Complicanze tiroidee delle patologie o terapie oncologiche
Daniele Barbaro
Sezione Endocrinologia, ASL 6, Livorno
INTRODUZIONE
La tiroide può essere interessata in corso di patologie oncologiche sia per coinvolgimento diretto, con metastasi, che nell’ambito di effetti collaterali di terapie oncologiche.
Nell’ambito delle terapie mediche, negli ultimi anni sono state sviluppate molecole in grado di agire su specifici bersagli molecolari implicati nella progressione neoplastica, la cosiddetta target therapy. In questo ambito, in particolare, gli inibitori multi-kinasici hanno mostrato di poter indurre con vari meccanismi sia ipotiroidismo che ipertiroidismo. La radioterapia esterna nella regione del collo può indurre ipotiroidismo con latenza di insorgenza, in alcuni studi, anche di pochi mesi. Essa, inoltre, può essere responsabile di sequele tardive, ipotiroidismo e seconda neoplasia tiroidea, nei long-survivors oncologici.
EFFETTI TIROIDEI DEGLI INIBITORI MULTI-KINASICI
Premesse
La target therapy comprende trattamenti in campo oncologico basati su molecole in grado di andare ad interagire con specifici bersagli molecolari implicati nella progressione neoplastica. Rientrano nella target therapy i trattamenti con inbitori multi-kinasici, i quali vanno ad interagire primariamente ma non esclusivamente con recettori di membrana che innescano varie kinasi implicate nella regolazione della proliferazione cellulare. Questi farmaci sono impiegati nel trattamento di neoplasie solide e in alcune forme ematologiche. Essi inibiscono il segnale in una varietà di recettori, tra cui vascular endothelial growth factor receptor (VEGF-R) 1, 2 e 3, platelet–derived growth factor receptor (PDGF-R), c-RET, macrophage colony-stimulating factor 1 (CSF1), FMS-like tyrosine kinase 3 receptor (FLT3), e c-KIT. Per alcune molecole è stata inoltre evidenziata la capacità di bloccare kinasi intra-cellulari, quali RAF (1).
Nel 2004 fu osservato che sunitinib poteva indurre ipotiroidismo e nel 2005 fu osservato che imatinib induceva ipotiroidismo in un paziente già tiroidectomizzato che assumeva levo-tiroxina (2). Successivamente, in seguito all’uso sempre più diffuso di questi farmaci, gli effetti avversi sulla funzione tiroidea sono stati meglio caratterizzati e dimostrati praticamente per tutti (6-12). Questi farmaci possono indurre ipotiroidismo, tireotossicosi con meccanismo distruttivo e per alcuni è stato anche ipotizzato un effetto sul metabolismo della T4. Il meccanismo che sta alla base non è del tutto chiarito, anche se l’inibizione dei VEGF-R sembra costituire una delle ipotesi principali. La tiroide è infatti l’organo con il più alto flusso ematico per unità di peso e il segnale mediato da VEGF-R (in particolare da VEGF-R1 e VGF-R2), espresso sulle cellule endoteliali, è ritenuto fondamentale per il mantenimento della vascolarizzazione. La riduzione del flusso potrebbe rappresentare un fattore determinante (1,3). In un caso di ipotiroidismo è stato chiaramente documentata una riduzione del flusso e in molti casi di ipotiroidismo è stata documentata una chiara diminuzione di dimensioni. Le fasi tireotossiche possono essere seguite da ipotiroidismo e anche in questi casi è stata documentata marcata riduzione volumetrica (1). Dopo l’interruzione eventuale del farmaco, i parametri della vascolarizzazione migliorano e la funzione tiroidea può tornare nella norma. Analogamente la plausibile spiegazione per la tireotossicosi è un effetto distruttivo legato a ischemia più severa ed acuta. Peraltro questo non appare l’unico meccanismo, in quanto anche inibitori multi-kinasici che non interagiscono con i VEGF-R possono, seppur raramente, indurre ipotiroidismo e il bevacizumab, anticorpo monoclonale contro il VEGF-A, pur prevenendo il legame di questo al suo recettore, può indurre ipotiroidismo con una prevalenza decisamente più bassa del sunitinib. Appare dunque verosimile che per indurre l’ischemia tiroidea sia indispensabile l’inibizione di almeno due VEGF-R e probabilmente anche il blocco di ulteriori fattori di crescita (1-3). Alcuni studi suggeriscono inoltre che un meccanismo aggiuntivo nell’indurre ipotiroidismo possa essere l’inibizione della tireo-perossidasi (4) e il blocco della captazione dello iodio (5).
Questi farmaci sono inoltre in grado di produrre anche alterazioni dei test funzionali tiroidei per effetti periferici. Sono, infatti, state descritte diminuzione del rapporto T3/T4 e T3/rT3 e modificazioni dei valori di TSH. I livelli di TSH sono spesso inappropriatamente alti rispetto ai valori di T4. Nel ratto è stata dimostrata inibizione della 5-desiodasi tipo 1 e tipo 3 e in un case report l’axitinib produceva ipotiroidismo in un paziente tiroidectomizzato in terapia con L-tiroxina.
Con quali farmaci è più probabile che si verifichi un’alterazione della funzione tiroidea e di quale tipo?
Se si presuppone che alla base dello sviluppo di ipo e ipertiroidismo ci sia principalmente l’inibizione dei VEFG-R, è ragionevole pensare che siano maggiormente associati a tali problemi i farmaci meno selettivi e con più alto potere inibente dei VEFG-R. In effetti, il sunitinib è quello per il quale vi sono state più segnalazioni. Il primo studio prospettico eseguito su 42 pazienti per un periodo mediano di 37 mesi mostrò che il 36% sviluppava ipotiroidismo, il 10% aveva TSH soppresso e il 17% innalzamento del TSH (6). Ulteriori studi prospettici e retrospettivi hanno riconfermato tali dati, con prevalenza di ipotiroidismo fino all’85% e alcuni casi di tireotossicosi franca (7,8,10,11,13). I dati della letteratura sembrano mostrare che gli altri due farmaci per i quali vi può essere associata frequentemente disfunzione tiroidea sono il sorafenib e l’axinitib (7,9,11,12). Per il sorafenib sono descritti casi di tireotossicosi, mentre l’axitinib sembra avere la maggior percentuale di effetti tiroidei (addirittura ipotiroidismo nel 100% dei casi in uno studio, nella popolazione giapponese, dove vi sono evidenze di una maggiore sensibilità a questi farmaci). Pazopanib appare avere la minore prevalenza, mentre per alcuni farmaci quali motesanib e vandetanib vi è evidenza di innalzamento del TSH, durante terapia sostitutiva con L-T4, nei pazienti tiroidectomizzati e trattati per carcinoma midollare in progressione (1,3,9). In particolare uno studio ha mostrato l’innalzamento del TSH nel 100% dei casi con vandetanib. Comunque, seppur con alcune differenze sopra descritte, praticamente per ogni farmaco di questa classe sono descritti effetti sulla funzione tiroidea. I dati derivati dai vari studi sono riportati nella tabella.
| Alterazioni della funzione tiroidea in corso di target-therapy | |||
| Farmaci | Numero di studi | Ipotiroidismo C/S | Tireotossicosi |
| Axitinib | 3 | 31-89% | NR |
| Cediranib | 2 | 13-56% | NR |
| Dasatinib | 1 | 50% | NR |
| Imatinib* | 2 | 90-100% | - |
| Linifanib | 3 | 5-44% | NR |
| Motesanib* | 3 | 8-41% | - |
| Nilotinib | 1 | 12% | NR |
| Pazopanib | 1 | 10% | NR |
| Sorafenib | 5 | 8-68% | 24% |
| Sunitinib | 10 | 18-85% | 6-40% |
| Vandetanib* | 1 | 100% | - |
| Vatalanib | 1 | 2% | NR |
* Tutti i pazienti erano tiroidectomizzati
C/S: clinico/subclinico
NR: non riportato
A tutt’oggi non si individuano fattori predittivi certi per lo sviluppo di tali problematiche tranne l’etnia giapponese. In uno studio la tireotossicosi è risultata più frequente in pazienti che avevano ipotiroidismo prima del trattamento e in cui vi era pre-esistenza di autoimmunità.
Dopo quanto tempo dobbiamo aspettarci un’eventuale alterazione della funzione tiroidea?
La probabilità che si sviluppi ipotiroidismo dipende dal tempo di trattamento e il tempo per lo sviluppo delle anomalie di funzione sembra anche diverso per i vari farmaci, in particolare sarebbe più breve per axitinib (mediana 3 settimane) vs sunitinib e sorafenib (16 settimane). Il monitoraggio della funzione tiroidea con TSH e FT4 prima del trattamento e il successivo monitoraggio del TSH come primo esame sembra dunque corretto, soprattutto in caso di uso di farmaci per i quali vi è maggiore evidenza di indurre alterazioni della funzione tiroidea. Non esiste nessuna raccomandazione formale circa la tempistica del monitoraggio del TSH, ma sembra ragionevole eseguire l’esame ogni 3 settimane nei primi quattro mesi ed eventualmente in caso di sospetto clinico. Nei casi in cui il farmaco è prescritto a cicli con periodo di wash-out, è probabilmente preferibile eseguire il dosaggio prima dello stop. Da sottolineare inoltre che i sintomi generali degli inibitori multi-kinasici, quali astenia e fatica, possono assomigliare ai sintomi dell’ipotiroidismo e dunque la clinica non ci viene in grande aiuto.
Quale è il comportamento di fronte a tale problematiche?
