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Luca Piantoni
UOC Malattie Endocrine, Polo Ospedaliero Integrato S. Eugenio e CTO A. Alesini, Azienda USL Roma C

(aggiornato al 30 dicembre 2019)

 

Numerosi sono i farmaci che sono stati associati nel tempo a quadri di patologia tiroidea. La bassa frequenza di segnalazioni e la reale incidenza di tali quadri ha comportato modeste ricadute cliniche fino all’introduzione in clinica cardiologica di una molecola ad alta efficacia anti-aritmica – l’amiodarone – , ma gravata da significativi effetti sulla funzione tiroidea. Tali quadri rappresentano oggi la prima causa di tiroiditi iatrogene. Per la loro frequenza e per i possibili effetti di ipofunzione o tireotossicosi si è ritenuto di affrontarlo come argomento specifico e separato.
Il campo dei farmaci in campo anti-infiammatorio anti-neoplastico è in continua evoluzione. Alcune molecole hanno un valore storico. Per altre, di recente introduzione, non sempre sono disponibili dati specifici.

 

ANTI-EPILETTICI

È noto che i farmaci anti-epilettici possono influenzare il metabolismo e l’efficacia di altri farmaci (1), inclusi quelli ormonali, richiedendo talora una modificazione dei dosaggi e una particolare attenzione ai possibili effetti collaterali. A loro volta, i farmaci ormonali possono influenzare l’azione degli anti-epilettici (2,3).
Gli anti-epilettici possono influenzare sia la secrezione degli ormoni tiroidei che la terapia sostitutiva. Nei pazienti in terapia anti-convulsivante è stato descritto un rischio aumentato di disfunzioni tiroidee. I meccanismi principali con cui gli anti-epilettici esercitano un’influenza nei pazienti ipotiroidei in terapia sostitutiva comprendono:

  • la competizione tra il farmaco anti-epilettico e l’ormone tiroideo per il legame alle proteine plasmatiche (fenitoina, carbamazepina, oxcarbazepina);
  • il metabolismo accelerato degli ormoni tiroidei per induzione degli enzimi epatici CYP3A4 e UGT (fenobarbital, fenitoina, carbamazepina, oxcarbazepina);
  • l’aumento della conversione periferica della T4 a T3.

L’aumento del metabolismo epatico degli ormoni tiroidei può portare a una riduzione della T4 plasmatica. Il valproato può precipitare un ipotiroidismo, ma i meccanismi d’azione non sono chiari.
Nessuno studio è stato rivolto specificatamente all’influenza dei farmaci anti-epilettici nei pazienti con ipotiroidismo centrale. Per mantenere nella norma i valori di FT4 nei pazienti con ipotiroidismo secondario che assumono farmaci anti-epilettici con azione di induzione enzimatica, può essere necessario un aumento del dosaggio della terapia con tiroxina. Concentrazioni terapeutiche di fenitonina e carbamazepina possono spiazzare la T4 e la T3 dal legame con le proteine, interferendo col dosaggio. Va anche tenuto presente che la tiroxina riduce la soglia epilettogena, per cui va evitato il sovra-dosaggio ed è importante la valutazione clinica per evidenziare segni di sotto- o sovra-dosaggio. I pazienti ipopituitarici assumono una terapia ormonale sostitutiva multipla, per cui vanno anche tenuti presenti gli effetti delle altre terapie ormonali sulla dose necessaria di ormone tiroideo. Data la scarsità di questi dati, l’invito è sempre quello di controllare la concentrazione della FT4 in terapia (possibilmente con metodiche come la dialisi all’equilibrio, per evitare interferenze) e di valutare clinicamente il paziente.
Nella meta-analisi di Zhang del 2016 (4) i neurologi cinesi hanno ricercato gli effetti dei farmaci anti-epilettici sulla funzionalità tiroidea in pazienti con epilessia. Dei 35 studi presi in esame, 25 erano focalizzati sugli effetti di specifici farmaci anti-epilettici: acido valproico (VPA), carbamazepina (CBZ), fenitoina (PHT). La metanalisi dimostra globalmente un’alterazione del profilo tiroideo in pazienti in trattamento con anti-epilettici rispetto ai controlli sani, in particolare:

  • significativa riduzione di T4 (differenza media standardizzata, SMD -1.839) e FT4 (SMD -1.190);
  • incremento di TSH (SMD + 0.445);
  • non significative variazioni di T3 e FT3.

Questo andamento si conferma anche analizzando separatamente i pazienti in mono-terapia con VPA, PHT o CBZ; nei pazienti in trattamento con CBZ si riscontra anche una riduzione delle concentrazioni di T3.
È noto che gli anti-epilettici possono influenzare trasporto, metabolismo ed eliminazione degli ormoni tiroidei, attraverso diversi meccanismi (5,6), peraltro non del tutto chiariti. Dai dati presenti in letteratura, fenobarbital, PHT e CBZ attivano il sistema degli enzimi epatici microsomiali (P450) e per questa via accelerano il metabolismo degli ormoni tiroidei. Inoltre, è stato anche descritto un aumento dell’enzima glucuronil-transferasi, che interviene anch’esso nel catabolismo degli ormoni tiroidei. Ne consegue una riduzione della T4, per incremento della sua degradazione, che comporta un aumento compensatorio del TSH. Alcuni anti-epilettici sono inoltre in grado di competere con l’ormone tiroideo per il legame alla TBG (PHT e derivati, CBZ) e questo può portare a un artefatto nel dosaggio, con una diminuzione apparente di FT4. PHT influenza anche l’attività desiodasica, incrementando la conversione periferica della T4 a T3. Ecco due esempi:

  • paziente di 56 anni (acido valproico + sodio valproato): TSH 1.76 mU/L, FT3 2.76 pg/mL (vn 2-4.4), FT4 7.84 pg/mL (vn 9.3-17);
  • paziente di 36 anni (acido valproico + sodio valproato + eslicarbamazepina acetato + zonisamide): TSH 2.94 mU/L, FT3 2.51 pg/mL (vn 2-4.4), FT4 0.34 pg/mL (vn 0.7-1.7).

L’incongruenza dei valori, anche dopo la ripetizione in diverso laboratorio, suggerisce l’utilità di verificare l’assunzione di terapie precedentemente non riferite dal paziente.
Alcuni anti-epilettici potrebbero avere anche effetti diretti sulla secrezione di TSH: ad esempio, VPA, stimolando il sistema GABAergico, può ridurre la secrezione di somatostatina, che è un inibitore della secrezione del TSH. Inoltre, VPA può associarsi a carenza di Zinco e Selenio, che giocano un ruolo nella sintesi degli ormoni tiroidei. Le alterazioni delle concentrazioni degli ormoni tiroidei sembrano essere reversibili dopo la sospensione dell’anti-epilettico. I limiti dello studio, riconosciuti dagli stessi autori, sono dovuti al fatto che tutti gli studi inclusi sono osservazionali e inoltre gli anti-epilettici di nuova generazione non sono stati inclusi nell’analisi. Peraltro, i farmaci tradizionali considerati sono a tutt’oggi ampiamente utilizzati. Non sono inoltre disponibili dati sull’eventuale presenza di segni di autoimmunità tiroidea nei pazienti. Infine, non viene descritto il riscontro di manifestazioni cliniche di ipotiroidismo in questi pazienti e resta incerta la rilevanza clinica delle alterazioni nel profilo ormonale tiroideo riscontrate (7).

