • pregressa macrosomia fetale (peso del neonato alla nascita maggiore di 4 kg);
  • familiarità di primo grado (genitori, fratelli) per diabete mellito tipo 2;
  • gruppi etnici a rischio elevato (persone provenienti da Asia meridionale, Caraibi, Medio Oriente).

Fattori di rischio elevato:

  • obesità prima della gravidanza (BMI maggiore/uguale a 30 kg/m2);
  • diabete gestazionale in precedente gravidanza;
  • riscontro di alterata glicemia a digiuno e/o ridotta tolleranza ai carboidrati prima della gravidanza.

Alla prima visita in gravidanza deve essere valutata la presenza di un diabete esistente già prima della gravidanza, misurando:

  • la glicemia a digiuno: la diagnosi di diabete si fa se i valori sono maggiori/uguali a 126 mg/dL in due prelievi diversi;
  • la glicemia in un momento qualunque della giornata: maggiore/uguale a 200 mg/dL, da confermare con glicemia a digiuno;
  • eventualmente HbA1c: maggiore/uguale a 6.5%.

Questi esami servono anche nella donna che sa già di essere diabetica, per valutare il grado di compenso del diabete all'inizio della gravidanza.
Se la donna non sa già di essere diabetica e la glicemia è compresa tra 92 e 126 mg/dL, si fa diagnosi di diabete gestazionale.
Le gestanti, anche se hanno glicemia a digiuno inferiore a 92 mg/dL ma hanno almeno un fattore di rischio, devono fare un test, detto curva da carico orale di glucosio (OGTT). Il test deve essere eseguito normalmente tra la 24° e la 28° settimana di gestazione, ma nei casi con almeno un fattore considerato a rischio elevato il test deve essere eseguito prima (tra la 16° e la 18° settimana di gravidanza) e ripetuto poi all’epoca standard (tra la 24° e la 28° settimana) se dà risultati normali.
Il test con la curva da carico orale di glucosio dura 2 ore e consiste in un prelievo iniziale per misurare la glicemia a digiuno, seguito dall’ingestione di un bicchiere d'acqua zuccherata (che contiene 75 g di glucosio) e da 2 successivi prelievi di sangue per misurare la glicemia dopo 60 minuti e dopo 120 minuti. Viene posta diagnosi di diabete gestazionale se vi è almeno un valore di glicemia alterata in uno dei 3 prelievi:

  • a digiuno: maggiore/uguale a 92 mg/dL;
  • dopo 60 min: maggiore/uguale a 180 mg/dL;
  • dopo 120 min: maggiore/uguale a 153 mg/dL.

 

Cosa deve fare una donna con diabete gestazionale?
Oltre a proseguire i normali controlli ostetrici con il proprio ginecologo, deve essere seguita durante la gravidanza da un gruppo esperto, composto da medico diabetologo, dietista/dietologo e infermiere professionale, per fare un trattamento efficace allo scopo di evitare effetti negativi sul feto e sulla madre.
Viene consigliato inizialmente un auto-monitoraggio glicemico mediante rilevazione della glicemia capillare con glucometro e pungi-dito. La donna gravida deve mantenere valori di glicemia sotto quelli di riferimento: prima dei pasti (a digiuno) inferiore/uguale a 95 mg/dL, 1 ora dopo il pasto inferiore/uguale a 140 mg/dL. Talvolta viene richiesto anche il controllo dei chetoni nelle urine.
Viene consigliata inizialmente una terapia dietetica adeguata e attività fisica regolare, se non vi sono controindicazioni ostetriche. Camminare è l'esercizio più semplice da fare in gravidanza, almeno mezz'ora al giorno a passo svelto. Anche il nuoto è uno sport molto adatto alle gestanti. Sono sconsigliati tutti gli sport che comportino corsa, saltelli, rischio di cadute o sforzi eccessivi.
Se i valori glicemici nonostante questa terapia educazionale rimangono elevati, dovrà essere iniziata terapia insulinica, con iniezioni sottocutanee da eseguire prima dei pasti ed eventualmente alla sera prima di dormire. Gli altri farmaci utilizzati per il diabete non possono essere impiegati abitualmente in gravidanza.
Il parto potrà avvenire in maniera naturale o mediante taglio cesareo, a seconda delle condizioni della gravida e del neonato: il ginecologo, accuratamente informato sulla presenza di diabete gestazionale, valuterà il metodo più opportuno. Verrà monitorata sia la glicemia della madre che del neonato.