In caso di sviluppo di ipotiroidismo franco, il trattamento con L-tiroxina sarà senz’altro opportuno ed è verosimilmente preferibile iniziare con un dosaggio un po’ più basso per il possibile sviluppo di tireotossicosi. Di più difficile interpretazione potrebbe essere il caso di innalzamento del TSH con FT4 normale, in quanto più che un reale ipotiroidismo subclinico potrebbe trattarsi di un’anomalia correlata all’alterato metabolismo periferico e all’alterata desiodazione ipofisaria. Comunque, l’ipotiroidismo franco e a maggior ragione il solo innalzamento del TSH non dovrebbe costituire motivo di interruzione della terapia. La tireotossicosi rappresenta come sempre una preoccupazione maggiore: può essere autolimitante e sfociare nell’ipotiroidismo; in almeno un caso descritto vi è stata risposta al cortisone (22).
Lo sviluppo di un’alterazione della funzione tiroidea è predittivo dell’effetto del farmaco sulla neoplasia?
Non vi è accordo su questo punto oppure sull’ipotesi che l’ipotiroidismo possa migliorare l’efficacia terapeutica (13-15). Certamente la comparsa di alterazione della funzione tiroidea, soprattutto di ipotiroidismo, non dovrebbe costituire motivo per interrompere una terapia che si dimostri efficace.
EFFETTI TIROIDEI DELLA RADIOTERAPIA
Gli effetti tiroidei dell’esposizione a radiazioni ionizzanti sul collo sono noti e descritti già in una storica review da Greenspan nel 1977 (17). L’esposizione a basse dosi in età infantile aumenta il rischio di carcinoma tiroideo in modo lineare da 15 a 1500 Rad, per poi tendere a diminuire, in quanto dosi maggiori producono effetto distruttivo e ipotiroidismo. Da allora molte cose sono cambiate, in quanto è scomparso l’uso di radiazioni ionizzanti per la cura di patologie benigne ed inoltre il miglioramento dei trattamenti oncologici ha migliorato drasticamente la prognosi di molti pazienti, sia in età pediatrica che adulti.
Per quanto riguarda l’ipotiroidismo, l’incidenza nelle varie casistiche oscilla fra il 3 e il 40% (19,21) in base alla dose e al tempo del follow-up. Il picco di incidenza è fra i 2 e i 3 anni ed è stato osservato anche dopo soli tre mesi dalla radioterapia (RT). Non esiste un minimo soglia di dose, anche se la maggior parte dei lavori sono relativi a dosi > 30 Gy (3000 Rad) erogate sulla tiroide (17,18). Il concomitante uso di chemioterapia non ha mostrato un incremento di ipotiroidismo, tranne che in uno studio. Il problema ipotiroidismo post-RT è piuttosto semplice: basta porsi il dubbio e il trattamento con L-T4 non differisce dall’ipotiroidismo di altra origine.
Il problema dello sviluppo di carcinoma tiroideo nei pazienti sottoposti a RT riguarda sostanzialmente i “long-term survivors” e principalmente i pazienti sottoposti a trattamento in età pediatrica. Inoltre il miglioramento del trattamento dei tumori in età pediatrica coincide con un significativo decremento di mortalità e dunque è maggiore la probabilità di seconda neoplasia. Circa il 10% dei secondi tumori in questi pazienti è tiroideo e il rischio è più alto per esposizioni comprese fra 15 e 30 Gy alla tiroide. Esistono alcuni modelli che permettono una predizione di rischio assoluto per una seconda neoplasia e un recente lavoro descrive un analogo modello per la valutazione del rischio di secondo cancro primario tiroideo (17). A parte i vari modelli, spesso di difficile applicazione, il concetto fondamentale è la possibilità che pazienti esposti a RT in età infantile possano sviluppare una seconda neoplasia in sede tiroidea. Ipotiroidismo e carcinoma tiroideo sono inoltre stati segnalati in pazienti in età infantile trattati con 131I-MIBG per neuroblastoma (20). I pazienti esposti a radiazioni ionizzanti in età infantile necessitano dunque di controlli periodici della funzione tiroidea ed ecografici. I noduli in questi pazienti con “high-risk history” necessitano di FNA, indipendentemente da criteri dimensionali e ultrasonografici.
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Complicanze ipofisarie delle patologie o terapie oncologiche
Alessandro Scoppola
Endocrinologia IDI - IRCCS, Roma
(aggiornato al 4 aprile 2016)
Trattamento radioterapico
Mentre le prime osservazioni avevano documentato che il trattamento chirurgico a livello encefalico determinava immediate alterazioni dell'integrità ipotalamo-ipofisaria, il trattamento radioterapico induce un danno più tardivo sulla secrezione delle tropine ipofisarie, anche a 10 anni dal primo trattamento, con sintomatologie aspecifiche e talvolta di difficile inquadramento, quali fatigue, aumento di peso e deficit di crescita (1,2).
Esiste una forte correlazione tra dose totale di radiazione somministrata e sviluppo del deficit ipofisario, come documentato durante il trattamento della leucemia linfoblastica acuta o dei tumori cerebrali: per dosi di 18-50 Gy si sviluppa deficit isolato di GH, per dosaggi superiori (> 60 Gy) sono stati descritti casi di panipopituitarismo. Sono stati anche descritti casi di diabete insipido (3). La somministrazione di una dose totale, ma frazionata in un breve periodo, determina lo stesso danno ipofisario rispetto alla somministrazione della stessa dose per un lungo periodo con numerosi intervalli.
L'ipotalamo è maggiormente sensibile alle radiazioni rispetto all'ipofisi e questo va considerato in particolare per dosaggi < 50 Gy (4). Pertanto, nei bambini trattati affetti da neoplasia cerebrale è prevalente il deficit di secrezione di GH, mentre il deficit degli altri ormoni ipofisari si presenta nel 2-6% dei casi dopo circa 10 anni dalla somministrazione di 40-50 Gy (5).
La secrezione di GH è la più radiosensibile, seguita dalle gonadotropine, dall'ACTH e molto raramente dal TSH. La maggior parte degli studi è concorde nell'affermare che, usando il test di tolleranza con l'insulina (ITT), il 100% dei bambini presenta una ridotta risposta del GH per dosaggi > 30 Gy, mentre la risposta è normale nel 35% dei bambini trattati con dosaggi < 30 Gy (6). Tali risposte possono comparire dopo 3 mesi come dopo 12 mesi dal trattamento.
Per quanto riguarda la secrezione gonadotropinica, una dose di radiazioni > 50 Gy può rendere i bambini ipogonadotropi, mentre dosi inferiori, paradossalmente, possono determinare pubertà precoce.
Possono esserci importanti ripercussioni anche sulla secrezione di ACTH, con un deficit nel 19% dei casi a distanza di 15 anni. Questa comparsa tardiva è una caratteristica peculiare, descritta per la prima volta nel 2003 (7). La dose di radiazioni che riduce questa prevalenza è compresa tra 18-24 Gy nel caso di leucemia linfoblastica acuta, come dimostrato dopo un follow-up di 3.6-10 anni (8).
Target therapy
La più recente scoperta di specifici anticorpi monoclonali diretti verso il CTLA-4, che è un recettore presente sui linfociti T attivati e che regola normalmente la risposta immunitaria, ha aperto nuove importanti possibilità terapeutiche per i pazienti affetti da melanoma metastatico (IV stadio) (9-10). Il legame del CTLA-4 con il suo ligando B7 (CD86) genera un segnale negativo, che viene utilizzato dalle cellule tumorali per indurre uno stato di anergia nei linfociti, disattivando l'attivazione immunitaria. Il legame dell'anticorpo anti-CTLA-4 alla suddetta molecola, impedisce l'innesco del segnale negativo che si traduce in un potenziamento della difesa immunitaria. Per questa sua caratteristica, l'Ipilimumab, eliminando un freno inibitore alla risposta immunitaria, che peraltro contribuisce allo stabilizzarsi della risposta immunogenica, è associato al rischio di effetti collaterali immuno-correlati. Attualmente in Italia l'Ipilimumab è indicato solo per i pazienti affetti da melanoma metastatico avanzato pretrattati (seconda linea), con uno schema di trattamento per via endovenosa di 3 mg/kg ogni tre settimane per 4 cicli. Tra i più importanti e frequenti effetti collaterali immuno-mediati, ci sono diarrea, epatotossicità ed eruzione cutanea. Più rare, ma talvolta insidiose per le modalità di presentazione, sono le tossicità neurologiche, oculari, articolari, polmonari ed endocrinologiche. Queste ultime si presentano a carico della tiroide nel 2.4% dei casi e a carico dell'ipofisi e dei surreni in < 1% dei casi.
Più in particolare a carico dell'ipofisi, la manifestazione più frequente a seguito della somministrazione di Ipilimumab, è l'ipofisite, con una frequenza, a seconda delle casistiche, che varia dallo 0% al 17% nei pazienti trattati per melanoma metastatico, per neoplasia renale e neoplasia prostatica (11-12). In un importante studio di Fase III su 676 pazienti affetti da melanoma metastatico al II e IV stadio, l'incidenza di ipofisite era dell’1.5% in combinazione con altri farmaci immuno-modulatori e dello 0.5% utilizzando solo Ipilimumab (13). Il rischio di ipofisite immuno-correlata a seguito di terapia con Ipilimumab al dosaggio maggiormente impiegato (3 o 10 mg/kg) può variare dall'1% al 6%. Simili percentuali sono state documentate con un altro farmaco analogo, il Tremelimumab.