Che fare: si sottolinea la necessità di controllare la funzionalità tiroidea nei pazienti in terapia cronica con anti-epilettici. L’indicazione al trattamento delle alterazioni riscontrate andrà valutata da parte dell’endocrinologo, in base alla loro entità, facendo riferimento in particolare al TSH (nel paziente con normale funzionalità ipofisaria) e al contesto clinico. Particolare attenzione andrà posta nei pazienti con pre-esistenti problemi tiroidei e/o già in terapia sostitutiva. Può essere considerato con il neurologo un eventuale passaggio a un farmaco di ultima generazione (leviracetam), che non sarebbe un induttore enzimatico e non avrebbe mostrato tali effetti.

 


IMMUNO-TERAPIA ONCOLOGICA

L’immuno-terapia oncologica si fonda sul principio del riconoscimento di antigeni tumore-specifici da parte dei linfociti del paziente. Essa può sfruttare sia l’immunità umorale che cellulo-mediata e può prevedere l’uso di citochine, anticorpi monoclonali anti-antigeni tumorali o inibitori dei check-point immunitari, virus oncolitici, trasferimento adottivo di cellule T e vaccini anti-cancro. In tutti questi tipi di terapia si possono avere disfunzioni tiroidee. Un’interessante revisione ha analizzato la letteratura pubblicata sull’argomento fino al marzo 2017 (8).

 

Interleuchina-2
Uso clinico: melanoma metastatico, carcinoma a cellule renali.
Prevalenza di disfunzione tiroidea: 22% per tireopatie non altrimenti specificate, 15-40% per ipotiroidismo, 19% per ipertiroidismo (anche subclinico transitorio).
Patogenesi: probabilmente multi-fattoriale, si associa alla comparsa di auto-immunità tiroidea.

 

Interferone gamma
Uso clinico: oltre che in oncologia, è stato utilizzato anche per malattie autoimmuni (ad esempio sclerosi multipla) e infettive (ad esempio epatite virale) (9).
Meccanismo d’azione: immuno-modulazione, proprietà anti-virali e anti-neoplastiche.
Prevalenza di disfunzione tiroidea: variabile dall’1 al 50% per tireopatie in generale, 20% per ipotiroidismo autoimmune, 2-3% per tiroidite distruttiva.
Patogenesi: espressione ectopica sul tireocita di molecole del complesso di isto-compatibilità, con aumento della presentazione di auto-antigeni; linfocitosi con incremento percentuale di linfociti natural killer e B.

 

Inibitori dei check-point immunitari (vedi anche capitolo specifico)
Sono possibili, e ormai ben noti, effetti collaterali a carico di ipofisi, tiroide e, più raramente, surreni e pancreas endocrino.
Uso clinico: melanoma e la maggior parte dei tumori solidi (in particolare del polmone e del rene).
Meccanismo d’azione: promozione della risposta delle cellule T ai tumori, attraverso l’inibizione dei cosiddetti check-point immunitari, vie metaboliche che regolano in senso inibitorio l’azione dell’immunità cellulo-mediata.

  • CTLA-4 (cytotoxic T-lymphocyte-associated antigen-4): tra gli anticorpi anti-CTLA-4, più spesso associati a ipofisite, ricordiamo ipilimumab (Yervoy) e tremelimumab;
  • PD-1 (programmed cell death protein-1)/PD-1 ligando: tra gli anticorpi anti-PD-1, pembrolizumab (Keytruda), nivolumab (Opdivo) e pidilizumab; tra gli anti-PD-L1, durvalumab (Imfinzi), atezolizumab (Tecentriq), avelumab (Bavencio).

Prevalenza di disfunzione tiroidea: alto rischio di tireopatie autoimmuni, maggiore per gli anticorpi anti-PD-1 e ancor di più quando si associano diversi farmaci (tabella), come ad esempio per la combinazione di ipilimumab con nivolumab nella terapia del melanoma. Nel caso degli anticorpi anti-PD-1 si possono avere anche tiroiditi distruttive, con una prevalenza del 12%. In particolare, per nivolumab sono stati documentati ipotiroidismo (2-40%, rischio relativo = 12), ipertiroidismo e tiroidite (1-6.5%) e, più in generale, possono verificarsi tireotossicosi transitoria, ipotiroidismo transitorio o definitivo, orbitopatia di Graves, tiroidite silente, peggioramento di pre-esistente tireopatia autoimmune e, raramente, forme gravi come tempesta tireotossica ed encefalopatia responsiva agli steroidi. Più spesso si tratta di forme lievi di tiroidite silente su base autoimmune.
L’ipo e/o ipertiroidismo possono svilupparsi in fase relativamente precoce durante la terapia con questi farmaci (mediana di 9-11 settimane circa dopo l’inizio di nivolumab o dopo 2-3 dosi di ipilimumab) e comunque in qualunque fase del trattamento (10). Raramente la gravità della tireopatia è tale da richiedere la sospensione della terapia o incidere sulla sopravvivenza.

 

Prevalenza di disfunzione tiroidea da inibitori dei check-point immunitari
Tipo di trattamento Disfunzione tiroidea non specificata Ipotiroidismo Ipertiroidismo*
Anti-CTLA-4 23% 4-15% 3%
Anti-PD-1 39% 9-40% 1-13%
Anti-PD-L1 7-21% 7-21% 10%
Anti-CTLA-4 + anti-PD-1 o anti-PD-L1 50% 2-27% 22-30%
*comprese forme subcliniche transitorie

 

Patogenesi: reazione cellulo-mediata contro auto-antigeni in seguito alla down-regolazione dei linfociti T regolatori e alla promozione dei linfociti T effettori, induzione di auto-immunità tiroidea, legame degli anticorpi a PD-L1 e PD-L2 presenti nei tireociti normali; sono stati descritti inoltre anticorpi anti-cellule tireotrope.

 

Virus oncolitici
Uso clinico: melanoma.
Meccanismo d’azione: infezione di cellule neoplastiche ad opera di un virus Herpes Simplex combinato con un fattore di crescita (GM-CSF), che determina sia un effetto cito-tossico diretto, sia il rilascio di antigeni tumorali in grado di indurre la risposta immunitaria (effetto indiretto).
Prevalenza di disfunzione tiroidea: rara.
Patogenesi: non nota.

 

Trasferimento adottivo di cellule T
Uso clinico: melanoma, neoplasie ematologiche.
Meccanismo d’azione: auto-trapianto di linfociti infiltranti il tumore.
Prevalenza di disfunzioni tiroidee: finora non sono state descritte disfunzioni endocrine, ma potrebbero essere possibili visto che l’esperienza con questa strategia terapeutica è ancora limitata.
Patogenesi: ipotizzato meccanismo auto-immune.

 

Vaccini anti-cancro
Uso clinico: carcinoma prostata, pancreas, colon, polmone, melanoma, a cellule renali.
Meccanismo d’azione: vengono iniettate nel paziente cellule cancerose, preventivamente irradiate per prevenirne la replicazione nell’ospite, o antigeni tumorali purificati, con l’obiettivo di indurre e amplificare la risposta immunitaria tumore-specifica. Possono essere utilizzati da soli o in associazione a IL-2, GM-CSF, batteri inattivi, adiuvanti. Il vaccino può essere sia autologo (cellule tumorali del paziente) che allogenico (cellule di un altro paziente con una neoplasia simile). Complessivamente, non ci sono stati finora benefici significativi in termini di sopravvivenza.
Prevalenza di disfunzione tiroidea: 0-25% per tireopatie non altrimenti specificate, 4-11% per ipotiroidismo, 11-24% per ipertiroidismo (anche subclinico transitorio).
Patogenesi: mimetismo molecolare con auto-antigeni tiroidei, induzione di auto-immunità tiroidea.