 

Cosa succede alla fine della gravidanza?
Dopo la gravidanza il diabete gestazionale va solitamente in remissione, ma viene comunque consigliato di ripetere una curva da carico orale di glucosio (OGTT 75 g) a distanza di 8-12 settimane dal parto. Alcune pazienti con familiarità per diabete mellito o con peso eccessivo possono sviluppare diabete mellito tipo 2 dopo la gravidanza.

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Francesca Grippaldi
Medicina Generale indirizzo Endocrinologico, Ospedale Civile Maggiore, Verona.
Servizio di Diabetologia, Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, Negrar Verona.

 

Quanti sono i diabetici?
L'incremento della popolazione anziana (maggiore di 65 anni) ed il contemporaneo aumento della prevalenza di diabete mellito rendono necessario un continuo confronto fra i diversi specialisti coinvolti nella gestione di questa patologia in questa fascia di età.
Nel nostro paese il diabete colpisce fino all'8% delle persone sopra i 60 anni e fino al 10-12% dopo i 70 anni. Bisogna poi tener presente che queste cifre si riferiscono ai soli casi in cui si sa che il diabete è presente, ma numerosi studi hanno evidenziato come ne esistano almeno altrettanti in cui la malattia è presente senza che il paziente e il suo medico lo sappiano. Questo significa che probabilmente esiste un diabetico ogni 5 persone anziane.

 

Si può evitare la comparsa di diabete?
Esistono alcuni fattori di rischio che rendono più probabile la comparsa di diabete negli anziani. Alcuni di questi possono essere corretti: stile di vita sedentario e cattive abitudini alimentari. Altri sono più difficili da evitare o correggere: altre malattie e relativi farmaci, cambiamenti correlati all’età nella produzione e/o azione dell’insulina.

 

Che danni può provocare il diabete nell’anziano?
Il diabete è una delle maggiori cause di mortalità e altre patologie negli anziani.
Gli anziani con diabete hanno un rischio più elevato di essere affetti da depressione, decadimento cognitivo e demenza, incontinenza urinaria e fecale, cadute traumatiche, compromissioni funzionali, disabilità, sincope e dolore cronico misto.
L'iperglicemia può causare aumento della quantità di urine e della frequenza con cui si deve urinare, incontinenza urinaria, interferenza nel sonno, disidratazione e aumento del numero di cadute.
Anche le alterazioni della vista, associate all'iperglicemia possono aumentare il rischio di cadute e la paura di cadere porterà gli anziani a ridurre la motilità.
L'iperglicemia aumenta il rischio di ictus, infarto miocardico, dolori agli arti inferiori mentre si cammina e impotenza. Riduce inoltre la tolleranza al dolore, che può portare a un eccessivo consumo di anti-dolorifici. Può anche interferire con la funzione del sistema immunitario, aumentando il rischio di infezioni e rallentando la guarigione delle ferite.

 

Come comportarsi con il diabete nell’anziano?
La cura dei soggetti diabetici anziani è complicata dalla grande diversità fra gli individui, della quale i medici curanti devono tenere conto. La valutazione multidisciplinare può fornire informazioni fondamentali per l'inquadramento del paziente geriatrico.
È necessario perseguire degli obiettivi glicemici, seppure non troppo ambiziosi, educare i pazienti a un corretto stile di vita (nutrizione ed attività fisica) e all'automonitoraggio glicemico, attuare delle scelte terapeutiche personalizzate, prevenire e trattare le complicanze acute/croniche.
Gli obiettivi glicemici dovrebbero essere individualizzati:

  • se le condizioni generali sono relativamente buone, si può mirare a un valore di HbA1c di 6.5-7.5%;
  • negli anziani fragili (con complicanze, demenza, altre malattie, nei quali il rischio di ipoglicemia è alto) ci si può accontentare di valori di HbA1c di 7.5-8.5%.