Rispetto alle altre forme di ipofisite linfocitaria o autoimmune, quella da Ipilimumab è più frequente nei maschi (83-87%) e presenta ipogonadismo ipogonadotropo (14-17). La sintomatologia è caratterizzata da segni e sintomi non specifici, quali cefalea, disturbi del visus, fatigue, debolezza, confusione, perdita della memoria, disfunzione erettile e perdita della libido, anoressia, insonnia, intolleranza alla temperatura, sensazione soggettiva di febbre e brividi. È importante considerare ed escludere, in presenza di questa sintomatologia, la nuova comparsa di metastasi cerebrali. Sono stati descritti un caso di diabete insipido ed un caso di iponatremia secondaria a SIADH (18) e recentemente un caso di ipofisite associato ad insufficienza renale (19). La tossicità è stata suddivisa in 5 gradi secondo il National Cancer Institute (2012) per una migliore uniformità di valutazione e di intervento: Grado 1) assenza o lieve presenza di sintomi; diagnosi prevalentemente clinica per cui è consigliata l'osservazione; non sono necessari interventi farmacologici. Grado 2) sintomatologia moderata; limitazione iniziale delle abitudini di vita quotidiane, più significative in funzione dell'età; possibile documentazione di alterazione ipofisaria senza segni di sovvertimento ghiandolare; sono necessari interventi farmacologici. Grado 3) sintomatologia severa pur senza importanti rischi per la vita; necessario il ricovero ospedaliero e terapia appropriata; disabilità e parziale limitazione nelle abitudini di vita quotidiane. Grado 4) grave rischio di vita; possibili conseguenze irreversibili; necessità di intervento urgente. Grado 5) morte.
I sintomi generalmente compaiono dopo 2-6 mesi dall'inizio del trattamento. Al dosaggio di Ipilimumab più usuale nella pratica clinica (3 mg/kg) i sintomi più rilevanti compaiono dopo una media di 11 settimane, corrispondente a poco prima della IV somministrazione e questo è interpretabile in funzione dell'accumulo di dose.
Attraverso la valutazione radiologica con RMN con contrasto è possibile documentare un marcato aumento del volume della ghiandola ipofisaria, spesso con assottigliamento del peduncolo. In particolare sono stati riportati incrementi dell'altezza ipofisaria sul piano sagittale da valori basali di 3.4-6 mm a 7.7-11.8 mm (16,20). L'aumento del volume ipofisario è talvolta omogeneo, altre volte irregolare e si modifica durante la terapia corticosteroidea. Recentemente è stato descritto un caso di ipofisite, dall'esordio alla completa risoluzione, attraverso l'impiego della 18F-FDG PET/CT (21)
I livelli circolanti di ACTH, TSH, GH, prolattina, FSH e LH sono variabili in funzione dei vari gradi di ipopituitarismo e del tempo di comparsa dei sintomi. Per questo motivo è sempre opportuna la determinazione delle tropine ipofisarie, come di altri ormoni circolanti (FT4, cortisolemia, elettroliti plasmatici, funzione epatica, ecc.) prima dell'inizio della terapia. In alcuni casi ove si sospetti un iposurrenalismo subclinico associato al frequente sintomo che riferiscono questi pazienti, la fatigue, è opportuno eseguire un test di stimolo con ACTH anche prima dell'inizio della terapia. È necessario prestare attenzione alla possibilità di rilevare ridotti livelli di ACTH e di cortisolo plasmatico pur in presenza di sintomatologia addisoniana o di normali livelli di ACTH e bassi livelli circolanti di cortisolo. Similarmente è possibile documentare ridotti livelli circolanti di FT4 e TSH con sintomatologia ipotiroidea. La prolattina può essere elevata, normale o bassa (17).
Il trattamento si fonda sull'impiego di corticosteroidi, la cui posologia va individuata in funzione del grado di ipofisite: per il grado 3-4 è opportuno sospendere temporaneamente l'Ipilimumab ed iniziare il desametasone 4 mg ev ogni 6 ore per circa 7 giorni, scalando poi gradualmente fino a 0.5 mg/die e quindi sostituire con prednisone (1-2 mg/kg/die per os) o dosi analoghe di idrocortisone, con graduale riduzione dopo la 4° settimana ed eventuale successiva sostituzione degli ormoni deficitari.
In corso di terapia con Ipilimumab è necessario sempre sorvegliare la possibile insorgenza di una crisi iposurrenalica acuta. Generalmente tutti i pazienti che sviluppano un quadro di ipofisite presentano una graduale risoluzione della sintomatologia dopo pochi giorni dall'inizio della terapia corticosteroidea. Nel corso della storia clinica è stato anche possibile documentare l'evoluzione con valutazioni RMN seriate. Talvolta la funzione ipofisaria può rimanere deficitaria per lunghi periodi (in media 20 settimane, ma anche per tutta la vita), tanto da dover richiedere un trattamento prolungato con corticosteroidi (22). Più selettivamente è stata riportata la ripresa funzionale dell'asse ipofisi-tiroide nel 37-50% dei casi (23), e dell'asse ipofisi-gonadi nel 52% dei casi (24).
Episodicamente è possibile documentare un isolato deficit tiroideo e/o corticosurrenalico senza un completo ipopituitarismo. Il rischio del panipopituitarismo spesso non rappresenta un problema a causa della scarsa sopravvivenza dei pazienti affetti da melanoma metastatico. Non è mai stato possibile, prima del trattamento con farmaci anti CTLA-4, predire quali pazienti potessero sviluppare un ipopituitarismo persistente. Non è stato ancora documentato il possibile ruolo protettivo dei corticosteroidi per ridurre incidenza e severità di tali effetti collaterali.
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Aggiornamento 2016
Sull’argomento relativo alle complicanze della terapia con ipilimumab per il melanoma metastatico sull’ipofisi, sono stati presentati in letteratura due casi di tiroidite di Hashimoto con elevati titoli anticorpali (1) e vari casi di malattia di Graves con elevati anticorpi anti-TSH-R (2-3), associati a gravi disturbi centrali, compatibili con un quadro clinico di encefalite in assenza di alterazioni infettive, infiltrative, neoplastiche o metaboliche del liquor. Talvolta, infatti, specialmente nelle prime fasi del manifestarsi dei disturbi caratterizzati da confusione e letargia, senza anomalie morfologiche del sistema nervoso centrale e del liquido cefalo-rachidiano, il quadro clinico dell’ipofisite può essere confuso con una più complessa e grave sindrome encefalitica. La terapia steroidea è stata impiegata con successo per la risoluzione del quadro encefalitico, come già descritto in passato in merito alla encefalopatia e tiroidite di Hashimoto (encefalite di Hashimoto).
Sono stati anche descritti casi di meningite immuno-correlata e sindrome di Guillain-Barrè in pazienti con melanoma in trattamento con Ipilimumab (4). Questo è importante, poiché, al fine di evitare lo slatentizzarsi di altre importanti patologie, prima di intraprendere una terapia con i nuovi farmaci interferenti con il sistema immunitario, si rende sempre più necessaria un’attenta analisi preventiva delle possibili malattie autoimmuni, tra cui quelle di interesse del sistema endocrino.
Bibliografia
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Complicanze surrenaliche delle patologie o terapie oncologiche
Alessandro Scoppola
Endocrinologia IDI - IRCCS, Roma
La valutazione della funzione corticosurrenalica viene talvolta sottostimata nei pazienti affetti da neoplasia trattati sia con radioterapia che chemioterapia, poichè molti dei segni e sintomi caratteristici sono di frequente riscontro in questa categoria di pazienti. È stato documentato che il trattamento radiante cerebrale per neoplasie non di origine ipofisaria o ipotalamica, determina un iposurrenalismo associato anche a ipotiroidismo in meno del 5% dei casi (1).
La maggior parte degli inibitori della steroidogenesi impiegati da anni nel carcinoma surrenalico, quali Mitotane, Ketoconazolo, Metopirone ed Etomidate, determina un blocco della secrezione ormonale che necessita un’immediata sostituzione.
Diverso è il caso invece di un’altra categoria di farmaci, gli Inibitori della Tirosin-Kinasi (TKI) largamente impiegati per la terapia delle neoplasie stromali gastrointestinali (GIST), del cancro del rene avanzato e più recentemente di numerose altre neoplasie solide e della serie ematica, che proprio per il selettivo meccanismo di azione, interferiscono con la vascolarizzazione capillare e conseguente secrezione ormonale. Studi di fase III sull’impiego dei TKI nei pazienti con neoplasia renale metastatica nell’uomo non hanno documentato quadri di insufficienza surrenalica conclamata, sebbene questa sia stata osservata negli animali da esperimento per esposizioni farmacologiche modestamente superiori a quelle impiegate negli studi clinici (2). Parallelamente nelle sezioni istologiche dei surreni di questi animali sono state documentate aree di necrosi, emorragie, congestione, ipertrofia e infiammazione, ma ripetute valutazioni con RMN e CT in 336 pazienti trattati con Sunitinib non hanno dimostrato alcuna alterazione. La valutazione funzionale con il test di stimolo con ACTH in 400 pazienti trattati con Sunitinib ha documentato un deficit funzionale importante in un solo soggetto, mentre 11 pazienti avevano un ritardo di risposta con un picco del cortisolo di 12-16.4 µg/dL (normale > 18 µg/dL). Tuttavia, nessun paziente ha riportato evidenza clinica di iposurrenalismo (2). Recentemente è stato documentato per la prima volta durante trattamento con Sunitinib per neoplasia metastatica del rene un caso di insufficienza surrenalica acuta associato alla transitoria fase di tireotossicosi che può precedere l’ipotiroidismo nel corso di trattamento in questi pazienti (3). È noto infatti da tempo che l’insufficienza surrenalica subclinica può essere smascherata dall’ipertiroidismo, come avviene durante un eccesso di tiroxina o nella tireotossicosi da carbonato di litio (4,5).