Che fare. Sono possibili sia forme di ipotiroidismo di marcata entità che forme di tireopatia ad atteggiamento funzionale fluttuante, con rapido passaggio dall'iper all'ipotiroidismo, e l’insorgenza può essere rapida. Sulla base dei dati disponibili, appare utile dosare in tutti i pazienti sottoposti a immuno-terapia oncologica:

  • subito prima dell’inizio della terapia: anticorpi anti-TPO e anti-Tg, TSH e FT4;
  • in corso di terapia: TSH e FT4, ogni 2-3 mesi in caso di positività degli auto-anticorpi o meno frequentemente in caso di assenza, secondo giudizio clinico.

 

La presenza di tireopatia pre-esistente non costituisce una controindicazione all’immunoterapia oncologica, ma si raccomanda un monitoraggio più stretto della funzione tiroidea.
In caso di insorgenza de novo di tireopatia, la sospensione dell’immuno-terapia non è generalmente richiesta, data l’efficacia della terapia tiroxinica per l’ipotiroidismo e di tionamidi e ß-bloccanti per l’ipertiroidismo. Sia l’ipotiroidismo che l’ipertiroidismo conclamati vanno trattati secondo le linee guida correnti. L’uso di corticosteroidi è raccomandato solo in caso di concomitante ipofisite o di orbitopatia di Graves, qualora questa sia di grado moderato-severo e non migliori dopo la sospensione dell’immuno-terapia.
Non ci sono evidenze forti per raccomandare o controindicare la terapia delle disfunzioni tiroidee subcliniche nei pazienti oncologici, per cui si rimanda al giudizio clinico; sembra tuttavia ragionevole proporre un iniziale periodo di osservazione, anche alla luce delle possibili interferenze transitorie sulla funzione tiroidea sia della malattia neoplastica che delle terapie oncologiche.
È possibile che gli eventi avversi endocrini siano ancora non correttamente stimati per la presenza di diversi fattori confondenti presenti nei pazienti oncologici: sick euthyroid syndrome, terapia con steroidi e/o altri farmaci con effetto sulla funzione tiroidea (ad esempio inibitori di tirosin-chinasi), radioterapia, esecuzione di TC con mdc iodati, sottovalutazione in favore di sintomi e segni legati alla malattia neoplastica, soprattutto se avanzata.

 


INIBITORI DELLE TIROSIN-CHINASI (TKI)

In oncologia è nettamente aumentato l’utilizzo di TKI, in mono-terapia o in associazione a chemio- o radioterapia. Esiste quindi una nutrita serie di dati sugli effetti di questi farmaci sul sistema endocrino e sulla funzione tiroidea in particolare (11-15).
La classe di questi farmaci è in continuo ampliamento. Due sono le molecole più consolidate nell’uso e sulle quali è presente quindi il maggiore numero di dati:

  • sunitinib (Sutent®) per GIST, carcinoma renale, NET pancreatico;
  • sorafenib (Nexavar®) per carcinoma differenziato della tiroide (DTC), carcinoma midollare della tiroide (MTC) e carcinoma renale.

L’ipotiroidismo è l’evento più frequente, a nuova genesi o come peggioramento del profilo ormonale in corso di ipotiroidismo già conosciuto. Le percentuali di incidenza di ipotiroidismo clinico o subclinico, variano in modo ampio nelle statistiche: 7-85% per sunitinib, 6-42% per sorafenib.
È stata riportata una fase transitoria di ipertiroidismo.

I limitati studi su vandetanib (Caprelsa, MTC), motesanib (MTC e DTC) e cabozantinib (Cabometyx, Cometriq, MTC) hanno mostrato dati sovrapponibili, con ampli range statistici. Pazopanib (Votrient, carcinoma renale), se utilizzato in pazienti con DTC sdifferenziato (n = 37), ha aumentato il TSH nel 62% dei casi. Per imatinib (Glivec) il riscontro di aumento del TSH nel 60% dei pazienti già in terapia tiroxinica sostitutiva dopo tiroidectomia, con necessità di adeguamento della terapia e l’assenza di effetti nei soggetti non tiroidectomizzati, inducono a ipotizzare un effetto extra-tiroideo della molecola. Vengono segnalati iper e ipotiroidismo nel 22% dei casi con nilotinib (Tasigna) e nel 50% con dasatinib (Sprycel), utilizzati per la leucemia mieloide cronica. L’uso di axitinib (Inlyta) nei pazienti affetti da carcinoma renale determina ipotiroidismo nel 20% dei trattati.

I meccanismi di interferenza con l’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide sarebbero questi:

  • azione diretta sulla tiroide e sulla biosintesi degli ormoni tiroidei e possibile sviluppo di positività anticorpale: sunitinib, sorafenib e nilotinib; l’inibizione della captazione dello iodio e dell’attività della tireo-perossidasi può contribuire alla riduzione della biosintesi degli ormoni tiroidei;
  • interferenza sul trasporto degli ormoni tiroidei, per inibizione da parte dei TKI sui trasportatori MCT8 e MCT10;
  • interferenza sul metabolismo degli ormoni tiroidei per induzione della desiodasi di tipo 3 e sul metabolismo del TSH, che risente meno dell’azione del feed-back negativo di T3 e T4 a livello ipofisario.

Che fare: utile valutare la funzione tiroidea, prima della terapia e 4 settimane dopo il termine del trattamento: sulla base dei livelli di TSH e della sua evoluzione, considerare l’eventuale introduzione di L-tiroxina.
 


BEXAROTENE

La terapia con bexarotene (Targretin®) è utilizzata nel trattamento delle manifestazioni cutanee nei pazienti con linfoma cutaneo a cellule T di grado avanzato. Il farmaco attiva i 3 recettori intra-cellulari X dei retinoidi, i quali regolano l'espressione di geni che controllano la differenziazione e la crescita delle cellule.
La terapia è associata a ipotiroidismo centrale, per ridotta secrezione ipofisaria di TSH (16,17).
Sono stati anche valutati gli effetti periferici dello bexarotene sul metabolismo degli ormoni tiroidei, con uno studio su pazienti privi di tiroide in terapia tiroxinica sostitutiva. Il bexarotene è risultato aumentare la degradazione periferica degli ormoni tiroidei, attraverso una via non desiodasi–mediata e tale effetto si aggiunge a quello a livello ipofisario. L’anomalia riscontrabile nei dati funzionali della tiroide va segnalata al paziente e ai suoi curanti.
Il paziente dovrà quindi essere trattato con una terapia tiroxinica, monitorata sulla base dei livelli di FT4 e indipendentemente dai bassi livelli di TSH, come d’uso nelle forme di ipotiroidismo centrale.