Gli anziani nei quali il diabete è già noto da anni sono abituati alla malattia e non comportano molte difficoltà di gestione, se non l’attenzione agli obiettivi terapeutici che devono essere continuamente rivisti.
Nei diabetici anziani lo schema di automonitoraggio glicemico dovrebbe essere stabilito in relazione al grado di autosufficienza e quindi alla capacità del singolo di eseguire, capire e decidere.
Uno dei capisaldi del trattamento del diabete senile e delle sue complicanze è rappresentato dall'educazione terapeutica. Gli obiettivi dell'educazione all'autogestione sono quelli di ottimizzare il compenso metabolico, prevenire le complicanze acute (ipoglicemia, coma iperosmolare, chetoacidosi, infezioni) e croniche (neuropatia, vasculopatia, retinopatia, nefropatia e piede diabetico) e ottimizzare la qualità della vita. È fondamentale un intervento multidisciplinare per l’educazione al corretto utilizzo dei farmaci, al monitoraggio glicemico e al riconoscimento dell'ipoglicemia e dell'iperglicemia.
Tra gli anti-diabetici orali vanno evitati quelli con elevato rischio di ipoglicemia. La metformina è utilizzabile con cautela, facendo attenzione alla funzionalità renale.
È indispensabile il controllo delle altre malattie associate al diabete e di tutti i fattori di rischio cardiovascolare. L’aumento dell'attività fisica e una corretta educazione nutrizionale sono in grado di migliorare i livelli di pressione arteriosa e il controllo lipidico e glicemico. I valori pressori vanno mantenuti < 140/80 mmHg, se ben tollerati. La terapia anti-ipertensiva deve essere graduata con prudenza per evitare complicanze da calo improvviso della pressione.

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Elena Castellano
Endocrinologia, Ospedale S. Croce & Carle, Cuneo

 

Il termine “globesity” è stato coniato per indicare la globalizzazione del problema obesità, che sembra andare di pari passo con la diffusione dei modelli alimentari occidentali. Anche i Paesi in via di sviluppo sono oramai coinvolti e sembra, anzi, che sia proprio la popolazione meno abbiente a essere maggiormente predisposta. Gli esperti di salute invocano fattori sociali, come il passaggio dall'economia rurale all'urbana, ed economici, in quanto in molti paesi frutta e verdura sono più costosi di grassi e zuccheri.

L’obesità viene classificata a seconda della sua origine (essenziale o secondaria) e della distribuzione del grasso a livello corporeo (androide o ginoide). L’obesità essenziale è la più frequente, caratterizzata dall’aumento di volume delle cellule adipose per uno squilibrio fra le reali necessità energetiche della persona e l’ingestione giornaliera di calorie.

Le obesità secondarie, presenti in circa il 10% dei pazienti, sono più frequentemente dovute a malattie endocrine (ipotiroidismo, sindrome di Cushing, sindrome dell’ovaio policistico, deficit di GH, insulinoma) o all’assunzione di alcuni farmaci (cortisonici, alcuni anti-depressivi, …). Esistono inoltre rare forme di obesità su base genetica.

L’obesità si definisce androide quando la distribuzione del grasso è prevalentemente a livello dell’addome, ginoide quando invece il grasso corporeo è localizzato prevalentemente ai fianchi.

L’obesità è una malattia cronica, con importanti conseguenze sulla salute e con un impatto notevole sulla spesa sanitaria, a causa delle disabilità conseguenti al sovrappeso stesso ed alle sue complicanze metaboliche. Il paziente obeso presenta, infatti, un aumentato rischio di sviluppare altre patologie croniche, quali il diabete mellito di tipo 2, l’ipertensione arteriosa e diverse forme di dislipidemie. Soprattutto l’obesità di tipo viscerale predispone a patologie cardiovascolari e si associa a una riduzione dell’aspettativa di vita. I soggetti obesi sviluppano più frequentemente ipertensione rispetto a quelli normopeso di entrambi i sessi, ad ogni età. L'obesità addominale predispone inoltre a malattie metaboliche, in particolar modo al diabete mellito. I soggetti obesi presentano un aumentato rischio di aritmie e morte improvvisa, anche in assenza di disfunzione cardiaca. L’obesità predispone inoltre alla sindrome delle apnee ostruttive del sonno che, nelle sue forme più gravi, può compromettere ulteriormente la qualità della vita del soggetto affetto. Anche la funzione riproduttiva può essere compromessa, a causa della maggiore frequenza di  ipogonadismo.

Il soggetto in sovrappeso, oltre a problematiche di tipo organico, è esposto a situazioni che compromettono l’equilibrio psicologico, poiché tende a subire una colpevolizzazione sociale che spesso lo porta a sviluppare insoddisfazione rispetto alla propria immagine corporea. Questo lo espone, soprattutto in età adolescenziale, a sviluppare un Disturbo del Comportamento Alimentare.