L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene è stato valutato anche nei pazienti con leucemia mieloide cronica in trattamento con Imatinib (un altro TKI), documentando in 12/25 casi la presenza di ipocortisolismo sub-clinico (cortisolo dopo stimolazione < 18 µg/dL) attraverso l’impiego dei test con glucagone e con ACTH. Solo due pazienti presentavano un quadro di ipocortisolismo conclamato. Tuttavia, nel medesimo studio non è stato possibile documentare un’associazione tra deficit di glucocorticoidi e durata o dose del trattamento.
L’effetto anti-secretivo (inibizione della sintesi di cortisolo) degli inibitori di mTOR è stato confermato in vitro in cellule di carcinoma corticosurrenalico umane.
Per tutti questi motivi la FDA nell’approvare il trattamento di queste neoplasie con i TKI ha indicato di porre la massima attenzione alle possibili manifestazioni sub-cliniche e pertanto è raccomandato il monitoraggio della funzione surrenalica in quei pazienti affetti da malattie importanti e/o da sottoporre ad interventi chirurgici.
Bibliografia
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Complicanze ossee delle patologie o terapie oncologiche
Metastasi ossee da carcinoma della mammella
Stefania Bonadonna e Sonia Baruffi
UOS Dipartimentale di Riabilitazione Neuromotoria a indirizzo Oncologico, Pio Albergo Trivulzio, Milano
Negli Stati Uniti il tumore della mammella colpisce 1 donna su 8 ed è la seconda causa di morte per tumore, anche se la sopravvivenza delle pazienti affette da tale neoplasia è aumentata negli anni. Il Women’s Health Initiative Observational Study (WHI) (1) ha evidenziato che le donne che sopravvivono al tumore mammario hanno un rischio più elevato di fratture cliniche vertebrali, fratture di polso e in generale di tutte le fratture (esclusa l’anca). Tutto ciò verosimilmente è dovuto al fatto che la maggior parte dei tumori sono ormono-dipendenti, cioè hanno recettori per estrogeni o progesterone che rendono la neoplasia responsiva ad un trattamento mirato alla riduzione del tasso estrogenico (modulatori selettivi per i recettori estrogenici –SERM–, inibitori dell’aromatasi, ovariectomia o analoghi del GnRH).
Nonostante i progressi, soprattutto nella diagnosi precoce del tumore mammario e nelle terapie adiuvanti, la recidiva da neoplasia mammaria rimane una sfida aperta, con percentuali di recidiva di malattia che arrivano al 4.3% (durante i primi 2 anni di trattamento adiuvante con tamoxifene dopo resezione chirurgica del tumore); di questo 4.3% circa il 75% è rappresentato da metastasi a distanza. Questo dato appare molto significativo, in quanto la presenza di metastasi a distanza rende la malattia suscettibile solo di terapie palliative. La sopravvivenza per tumore alla mammella correla direttamente con lo stadio di malattia, poiché a a 5 anni è del:
- 98% per gli stadi I e II
- 84% per lo stadio III
- 28% per lo stadio IV (metastasi a distanza).
Per tale motivo l’identificazione di ulteriori sedi di malattia ed il trattamento mirato di tali foci viene ad assumere una notevole importanza in termini di sopravvivenza e qualità di vita.
Naume e coll. (2) hanno evidenziato che in alcune pazienti con tumore mammario in fase precoce il numero di cellule tumorali circolanti può essere calcolato da campioni di sangue periferico e la biopsia osteo-midollare rivela la presenza di cellule tumorali disseminate nel midollo. Queste sono le pazienti a più alto rischio di recidiva a distanza e con prognosi peggiore. Infatti, una volta che la cellula tumorale ha metastatizzato l’osso, interrompe il normale processo di rimodellamento osseo, causando lesioni osteolitiche che sono il risultato dell’attività osteoclastica incrementata grazie al rilascio, da parte della cellula tumorale stessa, di numerosi fattori di crescita, come PTHrP, VEGF, IGF e citochine.
Nelle pazienti affette da tumore mammario sono stati condotti numerosi studi sugli effetti di diversi bisfosfonati (clodronato, pamidronato, acido zoledronico). I bisfosfonati, da soli o in associazione con altri agenti anti-tumorali, hanno dimostrato in studi preclinici di essere in grado di bloccare diverse tappe nel processo di metastatizzazione. Nell’uomo, la capacità dei bisfosfonati di modificare il microambiente osseo può essere di supporto alla terapia adiuvante o neo-adiuvante del tumore della mammella, migliorando l’esito clinico.
Tre sono i principali studi che prenderemo in considerazione.
Lo studio ZO-FAST (Zometa-Femara Adjuvant Synergy Trial) (3) ha reclutato 1066 donne post-menopausa, con età mediana di 58 anni, affette da tumore mammario ER-positivo in stadio da I a IIIa, con l’obiettivo di dimostrare che le donne che ricevono acido zoledronico all’inizio del trattamento con impiego di un inibitore dell’aromatasi come il letrozolo hanno meno perdita ossea rispetto alle donne in cui il trattamento è stato posticipato. Il T-score basale era < -1 in 718 pazienti e tra -1 e -2 in 368 pazienti. Le pazienti sono state randomizzate a ricevere acido zoledronico (4 mg ogni 6 mesi) da subito o dopo un periodo di latenza dall’inizio del trattamento con letrozolo, quando la BMD scendeva al di sotto di -2 DS di T-score, oppure se avevano una frattura non traumatica o asintomatica. L’end-point primario era rappresentato da cambiamenti della BMD a livello lombare. A 12 mesi, le donne nel gruppo di trattamento con periodo di latenza presentavano una perdita di BMD, in media del 3.5% a livello della colonna lombare e del 2% all’anca, rispetto ad un lieve incremento di BMD nel gruppo che, invece, aveva ricevuto un trattamento immediato (p < 0.0001). Nel corso di tutto lo studio, le donne trattate dopo latenza hanno avuto una perdita di BMD del 6% vs nessuna perdita nelle donne trattate da subito con acido zoledronico. Riguardo all’incidenza di fratture, a 12 mesi non è stata osservata alcuna differenza tra i due gruppi di trattamento, immediato o ritardato.
Lo studio AZURE (Adjuvant Zoledronic acid to redUce Recurrence) è uno studio randomizzato, in aperto, multicentrico, a gruppi paralleli, che ha arruolato 3.360 donne provenienti da 174 centri in 7 Paesi, per determinare se l’acido zoledronico in aggiunta alla terapia ormonale dopo l'intervento chirurgico offrisse un beneficio nella prevenzione delle recidive in donne in pre-menopausa e post-menopausa con carcinoma mammario precoce. Alcune pazienti (n = 1681) hanno preso parte a una fase di trattamento di 5 anni con acido zoledronico con successivo periodo osservazionale di 5 anni, altre no (gruppo controllo, n = 1678). Un piccolo sottogruppo di pazienti ha anche ricevuto una terapia neo-adiuvante. L'end-point primario di sopravvivenza libera da malattia è stato fissato dopo 940 eventi di malattia. Gli end-point secondari comprendevano la sopravvivenza libera da malattia invasiva, la sopravvivenza globale, la sopravvivenza libera da metastasi ossee, la sicurezza. I risultati della seconda analisi ad interim dello studio (4), effettuata dopo un follow-up mediano di 59 mesi, quando si era presentato almeno il 75% (n = 752) degli eventi finali, hanno mostrato che l'acido zoledronico non migliora la sopravvivenza libera da malattia quando aggiunto alla chemioterapia adiuvante standard e/o alla terapia ormonale: hazard ratio (HR) = 0.98 (P = 0.79). Non è risultata statisticamente significativa la tendenza verso un miglioramento della sopravvivenza globale nelle pazienti del braccio trattato (HR = 0.85, P = 0.0726). In un'analisi pre-pianificata in base allo stato menopausale, nel braccio di trattamento è stato osservato un beneficio nella sopravvivenza libera da malattia e nella sopravvivenza globale nelle donne in menopausa ben consolidata: miglioramento del 32% della sopravvivenza libera da malattia (HR = 0.68, P = 0.009) e del 29% della sopravvivenza globale (HR = 0.71, P = 0.017).
Lo studio ABCSG-12 (Austrian Breast and Colorectal Cancer Study Group trial-12) è uno studio randomizzato, controllato, in aperto e multicentrico, condotto per 3 anni su 1803 donne in pre-menopausa con carcinoma mammario ER-positivo in stadio I-II, in trattamento con goserelin (3.6 mg ogni 28 giorni), rispetto ad efficacia e sicurezza di anastrozolo (1 mg/die) o tamoxifene (20 mg/die) con o senza acido zoledronico (4 mg ogni 6 mesi). La randomizzazione in un rapporto 1:1:1:1 ha bilanciato i 4 bracci di trattamento su 8 variabili prognostiche (età, chemioterapia neoadiuvante, stadio patologico del tumore, coinvolgimento linfonodale, tipo di chirurgia o terapia loco-regionale, dissezione ascellare completa, radioterapia intra-operatoria e regione geografica). L’end-point primario era la sopravvivenza libera da malattia (definita come recidiva di malattia o decesso). L’analisi a 48 mesi di follow-up (5) ha mostrato che l’aggiunta di acido zoledronico migliora significativamente la sopravvivenza libera da malattia (HR = 0.68, p = 0.009), ma non il rischio di decesso (HR = 0.67, p = 0.09).