 


ANTI-PSICOTICI

Le fenotiazine, anti-psicotici tipici, alterano principalmente la captazione dello iodio, ma riducono anche la risposta del TSH al TRH.
Le non fenotiazine, anti-psicotici tipici, possono indurre la formazione di auto-anticorpi della tiroide e aumentare i livelli di TSH.
Gli anti-psicotici atipici, di cui fanno parte clozapina (Leponex®), risperidone (Risperdal®), olanzapina (Zyprexa®), paliperidone (Invega®), quetiapine (Seroquel®) e aripiprazolo (Abilify®), sono usati per il trattamento della schizofrenia e delle forme maniacali severe nei pazienti bipolari. La dopamina agisce sull’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide  attivando i recettori D2, ma ha un effetto inverso su ipotalamo e cellule tireotrope. La dopamina può inibire la secrezione del TSH. In considerazione del loro profilo dopamino-agonista, gli anti-psicotici atipici possono parzialmente ridurre la risposta del TSH al TRH, in genere senza indurre ipotiroidismo franco. L’ipotiroidismo nella maggioranza dei casi è dovuto a ridotta sintesi e rilascio di ormoni tiroidei.
In considerazione delle spiccate differenze farmacologiche tra le diverse molecole del gruppo e del numero limitato di casi di ipotiroidismo, al momento non si ritiene che l’effetto sulla funzionalità tiroidea possa essere considerato un effetto di classe farmacologica (18-21).

 


LITIO

Il litio, in forma di carbonato è tuttora ampiamente usato in clinica psichiatrica nella profilassi e nel trattamento della sindrome bipolare, con una posologia di 1000-1500 mg/die in fase di attacco e 300–400 mg/die come dose di mantenimento. L’indice terapeutico è modesto e richiede periodici dosaggi delle concentrazioni terapeutiche, da mantenere nel range 0.4-1 mM/L.
L'utilizzo a lungo termine è stato associato a disfunzione tiroidea: l’incidenza riportata di ipertiroidismo è molto rara, più frequente è il rischio di ipotiroidismo, fino a 8 volte quello della popolazione generale, con riferita frequenza maggiore per sesso femminile ed età > 50 anni. Non sono ancora chiariti il ruolo della familiarità per tireopatie e della presenza di auto-immunità tiroidea precedente al trattamento con litio.

Che fare: prima dell’inizio della terapia è quindi raccomandato un dosaggio di TSH, FT4, FT3, Ab-TPO e Ab-Tg e in corso di trattamento il controllo periodico di FT4 e TSH.

 


BIOTINA

La biotina è una vitamina idrosolubile appartenente al gruppo B, utilizzata nel trattamento del deficit di biotina, nel trattamento di alcune malattie della pelle o in nutrizione parenterale come supplemento vitaminico. La biotina è contenuta anche in alcuni integratori alimentari.
Il rischio di ottenere risultati falsati delle indagini di laboratorio a causa della biotina è maggiore nei seguenti gruppi:

  • pazienti con insufficienza renale, che possono avere concentrazioni di biotina più elevate nel sangue e tempi di eliminazione più lunghi;
  • pazienti affetti da sclerosi multipla esposti ad alte dosi di biotina (fino a 300 mg/die) negli studi clinici;
  • bambini con malattie metaboliche rare (deficit di biotinidasi, deficit di olocarbossilasi sintetasi, gangli basali sensibili alla biotina-tiamina), poiché dipendono da alte dosi di biotina.

La biotina può interferire con molti esami di laboratorio, tra i quali: troponina, PTH, cortisolo, FSH e LH, vitamina D. In ambito di diagnostica per tireopatie la biotina può determinare risultati per le indagini di funzionalità della tiroide che mimano la malattia di Graves e comportare quindi un trattamento non necessario con farmaci anti-tiroidei (22).

 


ACIDO TRI–IODO-TIROACETICO (TRIAC)

Analogo della T3, è presente in alcuni integratori alimentari (dimagranti, acceleratori del metabolismo), in preparazioni galeniche e come farmaco (Triacana, Teatrois). Può indurre ipotiroidismo da inibizione del TSH, bassi livelli di fT4 ed elevati livelli di fT3. Il paziente spesso convive con la sintomatologia clinica per mesi prima di giungere al riscontro della causa. Tipico il quadro sierologico, con elevati livelli di fT3 e quindi TSH nettamente soppresso, e fT4 nettamente inferiore per assenza di stimolo del TSH. Esempio: paziente di 48 anni, TRIAC 1.5 mg, 1 cp x 3; FT3  > 40 pg/mL (v.n. 1.5-4.8), FT4 < 3 pg/mL (v.n. 8.9-17.6), TSH 0.009 μU/mL (v.n. 0.4-4.0).
Su Internet è possibile reperire in diversi siti a libero accesso “istruzioni dettagliate" sull’uso del TRIAC, che si riportano a titolo di esempio ovviamente non condividendone il contenuto! “Nello sport il Triacana viene utilizzato per perdere rapidamente il grasso in eccesso, senza ricorrere a diete estreme che finiscono, inevitabilmente, per favorire il catabolismo muscolare. Per questo motivo, il Triacana è un farmaco particolarmente apprezzato dai body-builder, che lo utilizzano per migliorare la definizione muscolare in vista di una competizione (spesso associandolo a steroidi anabolizzanti non aromatizzabili). Se da un lato il Triacana ha un'azione inferiore rispetto a Cytomel (T3) e Synthroid (tiroxina), dall'altro è considerato più sicuro. Il ciclo inizia normalmente con due pastiglie di Triacana da 0.35 mg da assumere a distanza di 12 ore. Giorno dopo giorno la dose verrà incrementata di due compresse fino ad arrivare alle 10-14 pastiglie al giorno. L'assunzione va distribuita nel corso della giornata in modo da mantenere stabili i livelli plasmatici di tiratricol (questo metabolita ha un'emivita di circa 6 ore). La durata d'assunzione non deve superare i tre mesi ed in ogni caso è importante non sospenderla bruscamente. Similmente alla fase iniziale, la dose andrà infatti diminuita di due pastiglie al giorno fino a sospendere completamente l'assunzione. Tale coda ha lo scopo di riattivare la naturale funzionalità tiroidea, depressa dall'utilizzo cronico di Triacana”.

 

LEVOTIROXINA + ESCINA EMULSIONE

Il prodotto è in commercio in Italia come crema (Somatoline®) di libera vendita. L’indicazione è quella della pannicolopatia edemato-fibro-sclerotica (conosciuta come “cellulite”). 100 g di emulsione contengono 100 mg di levotiroxina e 300 mg di escina. Nella scheda tecnica, tra le controindicazioni per la tiroide, riportata solo l’intolleranza allo iodio e inoltre si afferma che "nei limiti della posologia indicata, Somatoline non determina effetti collaterali sistemici e non interferisce con i principali parametri di funzionalità tiroidea”.
Il tipo di preparazione e l’estensione della patologia nonché l’auto-medicazione può comportare l’utilizzo su superfici estese e per lungo periodo. Se sono rare le segnalazioni di esordio di patologia Basedowiana, verosimilmente per la slatentizzazione di una predisposizione pre-esistente, molto più frequente (e stagionale) il riscontro di casi di tireotossicosi sierologiche. Tipicamente si riscontrano valori di TSH anche nettamente soppresso, valori inferiori al limite di FT4 ed elevati valori di FT3. I quadri sono abitualmente asintomatici o pauci-sintomatici, e regrediscono con la sospensione del prodotto senza necessità di terapia tireostatica.