Il primo obiettivo terapeutico è rappresentato dalla modificazione dello stile di vita, attraverso l’educazione alimentare e l’esercizio fisico. L’intervento di correzione dell’obesità, in assenza di altre specifiche indicazioni terapeutiche, mira alla riduzione di circa il 10% del peso iniziale in un periodo di 4-6 mesi. La terapia dietetica, oltre che sul tipo di alimenti ingeriti, si basa su norme comportamentali (la cosiddetta educazione alimentare), indispensabili per garantire il mantenimento a lungo termine del peso raggiunto. La dieta deve essere ben bilanciata, con un’adeguata quantità di carboidrati complessi (pane, pasta) e un controllo degli zuccheri semplici (bibite, dolciumi) e dei grassi. Gli zuccheri devono essere preferibilmente contenuti in alimenti ricchi di fibre, quali pasta e pane integrali e legumi, limitando latte e frutta a quantità inferiori al 10% del totale. Per i grassi è indicata una limitazione dei cibi ricchi in acidi grassi saturi e colesterolo (latte intero e derivati, uova, carni bovine e suine, grassi di origine animale come il burro), mentre sono da preferire alimenti ad alto contenuto in acidi grassi mono- (olio di oliva ) e poli- insaturi (pesce, pollame, oli di derivazione vegetale, ecc). Le terapie dietetiche sono ovviamente calibrate sul singolo individuo; spesso i pazienti possono beneficiare di programmi strutturati con incontri di gruppo a lungo termine.

Indipendentemente dal peso, è noto che i soggetti che svolgono attività fisica hanno un minor rischio di malattie cardiovascolari, metaboliche e persino di alcune neoplasie.  L’attività fisica in sè svolge un ruolo favorevole anche quando non si verifica un calo ponderale: risulta infatti a maggior rischio un soggetto normopeso sedentario rispetto ad uno obeso che svolge invece un regolare esercizio fisico. L’attività fisica regolare riduce inoltre la possibilità di recuperare peso a lungo termine.

Il ruolo dei farmaci nella cura della obesità è di supporto all’interno di un programma globale che includa già dieta ed attività fisica. Attualmente, l’unico farmaco approvato in Italia è l’Orlistat. Esso va assunto solo su prescrizione specialistica e trova indicazione solo in pazienti con una buona aderenza alle prescrizioni dietetiche, a causa degli effetti collaterali gastro-intestinali: perdita di feci untuose in caso di assunzione di alimenti ricchi di grassi.

La chirurgia bariatrica è l’opzione terapeutica riservata a pazienti adulti con obesità severa, in cui precedenti tentativi di perdere peso e/o di mantenere la perdita di peso siano falliti e in cui vi sia la disponibilità ad un prolungato follow-up post-operatorio. La chirurgia dell’obesità è una branca recente della chirurgia generale: i primi interventi risalgono agli anni ’50, ma è solo negli anni ’80 che questa disciplina ha cominciato ad assumere numeri di rilievo. L’utilizzo dell’accesso laparoscopico nei primi anni ’90 e la contemporanea pandemia dell’obesità hanno reso questa pratica sempre più diffusa. Tutti gli interventi, se vengono rispettate le indicazioni e limitazioni, sono in convenzione SSN, comprese le procedure di selezione pre-operatoria, di preparazione all'intervento e di follow-up post-operatorio. Attualmente tutti gli interventi si eseguono con accesso laparoscopico. Le tecniche chirurgiche agiscono con meccanismo restrittivo oppure malassorbitivo:

  • con gli interventi restrittivi la perdita di peso si ottiene con la riduzione dell’introito di cibo: negli interventi restrittivi meccanici è possibile mangiare solo piccole quantità di cibo per volta, perché il transito è reso difficile da un ostacolo a livello dello stomaco. I rischi operatori sono bassi, ma i risultati a lungo termine sono fortemente legati al grado di collaborazione offerto dal paziente. Anche negli interventi restrittivi ormonali (tra i quali il più diffuso è il by-pass gastrico) lo stomaco è ridotto di volume, ma l’appetito risulta fortemente ridotto grazie a modificazioni degli ormoni gastrici che inducono così un senso di sazietà precoce;
  • negli interventi malassorbitivi la perdita di peso si ottiene con la riduzione dell’assorbimento intestinale, mentre l’introito di cibo resta simile al pre-operatorio. Questo tipo di intervento espone al rischio di deficit nutritivi potenzialmente gravi.

In generale gli effetti della chirurgia bariatrica, eseguita da operatori esperti su pazienti selezionati, sembrano essere piuttosto soddisfacenti a lungo termine, non solo sulla perdita e sul mantenimento del peso, ma anche e soprattutto sulle patologie legate all’obesità, in particolare in relazione alla riduzione del rischio cardiovascolare.