In conclusione, i dati clinici da 3 principali studi di fase 3 (ABCSG-12, ZO-FAST e AZURE) dimostrano un importante miglioramento nella sopravvivenza libera da malattia con acido zoledronico aggiunto a terapia endocrina adiuvante in una popolazione di pazienti con tumore mammario in fase iniziale. Anche se i risultati ad interim provenienti dallo studio AZURE non mostravano una sopravvivenza libera da malattia nella popolazione generale, un'analisi per sottogruppi ha dimostrato che l’acido zoledronico migliora significativamente la sopravvivenza libera da malattia in donne già in stato post-menopausale ad inizio trattamento. Allo stesso modo, una sottoanalisi dello studio ABCSG-12 dimostra un importante beneficio dal trattamento con zoledronato in donne > 40 anni, che abbiano raggiunto una completa soppressione dell’attività ovarica. Questi dati insieme supporterebbero un ruolo potenziale dell’acido zoledronico che va oltre il benessere dell’osso e suggerirebbero che il substrato endocrino potrebbe influenzare l’effetto anti-tumorale dello zoledronato (6)
Uno studio randomizzato (7) ha confrontato denosumab, un anticorpo monoclonale umano contro il RANK-ligando, con acido zoledronico nel ritardare o prevenire gli eventi scheletrici in pazienti con carcinoma mammario con metastasi ossee. Le pazienti sono state randomizzate a denosumab (120 mg sc) e placebo ev (n = 1026) o acido zoledronico (4 mg ev, con aggiustamento basato sulla clearance della creatinina) e placebo sc (n = 1020) ogni 4 settimane. A tutte le pazienti è stato raccomandato di assumere supplementazione giornaliera di calcio e vitamina D. L'end-point primario era il tempo al primo evento scheletrico nel corso dello studio, definito come frattura patologica, terapia radiante o chirurgica all'osso o compressione della colonna spinale. Denosumab è risultato superiore ad acido zoledronico nel ritardare il tempo al primo evento scheletrico (HR = 0.82, P = 0.01) e il tempo al primo e ai successivi (multipli) eventi scheletrici (rate ratio, RR = 0.77, P = 0.001). La riduzione nei marcatori del turn-over osseo è risultata maggiore con denosumab. La sopravvivenza generale, la progressione della malattia e i tassi di eventi avversi ed eventi avversi gravi sono risultati simili tra i gruppi.
Alla luce di questi dati, alleghiamo le recenti linee guida prodotte dall’American Society of Clinical Oncology (ASCO) sul ruolo dei farmaci attivi sull’osso nel tumore della mammella metastatico (8).
| Linee guida della Società Americana di Oncologia Clinica (ASCO) sul ruolo dei farmaci attivi sull’osso nel carcinoma mammario metastatico |
|
| Rivolte a | Oncologi, Radioterapisti, Oncochirurghi, Palliativisti |
| Raccomandazioni chiave |
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| Metodo | revisione sistematica della letteratura e analisi da parte del comitato ad hoc del pannello di esperti |
| Ulteriori informazioni | sono disponibili il riassunto esecutivo, le linee-guida complete e i supplementi (www.asco.org/guidelines/bisphosbreast) |
Sono in corso due importanti studi di fase 3 con denosumab nella neoplasia mammaria:
- come terapia adiuvante in donne con alto rischio di recidiva che ricevono terapia adiuvante o neo-adiuvante (end-point primario sopravvivenza libera da metastasi ossee, end-point secondari sopravvivenza assoluta, sopravvivenza libera da recidiva), termine dello studio previsto per ottobre 2016
- in pazienti in terapia con inibitori dell’aromatasi (end-point primario fratture cliniche, end-point secondario nuove fratture vertebrali, variazione della BMD a livello vertebrale e femorale), termine del reclutamento previsto per novembre 2013.
Bibliografia
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- Stopeck AT, Lipton A, Body JJ, et al. Denosumab compared with zoledronic acid for the treatment of bone metastases in patients with advanced breast cancer: a randomized, double-blind study. J Clin Oncol 2010, 28: 5132-9.
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Metastasi ossee da carcinoma prostatico
Stefania Bonadonna e Sonia Baruffi
UOS Dipartimentale di Riabilitazione Neuromotoria a indirizzo Oncologico, Pio Albergo Trivulzio, Milano
I tumori del tratto genito-urinario rappresentano una delle patologie più rilevanti, soprattutto nei soggetti di sesso maschile, con la neoplasia della prostata al primo posto (192.000 nuovi casi diagnosticati all’anno negli Stati Uniti, che rappresentano il 25% dei tumori diagnosticati nell’uomo e causano oltre 27.000 morti per malattia metastatica). Queste neoplasie tendono a metastatizzare prevalentemente nello scheletro: la percentuale di metastatizzazione all’osso arriva al 65-75% nei pazienti con tumore della prostata avanzato, all’80-90% nei pazienti con neoplasia resistente alla terapia da deprivazione androgenica.
I siti più comunemente coinvolti sono colonna vertebrale, pelvi, coste e ossa lunghe, cioè le aree di ematopoiesi nell’adulto, che si ritiene siano le aree che forniscono un miglior microambiente di crescita alle cellule tumorali. Le lesioni ossee di origine maligna distruggono la normale omeostasi ossea data dall’interazione tra osteoclasti (riassorbimento osseo) e osteoblasti (neoformazione ossea), responsabile di mantenere l’osso sano, portando quindi a una maggior fragilità ossea.
All’imaging, le lesioni provenienti da tumori prostatici possono essere osteolitiche, osteoblastiche (in prevalenza) o di entrambi i tipi. Indipendentemente dal tipo di lesione, si osserva sempre un incremento dei marcatori di turn-over osseo, soprattutto quelli indicativi di aumentata attività osteoclastica. L’incremento di attività osteoclastica è associato in maniera indipendente all’aumentato rischio di complicanze scheletriche, incluse fratture patologiche, compressione midollare, necessità di chirurgia sull’osso o di radioterapia palliativa o dell’ipercalcemia neoplastica. In assenza di terapia diretta sull’osso, la maggior parte dei pazienti affetti da tumore della prostata va incontro ad un evento avverso scheletrico nel corso della malattia (1).
La terapia del tumore prostatico, anche allo stadio iniziale, prevede la deprivazione androgenica, che può essere accompagnata da orchiectomia bilaterale o da terapia cronica con GnRH-agonista o antagonista. In entrambi i casi si ottiene un ipogonadismo severo, con valori di testosterone < 0.2 ng/mL. La castrazione si accompagna a riduzione della BMD e quindi a una maggior incidenza di eventi ossei. Le terapie studiate ad oggi sono quello dirette sugli osteoclasti: bisfosfonati e denosumab.
L’acido zoledronico (4 mg ogni 3-4 settimane) è al momento il farmaco approvato dall’FDA come terapia standard preventiva degli eventi avversi scheletrici in pazienti affetti da tumore prostatico, indipendentemente dalla risposta tumorale alla terapia ormonale di prima linea (castrazione).
Un gruppo di ricerca giapponese ha valutato in 40 uomini con carcinoma prostatico naive per terapia ormonale l’efficacia di una singola infusione di acido zoledronico (4 mg ev al giorno 1) dopo la terapia di deprivazione androgenica vs nessuna infusione, misurando a 6 e 12 mesi la BMD del femore prossimale e della colonna lombare con DEXA e l’N-telopeptide urinario (uNTx) (2). A 6 mesi, la BMD media (senza differenze significative al basale) della colonna spinale antero-posteriore è diminuita del 4.6% nei controlli ed è aumentata del 5.1% nei pazienti trattati (P = 0.0002). Anche a 12 mesi, la differenza di BMD era significativa nella regione lombare (P = 0.0004), dimostrando che l’acido zoledronico mantiene la densità minerale ossea. Anche uNTx era significativamente diminuito a 6 mesi nei trattati, dimostrando una diminuzione del turn-over osseo.
Le fratture scheletriche nei pazienti con tumore della prostata sono associate ad una ridotta sopravvivenza. In 643 pazienti con carcinoma della prostata avanzato ed almeno un sito di metastasi ossea, è stata valutata l’efficacia dell’acido zoledronico nel prevenire fratture ossee: 208 pazienti hanno completato lo studio della durata di 15 mesi e 186 di questi hanno preso parte ad una fase di estensione. Dopo 24 mesi, il 38% dei pazienti trattati con acido zoledronico ha presentato complicanze ossee, contro il 49% dei pazienti nel gruppo placebo (p = 0.028). Inoltre l’acido zoledronico ha ritardato il tempo alla prima complicanza ossea (488 vs 321 giorni, p = 0.009), il tempo alla prima frattura patologica (0.77 vs 1.47 eventi/anno, P = 0.005) e ha ridotto il dolore, valutato mediante la scala Brief Pain Inventory, per tutto il periodo dello studio (3).
Il Denosumab HALT Prostate Cancer Study (4) è uno studio multicentrico, in doppio cieco, in cui uomini sottoposti a terapia di deprivazione androgenica per tumore della prostata non-metastatico sono stati randomizzati a denosumab, un anticorpo monoclonale umano contro RANK-L (60 mg sc ogni 6 mesi), oppure placebo (734 pazienti in ciascun braccio). L'end-point primario era la percentuale di cambiamento della BMD lombare a 24 mesi. Gli end-point secondari comprendevano i cambiamenti percentuali di BMD al collo del femore e all'anca a 24 mesi, e a tutti i siti a 36 mesi, così come l'incidenza di nuove fratture vertebrali. A 24 mesi, la BMD lombare è aumentata del 5.6% nel gruppo denosumab rispetto a una perdita dell'1% nel gruppo placebo (P = 0.001); le differenze tra i 2 gruppi si sono mantenute significative fino a 36 mesi. La terapia con denosumab è risultata anche associata a un aumento significativo di BMD durante tutte le valutazioni all'anca, al collo del femore e al terzo distale del radio. I pazienti trattati con denosumab hanno mostrato una diminuzione nell'incidenza di nuove fratture vertebrali a 36 mesi (1.5% vs 3.9% con placebo, RR = 0.38, P = 0.006).