 

FUCUS VESCICOLOSUS (ALGA BRUNA, KELP)

È un'alga appartenente alla famiglia delle fucacee, con habitat naturale sulla costa atlantica del mare del nord Europa. I principali componenti attivi sono: polisaccaridi (acido alginico, fucoidano, laminaria), iodio (0.05-0.2%), vitamine e minerali (soprattutto vitamina C). Si utilizza prevalentemente l'estratto secco titolato, da 500 a 900 mg/die, e l’estratto fluido, in gocce, assunto alla dose di 25-40 gocce x due volte/die. Sono anche numerosi gli integratori dietetici per la linea e per la cellulite che contengono il fucus. Per tale motivo, per una titolazione in principi attivi non necessariamente rigorosa, e spesso per l’assenza di una specifica anamnesi di patologie tiroidee, la sua assunzione può slatentizzare condizioni di ipertiroidismo subclinico o complicare la gestione di una terapia tiroxinica (potenziamento dell'azione).

 

IODOPOVIDONE

Lo iodopovidone (PVP-I) è un complesso ottenuto dalla combinazione del polimero polivinil-pirrolidone (PVP) con lo iodio sotto forma di ioni triioduro. L'uso più comune di questo principio attivo, in varie forme e associazioni, è quello di disinfettante della cute o delle ferite, per trattamenti anti-settici e per l'igiene orale. Essendo solubile sia in acqua sia in alcol o altri solventi, di solito è presentato come soluzione idro-alcolica (es. per uso esterno al 10%). Il nome del preparato più diffuso in Italia a base di iodopovidone è Betadine, ma è presente anche con altri nomi commerciali e in forma di farmaco generico. Sono stati riportati casi di ipertiroidismo in pazienti in corso di dialisi peritoneale. I tappi di disconnessione dei cateteri dialitici sono pre-trattati con iodopovidone. I casi sono prevalentemente correlati a pazienti in età infantile o comunque con bassi volumi di soluzioni dialitiche e quindi con maggiore concentrazione di iodio nel dialisato. Le segnalazioni hanno determinato un alert dell’Agenzia per il controllo dei farmaci della Gran Bretagna, in accordo con il produttore del dispositivo (23).

 


RITONAVIR

Questa molecola viene impiegata nei regimi anti-virali per il trattamento dell’HIV e dell’epatite cronica da HCV.
Il ritonavir induce la glucuronidazione della L-T4, con il risultato di una potenziale riduzione dell’esposizione sistemica. Tale effetto, che presenta una variabilità individuale molto ampia, può modificare gli effetti terapeutici della L-T4.

Che fare: nei pazienti trattati con L-T4 viene suggerito il monitoraggio del TSH almeno durante il primo mese dall’inizio e/o dalla fine del trattamento con ritonavir (24,25).

 


ALEMTUZUMAB

Uso clinico: alemtuzumab (Lemtrada) è un anticorpo monoclonale anti-CD52 utilizzato nei pazienti adulti con sclerosi multipla (SM) recidivante-remittente attiva (26-28) Tale terapia aumenta il rischio di insorgenza di patologie autoimmuni, tra cui anche quelle di pertinenza tiroidea.
Disfunzione tiroidea: una descrizione dettagliata della tipologia di disfunzione tiroidea correlata ad alemtuzumab è stata effettuata nello studio CAMMS223, nel quale 334 pazienti con SM sono stati randomizzati in un rapporto 1:1:1 a interferone ß-1a (44 µg sc x 3/settimana) o ad alemtuzumab a due diversi dosaggi (12 o 24 mg/d in 3-5 giorni consecutivi, una volta all’anno). Gli autori riferiscono che alemtuzumab può produrre alterazione della funzione tiroidea con maggior frequenza rispetto all’interferone ß-1a (34% vs 6.5%), con elevata prevalenza di ipertiroidismo da m. di Basedow (22%) e con tireopatie frequentemente recidivanti. Le tireopatie autoimmuni (sia tireotossicosi che ipotiroidismo) sono comparse nei 48 mesi successivi alla prima esposizione al farmaco. La maggior parte degli eventi è stata classificata di grado lieve-moderato. Nella maggioranza dei pazienti che hanno manifestato tireopatie (circa l'80%), gli Ab anti-TPO non erano presenti in condizioni basali. Vari studi, tra i quali uno molto recente (28), hanno dimostrato che le patologie tiroidee hanno un picco di incidenza dai primi mesi fino al 3° anno post-terapia con alemtuzumab (e poi si osserva un calo, sino al 5° anno).

Che fare: è consigliato il dosaggio del TSH prima di intraprendere il trattamento e successivamente ogni 3 mesi fino a 48 mesi dall’ultima somministrazione. Dopo questo periodo, i test devono essere eseguiti in funzione dei risultati clinici.

 


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Andrea Corsello
Unità di Chirurgia Endocrina, Ospedale Isola Tiberina–Gemelli Isola, Roma
Dipartimento di Medicina e Chirurgia Traslazionale, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma

(aggiornato al 30 giugno 2025)

 

Introduzione ed epidemiologia
Negli ultimi anni gli inibitori dei check-point immunitari (ICI) hanno rivoluzionato il trattamento di diversi tipi di carcinomi, introducendo anche una nuova gamma di effetti collaterali, classificati come eventi avversi immuno-correlati (EAIC), principalmente dovuti all’attivazione generalizzata del sistema immunitario. Tra questi, quelli endocrini sono particolarmente rilevanti, poiché possono causare danni permanenti e influenzare in modo significativo la qualità di vita e la sopravvivenza. Gli EAIC endocrini colpiscono più frequentemente la tiroide (tiroidite), l’ipofisi (ipofisite), le surrenali (adrenalite) e il pancreas (diabete insulino-dipendente).
Le tireopatie sono il più frequente EAIC endocrino correlato a ICI, con incidenza variabile a seconda del regime utilizzato e dell’inclusione o meno dei disturbi subclinici. In generale, il range di incidenza di tireopatie conclamate correlate a ICI è 8.9-22.2%, con frequenza maggiore in corso di terapia combinata ipilimumab-nivolumab (anti-CTLA-4 + anti-PD-1) o mono-terapia con anti-PD-1 rispetto a mono-terapia con anti-PD-L1 o anti-CTLA-4 (figura 1) (1,2).

 

Figura 1. Incidenza delle disfunzioni tiroidee indotte dai diversi regimi di ICI (dati tratti da 2).

 