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Elena Castellano
Endocrinologia, Ospedale S. Croce & Carle, Cuneo

 

Il colesterolo e i trigliceridi costituiscono la maggior parte dei grassi contenuti nel nostro organismo. Il colesterolo è presente in tutte le cellule dell'organismo ed è un costituente delle membrane cellulari e di vari tessuti, inoltre è fondamentale per la sintesi di alcuni ormoni.

Esistono prevalentemente due tipi di colesterolo:

  • colesterolo-LDL, spesso definito  “colesterolo cattivo”, in quanto tende a depositarsi sulle pareti delle arterie, contribuendo a formare placche aterosclerotiche;
  • colesterolo-HDL, detto “colesterolo buono”, poiché viene utilizzato per rimuovere il colesterolo cattivo in eccesso portandolo al fegato, dove viene eliminato.

Oltre alla quota prodotta normalmente dal corpo, il colesterolo può essere introdotto dall'esterno con l'alimentazione: è presente nei cibi ricchi di grassi animali.

I trigliceridi rappresentano un'importante fonte di energia per il nostro organismo; il loro livello nel sangue aumenta con l’assunzione di grassi, carboidrati e alcol, trasformati dal fegato in grassi.

Le dislipidemie sono malattie metaboliche dovute a disordini del trasporto dei grassi plasmatici e rappresentano una delle cause più importanti di arteriosclerosi e delle sue complicanze, come l’infarto, l’ictus e l’arteriopatia periferica.

Le malattie cardiovascolari (CVD), sono ritenute la principali causa di mortalità in Europa e sono molto influenzate dalle abitudini di vita (in particolare fumo, sedentarietà, dieta), ma anche legate ad alcune patologie quali il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa e le dislipidemie. Numerosi studi hanno dimostrato che le CVD possono essere prevenute riducendo la colesterolemia totale e/o il colesterolo LDL.

In base alla causa, le dislipidemie si dividono in:

  • primitive, essenzialmente dovute ad alterazioni genetiche;
  • secondarie ad altre malattie (diabete, ipotiroidismo, malattie renali, sindrome metabolica), all’uso di alcuni farmaci, agli stili di vita e a fattori ambientali.

Una classificazione più semplice consiste nel distinguerle in base alle alterazioni lipidiche nel sangue: ipercolesterolemie, ipertrigliceridemie e forme miste.

Non tutte le forme di iperlipidemia attualmente note sono sicuramente associate ad aumentato rischio aterogeno. Sono state identificate anche condizioni caratterizzate da incremento dei valori delle HDL, che spesso presentano un rischio cardiovascolare ridotto.

Per l’identificazione delle dislipidemie si ricorre a esami del sangue di primo e secondo livello, mentre solo in pochi casi selezionati è necessaria la tipizzazione genetica.
Nella valutazione di una dislipidemia è importante tenere conto della familiarità, oltre che degli esami di laboratorio. I limiti di normalità per i lipidi plasmatici variano in base al sesso e all’età.

Tra le principali cause di ipertrigliceridemia vi sono il sovrappeso e l’obesità, la sedentarietà, il fumo di sigaretta, l’eccessivo consumo di alcolici, diete molto ricche di carboidrati ed altre malattie quali il diabete e l’insufficienza renale cronica. Tra i farmaci che contribuiscono all’accumulo dei trigliceridi nel sangue vi sono corticosteroidi, ß-bloccanti, estrogeni. Solo nelle forme più gravi e poco responsive alla terapia, vanno presi in considerazione anche fattori genetici.

Tra le cause di ipercolesterolemia si distinguono l’ipotirodismo, malattie renali e del fegato, l’utilizzo di alcuni farmaci (cortisonici, progestinici, ciclosporine). Anche fra le ipercolesterolemie esistono forme genetiche, che vengono in genere sospettate in presenza di  LDL molto elevate anche nei familiari del paziente, oppure quando si apprezzano depositi di colesterolo nei tendini o attorno alle palpebre, oppure ancora quando nei familiari si siano avuti eventi cardiovascolari (infarto o ictus) in giovane età.