Il Denosumab 147 è uno studio in doppio cieco, su 1.432 uomini con tumore alla prostata resistente alla castrazione, localmente progressivo, o con metastasi a qualsiasi linfonodo, randomizzati a denosumab (120 mg sc) o placebo sc ogni 4 settimane. Il 55% dei pazienti non aveva ricevuto alcun precedente trattamento locale (5). Sono stati inclusi pazienti considerati ad alto rischio di metastasi ossee, secondo almeno uno di due criteri: livello di PSA ≥ 8 ng/mL o tempo di raddoppiamento del PSA ≤ 10 mesi. L'end-point primario era la sopravvivenza libera da metastasi a livello osseo; gli end-point secondari erano il tempo alla prima metastasi ossea e la sopravvivenza globale. L'analisi finale dello studio ha dimostrato una mediana di sopravvivenza libera da metastasi ossee di 29.5 mesi per il braccio denosumab e 25.2 mesi per il braccio placebo (HR = 0.85, P = 0.028). Il tempo medio alla prima metastasi ossea è stato 33.2 mesi per il braccio denosumab e 29.5 mesi per il braccio placebo (HR = 0.84, P = 0.032). La sopravvivenza mediana è stata di 43.9 mesi per il braccio Denosumab e 44.8 mesi per il placebo (HR = 1.01, P = 0.91). Il trattamento con denosumab non ha portato a miglioramento nella sopravvivenza complessiva o nella sopravvivenza libera da progressione. Sebbene lo studio abbia incontrato l’end-point primario pre-specificato, con un prolungamento statisticamente significativo nella sopravvivenza libera da metastasi ossee, non è chiaro se un miglioramento del valore mediano della sopravvivenza di 4.2 mesi nei pazienti con tumore prostatico resistente alla castrazione, ad alto rischio di metastasi ossee, sia una misura adeguata di beneficio clinico. È anche poco chiaro se la prevenzione delle metastasi (pazienti senza evidenza di metastasi) aggiunga beneficio ai pazienti trattati con denosumab nel contesto metastatico (pazienti con evidenza di metastasi).
Un editoriale su Lancet (6), a commento dello studio denosumab 147, ha sollevato perplessità sull'opportunità di somministrare denosumab come farmaco preventivo per le metastasi ossee. Sulla base dei risultati dello studio, l'editoriale afferma che i risultati riportati sostengono l’uso di denosumab come alternativa all’acido zoledronico, ma non sostengono il suo più ampio utilizzo come agente preventivo per le metastasi ossee nel cancro alla prostata.
Alleghiamo le linee guida dell’Associazione Europea di Oncologia (EAU) (7) sulla terapia del carcinoma della prostata avanzato.
| Linee guida della Società Europea di Urologia per la terapia palliativa del carcinoma prostatico resistente alla castrazione |
|
| Raccomandazione | Grado |
| Il trattamento farmacologico non prolunga la sopravvivenza nei pazienti con metastasi ossee estese e sintomatiche | A |
| Il trattamento di questi pazienti deve mirare a migliorare la qualità della vita e a ridurre il dolore | A |
| L’obiettivo terapeutico principale è una terapia con la massima efficacia e la minima comparsa di effetti collaterali | A |
| Nei pazienti con metastasi scheletriche dovrebbero essere usati i bisfosfonati (p.e. acido zoledronico) per prevenire le complicanze ossee. Però bisogna valutare il rapporto con i possibili rischi di tossicità, in particolare la necrosi mascellare | A |
| Nel trattamento delle metastasi ossee dolorose devono essere presi precocemente in considerazione trattamenti palliativi, quali i radioisotopi, la radioterapia esterna e un adeguato uso di antalgici | B |
| Nei pazienti con sintomi neurologici critici, bisogna prendere in considerazione provvedimenti d’emergenza quali chirurgia spinale o radioterapia decompressiva | A |
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Gestione del diabete nel paziente in terapia oncologica
Edoardo Guastamacchia
Endocrinologia, Università di Bari
I dati epidemiologici rilevano che la coesistenza di diabete e cancro oscilla tra l'8 e il 18% (1); le due patologie si influenzano negativamente e ciò pone enormi difficoltà ai clinici che si occupano della cura di questa complessa popolazione di pazienti (2,3).
I dati sulla gestione dei diabetici in terapia oncologica sono scarsi ed insufficienti le evidenze di come meglio trattare la malattia diabetica, mentre simultaneamente è necessario curare la neoplasia.
Il cancro può complicare un diabete pre-esistente o favorire l'iperglicemia e l'insorgenza di nuovi casi di diabete attraverso vari meccanismi: rilascio di citochine o di altre sostanze, ridotta attività fisica, cachessia e quindi accentuazione dell'insulino-resistenza (4, 5).
Inoltre, è noto come la terapia oncologica (chemioterapia, radioterapia, glucocorticoidi) possa, con gli effetti collaterali che la caratterizzano (nausea, vomito, perdita di peso, esacerbazione dell'insulino-resistenza), favorire condizioni di scompenso glico-metabolico (2,6,7).
D'altra parte, le complicanze acute e croniche del diabete possono a loro volta ritardare il trattamento neoplastico ed indurne modificazioni; infatti, la terapia oncologica, con i possibili effetti nefrotossici, cardiotossici, neurotossici ed epatotossici, incontrerà notevoli difficoltà ad essere praticata al meglio in pazienti diabetici con insufficienza renale, cardiaca ed epatica, quali sono i diabetici di lunga durata più esposti all'insorgenza di cancro (6,8-10).
Il successo di una terapia oncologica completa richiede l'uso dell'85% della chemioterapia, percentuale che nel diabetico, per i motivi sopra menzionati, potrebbe risultare particolarmente tossica; d'altra parte è evidente che ogni modificazione posologica, della modalità di somministrazione o la sostituzione del chemioterapico si tradurrà in una ridotta risposta al trattamento e in una riduzione della sopravvivenza (11).
Non sorprende pertanto il fatto che i pazienti con cancro e diabete abbiano una prognosi peggiore se confrontati con pazienti senza diabete: remissioni più brevi, maggiori episodi infettivi, sopravvivenza media più breve e più alti tassi di mortalità; quanto detto vale anche per i pazienti con iperglicemia evidenziata per la prima volta durante la terapia oncologica (2,12-16).
Il trattamento della malattia diabetica e gli obiettivi da raggiungere nei soggetti con cancro saranno differenti e dovranno tenere presente la storia clinica del paziente e la sua aspettativa di vita.
Il controllo rigoroso della glicemia, che è solitamente richiesto per evitare le complicanze a lungo termine del diabete, non è più da ritenersi appropriato in soggetti con cancro sottoposti a terapia oncologica, per i quali lo scopo della cura dovrà essere un miglioramento della qualità della vita.
Ovviamente, devono essere prevenute iperglicemie severe, che compromettono il benessere dei pazienti e gli stessi esiti delle 2 patologie: pertanto si potrebbe, in fase non terminale, perseguire un range glicemico compreso tra 140 e 200 mg/dL (2).
Se lo stato nutrizionale del paziente è stabile, si potrà mantenere la terapia in atto qualunque essa sia. Se in seguito alla patologia neoplastica e alla terapia oncologica si manifesterà una perdita di peso o anoressia (nausea, vomito), sarà necessario nel diabete tipo 1 ridurre la posologia dell'insulina in atto e nel diabete tipo 2 ridurre la posologia degli antidiabetici orali o sostituirli con gli analoghi insulinici short-acting (2,17).
La metformina, com'è noto, è il farmaco di prima scelta, se non controindicata, nella cura del diabete mellito tipo 2, inoltre numerose e recenti evidenze mostrano che l'uso di essa è associato con una più bassa incidenza di cancro e mortalità per cancro rispetto ad altri ipoglicemizzanti (18-24); nonostante ciò, l'uso di essa dovrebbe essere evitato in questa popolazione di pazienti durante i cicli di terapia oncologica, perchè potrebbe esacerbarne gli effetti collaterali (nausea, vomito, enterite) (4,25,26).
Gli ipoglicemizzanti orali da preferire, per il controllo della glicemia post-prandiale, sono i secretagoghi di breve durata quali nateglinide e repaglinide, mentre sono possibilmente da evitare le sulfoniluree (glimepiride, glipizide, gliburide); ciò è importante perchè si può adattare la terapia ai pazienti, considerato che essi sono spesso affetti da nausea, vomito e quindi riluttanti a mangiare (2). Ovviamente, sono utilizzabili anche gli analoghi short-acting dell'insulina, in alcuni casi preferibili agli ipoglicemizzanti orali, per la loro rapidità d'azione, per la capacità di compensare l'iperglicemia post-prandiale e per la flessibilità nella soluzione della qualità e quantità dei cibi.