Presentazione clinica
La disfunzione tiroidea indotta da ICI sembra il risultato di una tiroidite distruttiva. In accordo con questa ipotesi, è stato osservato un tipico andamento bifasico: una prima fase transitoria di tireotossicosi che compare precocemente (entro 2-6 settimane dall’inizio della terapia), seguita da una fase di ipotiroidismo persistente, che insorge tra la 8° e la 12° settimana.
Sono state riportate anche altre presentazioni cliniche, come l’insorgenza di ipotiroidismo isolato, persistente o transitorio, non preceduto dalla fase di tireotossicosi, oppure la tireotossicosi isolata seguita dal ripristino spontaneo dell’eutiroidismo.
Nonostante gli esami di funzione tiroidea (FT3, FT4, TSH) risultino spesso marcatamente alterati, la maggior parte dei pazienti presenta sintomi lievi. È quindi ipotizzabile che durante questi cambiamenti marcati ma repentini dei livelli di ormoni tiroidei i pazienti possano rimanere clinicamente eutiroidei e i sintomi gravi tenderebbero a manifestarsi solo nei casi di tireotossicosi prolungata o di ipotiroidismo non prontamente riconosciuto e trattato. In particolare, la fase di tireotossicosi può essere talmente precoce e transitoria da non essere diagnosticata e quindi riportata negli studi. Questo spiegherebbe sia la mancata insorgenza di sintomi severi che la maggior frequenza di ipotiroidismo “isolato” riportata dagli studi.
Riuscire a prevedere l’evoluzione verso l’ipotiroidismo è utile, perché permette di prevenire l’insorgenza di sintomi e quindi di evitare dilazioni nella somministrazione degli ICI. Analisi condotte su una coorte di 50 pazienti con tireopatia correlata ad anti-PD-1 hanno dimostrato che una tireotossicosi grave a insorgenza rapida è fortemente associata a maggiore probabilità di evoluzione verso l’ipotiroidismo. Inoltre, la presenza di anticorpi anti-tireoglobulina (TgAb) durante la fase tireotossica rappresenta un ulteriore fattore predittivo per lo sviluppo di ipotiroidismo (3).
Il quadro ecografico tipico della tireotossicosi da ICI consiste nella presenza di aree ipoecogene, disomogeneità parenchimale, vascolarizzazione globalmente ridotta, e progressiva atrofia.
Lo sviluppo di morbo di Basedow-Graves e di orbitopatia tiroidea sono stati descritti solo in rari casi, sia con anti-CTLA-4 che con anti-PD-1. In alcuni di questi pazienti, i TRAb sono risultati negativi e la diagnosi è stata possibile solo attraverso l’attenta valutazione del contesto clinico, ecografico e scintigrafico (4,5).

 

Fattori di rischio
Diversi studi hanno cercato di identificare possibili fattori di rischio per l’insorgenza di tireopatie durante la terapia con ICI. I principali fattori per cui è stato ipotizzato un ruolo predittivo sono:

  • positività degli auto-anticorpi tiroidei (TgAb e TPOAb);
  • livelli “elevati” di TSH (> 4.9 mU/L);
  • aumentata captazione tiroidea di 18F-FDG alla PET;
  • elevato indice di massa corporea (BMI);
  • precedente terapia con inibitori della tirosin-chinasi (TKI).

Tra questi, quello maggiormente studiato è lo stato anticorpale in pazienti che hanno ricevuto terapia con anti-PD-(L)1. Diversi autori hanno, infatti, riportato come la positività anticorpale (in particolare TgAb) prima di iniziare la terapia con anti-PD-(L)1 si associ ad maggior rischio di sviluppare tireopatie conclamate (6,7). Anche lo sviluppo di una positività di TgAb durante il trattamento con pembrolizumab (anti-PD-1), in pazienti con negatività anticorpale allo stato basale, sembra correlato a rischio aumentato di tireopatia da ICI (8).
Nel complesso però, non ci sono ancora evidenze definitive che supportino un ruolo causale degli auto-anticorpi nella patogenesi delle tireopatie da ICI e che la positività allo stato basale o lo sviluppo di positività anticorpale durante il trattamento aumentino il rischio di questa complicanza. Infine, poiché è indispensabile il monitoraggio routinario di TSH ed FT4 durante la terapia con ICI, la misurazione ad ogni ciclo degli auto-anticorpi tiroidei probabilmente non faciliterebbe la diagnosi di disfunzioni tiroidee, ma comporterebbe un aumento dei costi.

 

Associazione con la prognosi
In linea teorica, lo sviluppo di EAIC potrebbe riflettere una risposta immunitaria più significativa ed essere quindi associato a miglioramento della sopravvivenza. Numerosi studi hanno approfondito questo aspetto, indagando l’associazione tra vari EAIC e gli esiti clinici in diversi tipi di tumore, con risultati non sempre concordanti. Anche per quanto riguarda le tireopatie, i dati sul possibile miglioramento della prognosi non sono conclusivi. In particolare, la maggior parte degli studi in pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule trattati con anti-PD-1 hanno evidenziato una correlazione positiva tra lo sviluppo di tireopatie e miglior sopravvivenza (sia libera da progressione che co9mplessiva), ma questo risultato non è stato confermato in altri studi e non è stato osservato in pazienti con altri tipi di tumore (in particolare il melanoma) (9).
Sulla base dell’osservazione che lo stesso EAIC può essere correlato o meno alla prognosi a seconda della primitività del tumore, è emersa l’ipotesi che antigeni comuni sia al sito primitivo del tumore sia al tessuto danneggiato possano contribuire agli effetti prognostici degli EAIC (9). Uno studio pilota ha identificato auto-anticorpi tiroidei specifici, diversi da TgAb e TPOAb, in pazienti con EAIC tiroidei sottoposti a terapia con anti-PD-1, suggerendo la possibile presenza di antigeni comuni coinvolti nella risposta immunitaria (10).

 

Gestione clinica (figura 2)
Prima dell’inizio della terapia con ICI è utile eseguire uno screening della funzione tiroidea tramite dosaggio di FT4 e TSH. Questo è utile non solo perché permette la diagnosi e il trattamento di eventuali tireopatie già presenti e non note, ma soprattutto perché la presenza di una disfunzione tiroidea pre-esistente può complicare la diagnosi di EAIC tiroidei, quando ci si basa su una singola misurazione eseguita in corso di trattamento.
Successivamente, come raccomandato dalla maggior parte delle linee guida (ASCO, ESMO, ESE), è utile un monitoraggio di FT4 e TSH ogni 4-6 settimane (11). In particolare, il monitoraggio dopo quattro settimane dall’inizio dalla terapia è utile al fine di poter identificare la fase transitoria di tireotossicosi. È indubbia l’utilità del dosaggio dell’FT4, e non solo del TSH, sia per valutare il grado di tireotossicosi che perché affidarsi esclusivamente al TSH può portare ad errori interpretativi (in particolare in casi in cui sono utilizzati in concomitanza anti-CTLA-4). L’ipotiroidismo centrale dovuto a EAIC ipofisari è infatti relativamente frequente con gli anti-CTLA-4 e può presentarsi con valori bassi di TSH, simulando una tireotossicosi.
Durante la fase di tireotossicosi, il dosaggio degli anticorpi anti-recettore del TSH (TRAb) è utile per la diagnosi differenziale con i rari casi di morbo di Basedow-Graves associati a ICI.
Come precedentemente accennato, il dosaggio dei TgAb e TPOAb ad ogni ciclo di trattamento non è necessario, ma può essere utile al momento della diagnosi di tireopatia da ICI (sia tireotossicosi che ipotiroidismo) per un inquadramento completo del paziente.
Generalmente alla diagnosi di tireopatia da ICI eseguiamo sempre anche l’ecocolordoppler della tiroide, che aiuta nel distinguere la tireotossicosi dal morbo di Basedow-Graves e può fornire informazioni sulla probabilità che l’ipotiroidismo sia persistente (es. tiroide atrofica).
In caso di sospensione degli ICI è raccomandato proseguire il monitoraggio della funzione tiroidea (TSH e FT4), poiché le disfunzioni possono manifestarsi anche a distanza di tempo. Il controllo può essere effettuato con cadenza meno frequente (ad esempio ogni 6–12 mesi o in presenza di sintomi o segni clinici suggestivi) per almeno due anni.