Tra tutte le dislipidemie, quella del paziente diabetico riveste un ruolo particolarmente rilevante per il suo impatto sulla mortalità cardiovascolare. Nel diabete mellito tipo 1 le alterazioni lipidiche sono in relazione al grado di scompenso glicemico e in genere il quadro lipidico torna alla normalità con il ripristino del compenso. Nel diabete mellito di tipo 2 si riscontra spesso ipertrigliceridemia e le LDL, indipendentemente dai loro livelli, sono caratterizzate da elevata tendenza a formari depositi di arteriosclerosi.

il livello dei lipidi plasmatici, in particolare quello delle LDL, deve esser valutato ed eventualmente corretto in considerazione del rischio cardiovascolare del soggetto.

Il cardine della terapia delle dislipidemie è rappresentato da una corretta alimentazione: al momento non esiste una dieta ideale, ma diversi approcci dietetici che vanno sempre più personalizzati e ritagliati sul singolo soggetto. In linea di massima è consigliabile una dieta con una moderata riduzione delle calorie. Un calo di peso anche modesto riduce significativamente i livelli di colesterolo, trigliceridi ed LDL e aumenta quelli di HDL.

L’esercizio fisico regolare ha un effetto favorevole nella gestione della dislipidemia, sia sulla riduzione del peso corporeo che nel suo mantenimento. Gli effetti benefici sono direttamente proporzionali a durata e intensità dell’esercizio fisico. Vengono generalmente consigliati 30 minuti di esercizio fisico moderato per almeno 5 giorni  a settimana, oppure 20 minuti di esercizio fisico intenso per 3 giorni alla settimana.

Quando il trattamento dietetico e una regolare attività fisica non sono sufficienti, è necessario introdurre una terapia farmacologica cronica. Esistono attualmente in commercio in Italia principalmente tre gruppi di farmaci differenti che possono essere utilizzati da soli o in associazione: le statine, i fibrati e l’ezetimibe.
Le statine agiscono riducendo la sintesi di colesterolo. Alcuni studi hanno inoltre dimostrato proprietà anti-infiammatorie, anti-ossidanti e anti-trombotiche. Le statine sono attualmente il farmaco di prima scelta nelle ipercolesterolemie e nelle dislipidemie di tipo misto. Nel complesso sono fra i farmaci più tollerati e l’incidenza di effetti collaterali gravi è molto bassa; in circa il 10% dei casi possono dare dolori muscolari o più raramente tossicità a livello del fegato.
L’ezetimibe inibisce l’assorbimento di colesterolo a livello intestinale. Il suo utilizzo da solo è limitato ai pazienti intolleranti alla statine; l’associazione alle statine permette di aumentarne l’efficacia nella riduzione del colesterolo molto più di quanto si possa ottenere anche raddoppiando la dose della statina da sola.
I fibrati sono i farmaci di prima scelta nelle ipertrigliceridemie e in genere sono ben tollerati.
Sono attualmente in studio diverse nuove molecole, in particolare c’è  grande interesse nello sviluppo di farmaci che possano aumentare il colesterolo HDL.

Gli integratori alimentari possono essere indicati da soli in caso di dislipidemie con rischio cardiovascolare basso o per intolleranza alle statine; inoltre, possono essere utilizzati in associazione alle statine in caso di difficoltà nel raggiungere gli obiettivi terapeutici con dieta e farmaci. Attualmente soltanto alcuni dei numerosi integratori presenti sul mercato sono stati valutati in studi clinici che ne abbiano provato efficacia e sicurezza. Tra le sostanze con effetto dimostrato sulla riduzione delle LDL rientrano le fibre solubili e i fitosteroli. Tra gli alimenti funzionali sono comprese le noci ed il riso rosso fermentato, ma per quest’ultimo sono stati riportati effetti collaterali prevalentemente gastrointestinali.

È importante sottolineare come le modificazioni dello stile di vita siano parte integrante del trattamento delle dislipidemie, poiché, sebbene i farmaci attualmente disponibili abbiano dimostrato efficacia nella riduzione del rischio cardiovascolare, essi non sono in grado di eliminarlo del tutto.