Durante l'utilizzo di glucocorticoidi (previsti in molti protocolli per il trattamento anti-neoplastico ed anti-emetico) (25,26) i pazienti con pre-esistente diabete potrebbero continuare ad assumere la terapia orale, confortati da un più accurato monitoraggio, ma solitamente agli ipoglicemizzanti si preferisce la terapia insulinica con schema basal-bolus, che è la sola in grado di compensare precocemente l'esacerbazione dell'insulinoresistenza determinata dai cortisonici (27). La posologia insulinica dovrà tener conto del peso del paziente e della capacità di alimentarsi. Potrà essere prevalentemente praticata sottocute, ma in alcuni casi potrebbe essere infusa ev, con la cautela di prevenire glicemie > 180 mg/dL ed evitare glicemie < 110 mg/dL (27). La posologia insulinica sarà poi modificata parallelemente alla necessità e alla diminuzione dei glucocorticoidi per evitare l'ipoglicemia (27).
L'iperglicemia è una frequente complicanza della nutrizione enterale e parenterale totale, solitamente usate in oncologia per supplementare e rimpiazzare la dieta in pazienti che non si alimentano normalmente. In tal caso l'aggiunta di insulina regolare alla soluzione della parenterale totale può favorire il controllo dei livelli glicemici. Anche l'insulina long-acting può essere usata in questi pazienti.
Nel caso della nutrizione enterale si potrà utilizzare una long-acting (glargine, detemir, lispro-protamina) la cui scelta dipenderà dalla durata della nutrizione enterale stessa; il monitoraggio glicemico si potrà effettuare ogni 4-6 ore e il controllo glicemico potrà beneficiare della somministrazione estemporanea di analoghi rapidi.
Importante è evitare la brusca interruzione della nutrizione parenterale totale, perchè essa potrebbe favorire l'ipoglicemia; si suggerisce una graduale riduzione dell'infusione almeno 1 ora prima della definitiva interruzione (2).
I pazienti diabetici con cancro in fase terminale sono a più alto rischio di iperglicemia (28,29), ma non vi è purtroppo accordo, nè vi sono chiare linee guida, relativamente ai range glicemici auspicabli in questi pazienti (30): gli oncologi tollerano valori tra 270 e 360 mg/dL, i diabetologi valori più bassi fra 180 e 270 mg/dL (30,31), altri ancora valori compresi tra 180 e 360 mg/dL (3).
L'iperglicemia in questa fase potrebbe non essere trattata fino a livelli di 250 mg/dL, ma al di sopra di questi valori la terapia insulinica diviene necessaria per evitare poliuria, polidipsia e disidratazione, che peggiorano ulteriormente la qualità della vita dei pazienti.
Assolutamente da evitare è l'ipoglicemia, che si manifesta per molteplici cause (anoressia, alterato assorbimento, vomito). Per minimizzare tale evento, i livelli glicemici in questi pazienti dovranno essere elevati e sicuri, compresi cioè tra 150 e 250 mg/dL (29) o addirittura più alti (tra 180-360 mg/dL) (3).
In questa fase l'uso di una long-acting sembra essere la terapia insulinica più appropriata per diversi vantaggi, quali un profilo glicemico piatto, minimo rischio ipoglicemico ed una sola iniezione al giorno (30).
Anche la dieta dovrà essere più elastica e si potrà permettere ai pazienti di assumere i cibi che più gradiscono; infine, il monitoraggio glicemico effettuato dal paziente o più frequentemente dai familiari sarà meno rigoroso, fino ad essere del tutto interrotto (17,32) o essere sostituito dalla determinazione della HbA1c molto meno invasiva (33).
Bisognerà parlare con i pazienti e i familiari per far comprendere loro che ciò che era valido in passato da un punto di vista terapeutico e di monitoraggio, potrebbe in questa fase rappresentare solo un ulteriore fardello per il paziente, al quale bisogna solo assicurare una dignitosa qualità della vita (3,17,28,29).
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Problematiche relative alla fertilità e alla procreazione nel paziente oncologico
Maria Anna Sarno e Fedro Alessandro Peccatori
Unità di Fertilità e Procreazione in Oncologia, Istituto Europeo di Oncologia, Milano
Introduzione
Sono in aumento le neoplasie diagnosticate sotto i quarant’anni, che comprendono tumori mammari, tumori ginecologici (neoplasie della cervice uterina e tumori ovarici, prevalentemente germinali), tumori del testicolo e neoplasie ematologiche (linfomi, leucemie). Nonostante l’aumento d’incidenza, la sopravvivenza globale delle neoplasie dei giovani adulti è migliorata, grazie a diagnosi più tempestive, all’utilizzo di protocolli di cura standardizzati e all’avvento di nuovi farmaci.
In questo complesso scenario diventa prioritario considerare aspetti legati alla qualità di vita dei pazienti, che comprendono sempre i temi della fertilità e della procreazione. Il posticipo della maternità e della paternità, che si è affermato negli ultimi 2 decenni, rende ancor più urgente affrontare queste problematiche, offrendo risposte adeguate alle richieste dei pazienti.
Patogenesi dell’infertilità in ambito oncologico
I trattamenti chemio- e radioterapici riducono la fertilità con differenti meccanismi.
Sia radio che chemioterapia determinano un danno sulla gonade maschile, che si manifesta essenzialmente in una riduzione del numero, della motilità, della morfologia e dell’integrità del DNA degli spermatozoi. Ciò si traduce in una riduzione del potenziale fertile e un aumento del rischio malformativo fetale nel periodo immediatamente successivo al trattamento stesso.
Per quanto riguarda la donna, il danno gonadico da chemioterapia si esplica sia a livello dei follicoli primordiali che dei follicoli in diversa fase di maturazione, determinando, in acuto, un’amenorrea temporanea chemio-indotta e, a lungo termine, un più precoce esaurimento follicolare, quindi una ridotta fertilità. Il rischio di infertilità legato ai trattamenti chemioterapici dipende essenzialmente da 3 fattori:
- la classe di farmaci utilizzati, con potenziale gonado-tossico basso, medio ed alto. Gli agenti alchilanti, tra tutti la ciclofosfamide, sono i chemioterapici a più alto potere gonado-tossico, perchè non essendo ciclo-specifici possono colpire anche cellule che non sono in attiva proliferazione, come gli ovociti e i follicoli primordiali;
- la dose totale somministrata: maggiore è la dose somministrata, maggiore è il danno a livello gonadico, quindi dose e numero di cicli sono direttamente correlati alla tossicità ovarica;
- l’età della paziente svolge un ruolo preminente. Ogni donna alla nascita possiede un numero di follicoli primordiali (circa 300.000), che costituiscono il proprio patrimonio gametico. Nel corso della vita, questo patrimonio gametico viene per così dire “depauperato”, fino ad arrivare alla menopausa con circa 1000 follicoli residui. Per il solo effetto del passare degli anni, la riserva ovarica diminuisce progressivamente, con un’accelerazione piuttosto marcata dopo i 35 anni.
È difficile fare una stima precisa dell’entità del danno ovarico da chemioterapia, ma certamente la riserva gametica al termine del trattamento sarà ridotta di una quota percentuale che è funzione dell’età al momento del trattamento, della dose e del tipo di trattamento. Una donna in età più avanzata ha una ridotta riserva ovarica, pertanto il danno ovarico dei farmaci anti-blastici sarà proporzionalmente maggiore rispetto ad una donna più giovane, che possiede già in partenza un maggiore numero di follicoli residui (1,2).
In che modo la chemioterapia vada a depauperare il pool di follicoli primordiali è ancora oggetto di studio. Sono state proposte diverse teorie a riguardo, ma le più accreditate sono 3:
- quella dell’apoptosi follicolare ipotizza che i farmaci anti-blastici inducano una riduzione del numero di follicoli mediante l’induzione dell’apoptosi follicolare;
- quella del danno vascolare ipotizza un danno dei chemioterapici a carico dell’endotelio dei vasi della corticale ovarica, con iniziale ispessimento e ialinizzazione dei vasi, successiva proliferazione corticale di piccoli vasi (neo-vascolarizzazione) e poi formazione di focali zone di fibrosi della corticale con deposizione di collagene;
- quella del “burn-out” (esaurimento) follicolare attualmente gode di maggiore credito. Quando sono esposti alla chemioterapia, i follicoli in fase di crescita vengono distrutti, determinando una riduzione dei fattori di crescita, in primis l’AMH, implicati nel reclutamento follicolare. Ciò si traduce in un maggiore reclutamento follicolare con più rapido e precoce esaurimento della riserva di follicoli primordiali (3,4).
Come già accennato, la chemioterapia induce anche un danno ovarico a breve termine, per l’effetto sulle cellule gonadiche in attiva fase di proliferazione (follicoli antrali, pre-antrali e pre-ovulatori), causando amenorrea temporanea, che solitamente si manifesta già con i primi cicli di trattamento. Questo effetto è nella maggior parte dei casi transitorio, con un successivo recupero nella funzionalità gonadica al termine dei trattamenti chemioterapici, in un intervallo di tempo variabile dai 6 ai 12 mesi. Talvolta l’amenorrea temporanea può esitare in amenorrea permanente e quindi menopausa precoce. Ancora una volta, al di là della classe di farmaci somministrata, il principale determinante della amenorrea chemio-indotta è l’età della paziente. Donne di età più giovane hanno, infatti, un più rapido recupero dei cicli mestruali e un minor rischio di amenorrea permanente, con una percentuale di ripresa dei cicli mestruali pari all’85% per le donne di età < 35 anni, circa 60% nella fascia di età compresa tra i 35 e 40 anni, 40 anni, che sono quindi più vicine alla menopausa fisiologica.