 

Figura 2. Flow-chart della gestione clinica delle tireopatie da inibitori dei checkpoint immunitari (ICI).
Le linee tratteggiate indicano uno scenario meno frequente rispetto alle linee continue. ↑: aumentato; N: normale; ↓: ridotto

  

Per quanto riguarda il trattamento, i casi di tireotossicosi sono per la maggior parte pauci-sintomatici e di breve durata ed è quindi sufficiente la semplice osservazione. Nella pratica clinica, monitoriamo FT4 e TSH ogni 2-3 settimane al fine di verificare la risoluzione spontanea e l’eventuale transizione verso l’ipotiroidismo.
Nei pazienti con tireotossicosi sintomatica è raccomandato l’uso dei ß-bloccanti (es. propranololo 40-80 mg/die come dose iniziale). L’utilizzo di glucocorticoidi ad alte dosi è sconsigliato, eccetto nei casi di tireotossicosi grave e sintomatica e nei rari casi di orbitopatia tiroidea. Non esistono infatti evidenze a supporto dell’efficacia terapeutica dei glucocorticoidi nel ridurre il rischio di danno tiroideo e di successivo ipotiroidismo. Tuttavia, nei casi di tireotossicosi severa, possono essere impiegati per ridurre la conversione periferica di T4 in T3. Anche i tireostatici sono impiegati raramente, considerato che la maggior parte dei casi è dovuta a ressi follicolare e non a ipersecrezione ormonale.
Nei pazienti che sviluppano ipotiroidismo conclamato, il trattamento consiste nella somministrazione di levotiroxina (LT4). Spesso, dopo la fase di tireotossicosi, si assiste ad una riduzione netta e repentina dei valori di FT4 (ed FT3) con valori di TSH anche marcatamente elevati (> 50-100 mIU/L). Pertanto, il dosaggio iniziale di LT4 deve essere quasi sostitutivo (circa 1.0-1.2 µg/kg die). In pazienti anziani con comorbilità cardiologiche si preferisce maggior cautela, utilizzando dosaggi iniziali di 25-50 µg/die di LT4. Il monitoraggio degli esami di funzione tiroidea dopo 6-8 settimane permette l’adeguamento della posologia.
Nei pazienti che invece sviluppano ipotiroidismo subclinico o comunque con valori di TSH < 10 mUI/L, si può proseguire con la semplice osservazione e rivalutare la necessità della terapia sostitutiva dopo 4-6 settimane. Analogamente, nei pazienti che sono ben compensati con un basso dosaggio di levotiroxina (< 1.0 µg/kg die) andrebbe considerata la possibile ripresa della funzione tiroidea e tentata la riduzione/sospensione della terapia.
Una considerazione importante riguarda l’eventuale sospensione degli ICI. Non esiste alcuna evidenza che tale sospensione aumenti le probabilità di recupero della funzione endocrina. Salvo in pazienti particolarmente sintomatici, la terapia con ICI può essere continuata senza dilazioni. In particolare, come anticipato precedentemente, spesso si osservano valori di FT4 e TSH marcatamente alterati (sia in casi di tireotossicosi che di ipotiroidismo) ma i pazienti sono pauci-sintomatici ed è sufficiente l’inizio di una terapia con ß-bloccanti o sostitutiva con LT4 senza dover dilazionare il trattamento oncologico (11). In caso di pazienti sintomatici con compromissione del benessere generale, può essere considerato un breve rinvio della somministrazione degli ICI (1-2 settimane), per consentire il recupero clinico ed evitare che eventuali eventi avversi di nuova insorgenza possano aggravare ulteriormente la situazione.

 

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Mattia Falchetto Osti*, Linda Agolli*, Salvatore Monti**
*Cattedra di Radioterapia, “Sapienza” Università di Roma, Facoltà di Medicina e Psicologia
** UOC di Endocrinologia – Azienda Ospedaliera S. Andrea, Facoltà di Medicina e Psicologia - “Sapienza” Università di Roma

 

L’orbitopatia di Graves (OG) è la più frequente manifestazione extra-tiroidea della malattia di Graves. E’ una patologia di origine autoimmune, caratterizzata dall’aumento di volume dei tessuti retro-orbitari. L’OG si presenta in forma severa nel 3-5% dei casi. Le opzioni di trattamento nella forma moderata-severa sono i farmaci corticosteroidei ad alte dosi, la chirurgia e la radioterapia a fasci esterni (EBRT – external beam radiotherapy) della regione orbitaria, associata o meno ai corticosteroidi per via sistemica.
La radioterapia a fasci esterni agisce con un meccanismo anti-infiammatorio aspecifico e con un meccanismo immuno-soppressivo specifico sui linfociti e sui fibroblasti localizzati nel tessuto retro-orbitario.
Il trattamento combinato (radioterapia + corticosteroidi per via sistemica) si è dimostrato essere la modalità più efficace di terapia, con tassi di risposta dal 50 al 70% dei casi. Il trattamento combinato e la radioterapia o i corticosteroidi in terapia esclusiva sono stati confrontati in due trial clinici: i risultati migliori si sono osservati con il trattamento combinato [1]. La radioterapia, come anche il trattamento con corticosteroidi, trova indicazione nella fase attiva della GO.

 

Indicazioni radioterapiche
L’intento della radioterapia a fasci esterni è quello di ostacolare la progressione di malattia e di migliorare il quadro sintomatico soggettivo e oggettivo del paziente, ma è possibile che si verifichino riesacerbazioni dell’orbitopatia anche dopo il trattamento radiante della malattia. Inizialmente, si verifica un miglioramento di natura soggettiva con riduzione dei sintomi, quali lacrimazione, diplopia, dolore oculare e fotofobia. Successivamente, migliorano i segni oggettivi, come l’edema palpebrale e l’iperemia congiuntivale. I controlli periodici con TC e RMN delle orbite post-trattamento EBRT mostrano diminuzione dell’ipertrofia dei muscoli retti, principalmente i retti inferiori e mediali [2]. Inoltre, le indagini radiologiche indicano anche una riduzione dell’attività infiammatoria dell’orbita e del volume dei tessuti molli retro-orbitari.
La radioterapia può essere impiegata anche nel trattamento delle forme moderate di GO, per migliorare principalmente la motilità oculare e la diplopia, con meno efficacia sull’esoftalmo e sui tessuti molli.
I benefici ottenuti con la radioterapia sono visibili clinicamente e radiologicamente dopo un intervallo di 6-12 mesi.

 

Tecnica radioterapica e frazionamenti
La pianificazione della terapia radiante si esegue in base alle immagini acquisite alla TC di centraggio pre-trattamento. Per l’immobilizzazione del paziente durante le applicazioni, è necessaria una maschera termoplastica personalizzata, che serve per garantire lo stesso posizionamento. La precisione del trattamento viene documentata da controlli periodici con immagini portali digitali.
Il trattamento avviene attraverso due campi laterali contrapposti, con dimensioni variabili da 4x4 a 5.5x5.5 cm, angolati di 5-10° per preservare i cristallini. Il limite superiore e inferiore del campo sono il tetto e il pavimento dell’orbita, rispettivamente; il limite anteriore e posteriore sono il canto laterale dell’occhio e l’apice del seno sfenoidale, rispettivamente.
Il tipo di frazionamento standard applicato è quello con una dose totale di 20 Gy, erogata in 10 frazioni da 2 Gy al giorno per 2 settimane. Esistono altri frazionamenti, come il trattamento ipofrazionato protratto, eseguito in 10 frazioni settimanali da 1 Gy per una dose totale di 10 Gy e durata totale di 10 settimane.
Uno studio randomizzato ha confrontato diversi tipi di frazionamento (1 Gy settimanale per 20 settimane per una dose totale di 20 Gy vs. 1 Gy al giorno per 2 settimane per una dose totale di 10 Gy vs. 2 Gy al giorno per 2 settimane per una dose totale di 20 Gy), dimostrando risultati clinici simili con migliore tolleranza per i regimi protratti [3].
L’OG è caratterizzata da ricadute frequenti e per tale motivo la radioterapia deve assicurare una copertura del target estremamente efficace, con maggior risparmio degli organi a rischio. Le nuove tecniche radioterapiche come l’IMRT (radioterapia a intensità modulata) possono essere utilizzate in studi prospettici o randomizzati futuri per verificare il tasso di risposta e gli effetti avversi.