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Micaela Pellegrino & Francesca Garino
Endocrinologia Diabete e Metabolismo, Ospedale S Croce e Carle, Cuneo

 

L'ipoglicemia è la sindrome clinica che deriva dal basso livello di zucchero nel sangue, e che si risolve quando i livelli tornano normali.
Lo zucchero (che il nostro organismo ricava dai carboidrati, dalla frutta e dagli alimenti e bevande dolci) è il “combustibile” dei nostri organi, in particolare del cervello. Proprio per l’importanza dello zucchero, il corpo ne fa scorte nel fegato e nei muscoli, così da poterlo avere a disposizione quando i livelli nel sangue tendono a diminuire (ad esempio in condizioni di digiuno prolungato). Quando però i depositi non sono sufficienti a contrastare la riduzione dello zucchero nel sangue, si sviluppa l’ipoglicemia, di cui l’organismo si rende conto di solito per valori inferiori a 60 mg/dL, con sintomi che dipendono inizialmente da un’attivazione eccessiva del sistema nervoso (sintomi adrenergici): nervosismo, fame intensa, tremori, debolezza e palpitazioni. Questi sintomi sono dei segnali, che avvertono che è necessario mangiare, per riportare alla norma i livelli di zucchero. Nel caso in cui i segnali non vengano percepiti o soddisfatti, la glicemia può diminuire ulteriormente, con la comparsa di sintomi legati alla mancanza di zucchero nel cervello (neuroglicopenici): confusione, sonnolenza, alterazioni dello stato di coscienza fino al coma.
L’ipoglicemia può verificarsi abbastanza frequentemente nelle persone diabetiche (a seguito di digiuno, eccessiva somministrazione di farmaci, attività fisica non programmata, ecc), mentre è rara nei non diabetici, specialmente se in buona salute.
La terapia varia a seconda della causa scatenante; in ogni caso, in presenza di sintomi è importante assecondare ciò che gli stessi suggeriscono, cioè mangiare, preferibilmente zuccheri semplici, che correggano rapidamente la glicemia: acqua con 3 bustine di zucchero, oppure un bicchiere di succo di frutta o di latte. Dal momento che le cause possono essere molto diverse, anche il trattamento definitivo può essere molto differente, da una modifica delle abitudini alimentari fino a un intervento chirurgico. In presenza di sintomi di ipoglicemia, è importante rivolgersi al medico. Per rendere più facile l’identificazione della causa responsabile, è importante saper riferire le condizioni in cui si è verificato l’episodio: ad esempio se a digiuno o viceversa a breve distanza dal pasto, se dopo l’assunzione di cibi particolari o farmaci o alcol.

 

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Dominique Van Doorne

 

Cos’è il sistema endocrino?
Il sistema endocrino, in collaborazione con il sistema nervoso, controlla e regola numerose funzioni dell’organismo, attraverso molecole chiamate ormoni, prodotte da cellule situate in ghiandole endocrine o sparse in mezzo ad altri organi. L’azione degli ormoni può svolgersi a distanza, come avviene per gli ormoni tiroidei che agiscono su quasi tutte le cellule del corpo, oppure unicamente sul tessuto circostante (azione cosiddetta paracrina) o pure sulla medesima cellula che ha prodotto l’ormone (azione cosiddetta autocrina).
Le cellule endocrine possono essere situate in veri e propri organi endocrini, quali la tiroide, l’ipofisi, le ghiandole surrenali, oppure all’interno di un altro dell’organo come le isole endocrine nel pancreas. Altre volte le cellule endocrine sono disseminate in alcuni organi, come avviene per il sistema APUD, diffuso in tutto il sistema digerente.
Il sistema neuroendocrino è costituito da cellule del sistema neurologico, le cui terminazioni sono in grado di liberare dei veri e propri ormoni, quali adrenalina ed altri.
Gli ormoni agiscono mediante il legame con uno specifico recettore presente sulle cellule bersaglio (come una chiave nella toppa). Il recettore può essere situato in diversi punti della cellula: più frequentemente sulla membrana cellulare, ma talvolta anche nel nucleo. Il legame ormone-recettore dà inizio a una reazione intra-cellulare a cascata, oppure semplicemente alla modulazione dell’attività nucleare, inibendo o stimolando l’attività di alcuni geni.

 

Cosa sono le cellule neuroendocrine?
Le cellule neuroendocrine sono situate in ghiandole neuroendocrine, quali le ghiandole surrenaliche, il pancreas, la tiroide e l’ipofisi e inoltre in organi come il polmone, il sistema digestivo, le ovaie e i testicoli.

 

Cosa sono i tumori neuroendocrini?
I tumori neuroendocrini si sviluppano dal sistema neuroendocrino presente in moltissime parti del corpo. Le sedi più frequenti sono il polmone, l’appendice, il piccolo intestino, il retto e il pancreas.