Il tipo di chemioterapia somministrata influenza più che altro i tempi e l’andamento dei cicli mestruali post-trattamento. Ad esempio, in corso di terapia con antracicline si ha un precoce arresto dei cicli mestruali, con progressivo recupero di cicli regolari entro i 6-12 mesi dal termine del trattamento. L’aggiunta di taxani alla chemioterapia con antracicline determina una maggiore percentuale di amenorrea, con curve di ripresa dei cicli che seguono andamento analogo. Situazione differente si osserva invece dopo terapia con agenti alchilanti. L’amenorrea si instaura più lentamente ed in una minore percentuale di donne, ma, allo stesso tempo, si assiste ad un recupero più lento dei cicli mestruali, per poi seguire una più rapida evoluzione verso la menopausa (5).
Anche la radioterapia, quando il campo di irradiazione include le gonadi, determina una riduzione della riserva ovarica e quindi riduzione del potenziale fertile della donna. Il danno da radioterapia è proporzionale all’età della paziente e alla dose totale erogata. La dose sterilizzante nella maggior parte delle donne è pari a 5-15 Gy, con una tossicità maggiore per gli schemi di trattamento frazionato rispetto alla singola dose. Altro ostacolo della radioterapia pelvica al concepimento è l’irradiazione del viscere uterino, che porta solitamente a un utero ipoplasico, fibrotico, con pareti rigide che hanno perso elasticità e distensibilità, requisito fondamentale per accogliere il prodotto del concepimento. Oltre ai trattamenti diretti sulla pelvi, anche i trattamenti radianti sull’ipofisi possono indurre sterilità con un meccanismo differente che porta allo sviluppo di ipogonadismo ipogonadotropo. Per ridurre il danno ovarico da radioterapia è indicata, quando tecnicamente possibile e oncologicamente sicura, la trasposizione chirurgica delle ovaie al di fuori del campo di irradiazione, prima dell’avvio del trattamento (3).
Se la gonado-tossicità di chemioterapia e radioterapia è nota, non è dimostrato, invece, un rischio di infertilità dopo sola terapia endocrina. Il rischio globale di menopausa correlato alla sola assunzione di tamoxifene, farmaco cardine per la terapia ormonale del carcinoma mammario in pre-menopausa, è basso e sembrerebbe essere legato più all’età della paziente che non al profilo di tossicità ovarica del farmaco. Il rischio di ridotta fertilità dopo terapia endocrina è infatti da attribuirsi all’età materna avanzata al termine del trattamento, che solitamente prevede 5 anni di cura, durante i quali è fortemente sconsigliata la ricerca di una gravidanza per la nota teratogenicità del tamoxifene. Allo stesso modo non è nota una tossicità ovarica da parte dei farmaci biologici, che oramai sono diventati parte integrante dei trattamenti oncologici (1,2).
Valutazione e preservazione della fertilità
Gli approcci e le modalità sono differenti per uomini e donne.
Se le gonadi maschili sono più suscettibili al danno gonado-tossico di quelle femminili, allo stesso tempo le metodiche di preservazione della fertilità sono di più facile esecuzione e maggiore semplicità, avvalendosi essenzialmente della crio-preservazione dello sperma. La raccolta e il congelamento di liquido seminale devono essere proposte, indipendentemente dall’età, a tutti gli uomini che esprimano un desiderio di paternità, prima dell’avvio delle cure oncologiche. Per garantire il futuro risultato con maggiore sicurezza, devono essere raccolti da 1 a 3 campioni di sperma, che poi verranno conservati in apposite banche del seme (6).
La questione della preservazione della fertilità per le donne è invece più complessa e attiene a molteplici considerazioni etiche e tecniche, che sono meno standardizzate e logisticamente più articolate. Nell’ambito dei trattamenti oncologici bisogna dunque tener conto del rischio di infertilità dovuto alle terapie, dell’età della paziente, della possibilità di riutilizzare successivamente i gameti in relazione alla durata delle terapie. Sarebbe quindi opportuno che ogni donna, prima dell’avvio di un trattamento oncologico, ricevesse una valutazione da parte di uno specialista in onco-fertilità per poter vagliare le diverse opzioni di preservazione della fertilità adatte alla specifica situazione. Ogni procedura deve essere messa in atto prima dell’avvio delle cure, pertanto è di fondamentale importanza il tempestivo invio della paziente allo specialista, per evitare inutili e talvolta anche dannosi ritardi nell’inizio dei trattamenti oncologici (7,8).
Una stima indiretta della riserva ovarica può essere fatta mediante il dosaggio dei livelli circolanti di ormone anti-mulleriano (AMH) e la conta ecografica dei follicoli antrali. Il dosaggio dell’AMH, supportato dalla conta dei follicoli antrali, può essere utile sia prima dell’avvio del trattamento chemioterapico per una stima della riserva ovarica basale, sia al termine del trattamento stesso, per una stima della fertilità residua. L’AMH (glicoproteina dimerica prodotta dai follicoli antrali) svolge un ruolo inibitorio sulla maturazione dei follicoli primordiali, riducendone pertanto il reclutamento. I livelli di AMH subiscono un incremento progressivo dopo il menarca, con un picco nella terza decade, per poi ridursi successivamente fino a raggiungere livelli indosabili in menopausa. In corso di chemioterapia i livelli di AMH si riducono progressivamente e sembrerebbero rimanere soppressi anche dopo il termine della chemioterapia. Spesso la ripresa di cicli mestruali dopo chemioterapia viene erroneamente ritenuta un indice di fertilità. Molte donne che pur mestruano regolarmente e hanno livelli non menopausali di estradiolo, FSH e LH non riescono tuttavia a concepire, probabilmente per una misconosciuta ridotta riserva ovarica o per fattori endometriali (9).
Le tecniche di preservazione della fertilità in pazienti candidate a un trattamento chemioterapico sono: la crio-preservazione di ovociti o di embrioni, la crio-preservazione di tessuto ovarico o l’utilizzo di analoghi dell’LHRH in concomitanza alla chemioterapia.
La crio-preservazione degli ovociti viene proposta a donne di età ≤ 40 anni, con buona riserva ovarica sia in termini di numero che qualità ovocitaria. Mentre il numero degli ovociti può essere stimato, come suddetto, col dosaggio dell’AMH e la conta dei follicoli antrali, la qualità è in relazione all’età della paziente (donne più giovani hanno una migliore qualità ovocitaria). La raccolta di ovociti può avvenire su ciclo spontaneo, ma solitamente, si preferisce procedere dopo una stimolazione ormonale, per ottenere un numero maggiore di uova da congelare. È quindi necessario attendere il primo giorno del ciclo mestruale, iniziare la stimolazione ormonale monitorando il momento dell’ovulazione e quindi procedere alla raccolta (pick-up) degli ovociti.
Recenti dati suggeriscono che si possa iniziare la stimolazione anche in diverse fasi del ciclo mestruale, inducendo la luteolisi con antagonisti di LHRH.
La stimolazione ormonale può essere effettuata anche in donne affette da neoplasie endocrino-responsive, purchè la neoplasia sia già stata asportata chirurgicamente, e si utilizzino protocolli di stimolazione adattati con tamoxifene o letrozolo.
La raccolta degli ovociti viene effettuata per via vaginale con una procedura mini-invasiva. Una volta prelevati, gli ovociti vengono congelati mediante congelamento lento (slow-freezing), che ha tassi di sopravvivenza dopo scongelamento pari al 60-80%, o la più recente vitrificazione, che raggiunge una sopravvivenza ovocitaria fino al 90%. Per ottenere un risultato finale soddisfacente è necessario congelare tra gli 8-15 ovociti totali, considerando che parte del materiale viene perso nelle manovre di congelamento e scongelamento e quindi non è più fecondabile.
Dopo lo scongelamento, è indispensabile una fecondazione in vitro con ICSI, con percentuali di successo finali stimate intorno al 30%.
Il congelamento di ovociti immaturi che vengono poi maturati in vitro, prima o dopo il congelamento, è un’altra possibilità che è stata valutata di recente e per la quale si attendono i risultati degli studi in corso.
Il congelamento di embrioni, per quanto abbia tassi di successo maggiori del congelamento di ovociti, non è permesso in Italia e prevede comunque la presenza di un partner al momento della raccolta. Dopo la raccolta degli ovociti, infatti, si procede direttamente alla creazione di embrioni in vitro, che verranno poi congelati.
Il congelamento di tessuto ovarico è l’altra metodica utilizzata per preservare la fertilità femminile. Il vantaggio è che la procedura può essere fatta in qualsiasi momento del ciclo mestruale, evitando così ritardi nell’avvio della terapia, e che la successiva procreazione può avvenire spontaneamente. Lo svantaggio è la necessità di un intervento chirurgico, per altro eseguibile anche per via laparoscopica, sia per la rimozione del tessuto ovarico che per il successivo reimpianto.
La procedura di espianto è tecnicamente semplice e la quantità di tessuto ovarico da asportare dipende dalla riserva ovarica. È importante effettuare un esame istologico sul tessuto ovarico prima del congelamento, per escludere la presenza di metastasi che potrebbero poi essere reintrodotte con il successivo reimpianto. Il reimpianto può avvenire nella stessa sede anatomica (impianto ortotopico) o in una sede differente (impianto eterotopico), solitamente all’interno dell’addome o sotto la pelle dell’avambraccio, in ogni caso in zone particolarmente vascolarizzate. Con l’impianto ortotopico sono state ottenute 25 gravidanze.
Quando il tempo a disposizione prima dell’avvio delle cure non è abbastanza o le pazienti non desiderino sottoporsi a manovre invasive, può essere proposta la somministrazione di analoghi dell’LHRH concomitanti alla chemioterapia. Questa terapia sembra ridurre l’effetto gonadotossico dei chemioterapici ed è associata a minor probabilità di menopausa dopo il trattamento. Non è ancora chiaro se aumenti il tasso di gravidanze post-chemioterapia (10,11).
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