 

Perché esistono diverse denominazioni per il medesimo tumore?
Il primo tumore neuroendocrino è stato descritto nella metà del 1800 ed il termine “carcinoide” è stato adottato la prima volta nel 1907 per descrivere un tumore a crescita molto più lenta rispetto agli altri tumori e che determinava una sintomatologia specifica chiamata “sindrome da carcinoide”. In seguito si è capito che la sintomatologia era dovuta alla capacità del tumore di produrre e mettere nel circolo sanguigno una sostanza denominata serotonina.
Attualmente, il termine di carcinoide è stato sostituito con la definizione di NET (dall’inglese Neuroendocrine Tumor, tumore neuroendocrino), in particolare GEP-NET quando il tumore ha origine nel sistema gastro-entero-pancreatico. Tuttavia, ancora oggi molti medici utilizzano il termine di carcinoide invece di GEP-NET, creando disorientamento nei pazienti. Il termine di carcinoide è rimasto in uso solo per la sindrome provocata dai tumori secernenti serotonina.

 

Quali sono i vari tipi di tumori neuroendocrini?
I NET si possono classificare in relazione alla sede e al tipo di secrezione di sostanze attive.

In riferimento alla sede (secondo una classificazione che deriva dalle modalità di sviluppo dell’embrione), si distinguono tumori:

  • del foregut: colpiscono polmone, stomaco, pancreas, colecisti e duodeno;
  • del midgut: colpiscono digiuno, ileo, appendice e colon destro;
  • dell'hindgut: colpiscono colon sinistro o discendente e retto.

Da un punto di vista clinico, i NET si suddividono in NET funzionanti, cioè secernenti sostanze in grado di provocare una sintomatologia specifica, e NET non-funzionanti, che non determinano una sintomatologia legata alla secrezione di una sostanza attiva (circa il 70% del totale), ma solo alla crescita della massa tumorale con compressione degli organi vicini.
I GEP NET funzionanti includono insulinomi, gastrinomi, VIPomi, glucagonomi, somatostatinomi e GRFomi. I primi due sono relativamente più frequenti, mentre gli altri sono molto rari. Altri NET funzionanti sono il feocromocitoma, che origina dai surreni e quelli che provocano la sindrome carcinoide che si possono trovare in moltissime sedi.
Talvolta iNET possono essere familiari, cioè colpire diversi membri della stessa famiglia, e presentarsi in associazione ad altri tumori endocrini. Queste forme familiari sono su base genetica e appartengono al gruppo delle Neoplasie Endocrine Multiple di tipo 1 (MEN-1).

 

Sintomatologia dei NET
I NET hanno alcune caratteristiche comuni, ma possono differire molto per sintomi, velocità di crescita e di diffusione delle metastasi.
I NET secernenti producono una sintomatologia che varia secondo l’ormone secreto e la loro sede. Ad esempio un insulinoma provoca eccessiva produzione di insulina, con conseguenti gravi crisi ipoglicemiche sino al coma. Il gastrinoma produce un eccesso di gastrina, che causa l’ulcera gastrica. I NET non-funzionanti, che rappresentano il 70% di tutti i NET, in realtà secernono sostanze che non determinano un quadro sintomatico preciso. Diconseguenza, la loro diagnosi è più tardiva (per esempio quando raggiungono dimensioni che comprimono gli organi circostanti).
Talvolta la diagnosi è del tutto incidentale, a seguito di accertamenti eseguiti per altri motivi.
I NET possono provocare metastasi in altre parti del corpo, più frequentemente al fegato, alle ossa o ai linfonodi.

 

Come si può curare un NET?
L’istologia, cioè l’aspetto microscopico, è fondamentale per distinguere i vari tipi di NET e consentire ai medici di individuare la terapia appropriata per il paziente.  Negli ultimi anni sono stati fatti numerosi passi avantinella ricerca e per la terapia dei NET.
Se la diagnosi è precoce, sono maggiori le probabilità di guarigione completa, anche se, quasi sempre è necessario un intervento chirurgico, seguito da terapie mediche specifiche. È possibile curare un tumore che ha già provocato metastasi a distanza, ottenendo il controllo dei sintomi e della crescita tumorale per numerosi anni.
Al momento sono in corso numerose sperimentazioni su farmaci promettenti, che consentiranno ulteriori progressi nella cura dei NET.
Per le caratteristiche cliniche dei NET e soprattutto per il fatto che si tratta di tumori non frequenti, è fondamentale rivolgersi a Centri che hanno molta esperienza e una équipe multidisciplinare, composta da un endocrinologo, un patologo, un medico nucleare, un radiologo e un oncologo.