 

Tossicità
Il quadro clinico della malattia si può aggravare durante la radioterapia.
Gli effetti avversi acuti più frequenti sono l’aumento della lacrimazione e la comparsa di congiuntivite acuta che si risolve di solito a pochi giorni dalla fine dell’EBRT.
Le tossicità tardive radioterapie-correlate sono la retinopatia, la cataratta e probabili secondi tumori [4]. La cataratta è la complicanza più frequente, presente in circa 10% dei casi trattati, ed è tipicamente polare posteriore. La retinopatia è una complicanza rara, riportata generalmente dopo 6-36 mesi dalla fine della radioterapia. La radioterapia della regione orbitale è controindicata nei pazienti affetti da diabete o ipertensione severa, quando i segni della retinopatia sono presenti prima dell’irradiazione. Finora, non è stata riportata nessuna patologia neoplastica nel distretto testa-collo legato al trattamento radioterapico, anche se è necessario un lungo follow-up; è opportuno pertanto utilizzare molta cautela nel trattare soggetti di età inferiore a 35 anni.

 

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Gregorio Reda1 & Palma Dicorato2
1Endocrinologia, Ospedale Pertini, Roma
2Endocrinologia ASL, TA-Martina Franca

 

 

Meccanismo d’azione
Legame ai recettori degli ormoni tiroidei dopo trasformazione nell’ormone attivo T3.

 

Proprietà farmacocinetiche
Assorbita in modo incompleto nel tratto superiore dell’intestino tenue. Il suo legame con le proteine plasmatiche è quasi completo e la quota libera è solo dello 0.05%. Il tempo di dimezzamento è di circa 7 giorni e ciò giustifica la possibilità di prescrivere dosaggi personalizzati, con dosi variabili anche nei giorni della settimana per ottenere il valore di TSH programmato.
Mentre la levotiroxina in compresse richiede la fase di dissoluzione con conseguente più lento assorbimento e maggiore interferenze con il cibo ed il pH gastrico, le gocce, la soluzione monodose e le capsule molli, nelle quali il principio attivo è già in soluzione, hanno migliore e più rapido assorbimento con minori interferenze con il cibo e il pH gasrtico

 

Preparazioni, via di somministrazione, posologia

Compresse:

  • Eutirox: 25, 50, 75, 88, 100, 112, 125, 137, 150, 175, 200 µg (da maggio 2021 sono stati modificati gli eccipienti per rendere il principio attivo più stabile: è stato sostituito il lattosio mono-idrato con mannitolo, aggiunto acido citrico, modificato il quantitativo di amido di mais e magnesio stearato)
  • Levotiroxina ABDI: 25, 50, 75, 100, 150 µg
  • Levotiroxina Aristo: 25, 50, 100, 200 µg
  • Levotiroxina DOC: 25, 50, 100, 125, 150, 200 µg
  • Levotiroxina Teva: 25, 50, 75, 100, 125, 150, 175, 200 µg

Gocce:

  • Tirosint: 100 µg/mL (1 goccia = 3.57 µg).

Soluzione orale:

  • in contenitori monodose da 1 mL:
    • Tirosint: 25, 50, 75, 100 µg/mL;
    • Levotirsol: 13, 25, 50, 75, 88, 100, 112, 125, 137, 150, 175, 200 µg/mL
  • in siringa graduata (5 mL): Tifactor: 100 (20 µg/mL), 50 (10 µg/mL), 25 (5 µg/mL)

Capsule molli:

  • Tiche: 13, 25, 50, 75, 88, 100, 112, 125, 137, 150, 175, 200 µg

 

Indicazioni
Ipotiroidismo, gozzo.

 

Contro-indicazioni
Ipertiroidismo

 

Effetti collaterali
Quasi esclusivamente legati ad un eccessivo dosaggio del farmaco (tachicardia, sudorazione, cefalea, irritabilità, ecc).
Da notare che Eutirox, ma non Tirosint, contiene lattosio.

 

Interazioni con altri farmaci
Numerosi farmaci e sostanze interferiscono con l’assorbimento e l’attività della levotiroxina. In particolare, l’effetto può essere ridotto da farmaci contenenti alluminio, ferro, calcio carbonato, da inibitori di pompa protonica, barbiturici e anti-epilettici, sertralina, clorochina/proguanil, composti contenenti soia.
Può determinare un potenziamento dell’effetto degli anti-coagulanti orali.

 

 

Caratteristiche delle formulazioni disponibili di tiroxina
Nome commerciale Formulazione Dosaggi Eccipienti Rimborsabilità SSN
Eutirox Compresse rivestite 25 μg, 50 μg, 75 μg, 88 μg, 100 μg, 112 μg, 137 μg, 150 μg, 175 μg, 200 μg Amido di mais, acido citrico, gelatina, croscarmellosa sodica, magnesio stearato, mannitolo Sì (escluse formulazioni da 88 μg, 112 μg, 137 μg)
 Levotirsol Soluzione orale in contenitore mono-dose 13 μg, 25 μg, 50 μg, 75 μg, 88 μg, 100 μg, 112 μg, 125 μg, 137 μg, 150 μg, 175 μg, 200 μg Glicerolo 85%
 Tiche Capsule molli 13 μg, 25 μg, 50 μg, 75 μgg, 88 μg, 100 μg, 112 μg, 125 μg, 137 μg, 150 μg, 175 μg, 200 μg Gelatina, glicerolo, acqua depurata No
 Tifactor Soluzione orale 2 flaconi da 75 mL (100 μg/5 mL) Glicerolo, acido citrico monoidrato, metil-paraidrossi-benzoato di sodio (E219), idrossido di sodio, acqua purificata
Tirosint Gocce orali 20 mL (100 μg/mL): 1 goccia contiene 3.57 μg Etanolo 96%, glicerolo 85%
Soluzione orale in contenitore mono-dose 25 μg, 50 μg, 75 μg, 100 μg

 

 

 

Utilizzo in situazioni particolari
In età pediatrica: utilizzare le gocce o la soluzione orale in contenitori monodose. Non aggiungere il farmaco nel biberon perchè potrebbe aderire alle pareti.
Nei pazienti con difficoltà a deglutire le compresse: usare le gocce o la soluzione orale in flaconi monodose.
Nei pazienti in coma (in generale ed in coma ipotiroideo in particolare): somministrare il farmaco attraverso il sondino naso-gastrico.
Uso parenterale (in Italia non esiste una preparazione commerciale): utilizzare una preparazione galenica seguendo le seguenti istruzioni (da Fabrizio Monaco,"Prontuario di Terapia Endocrina e Metabolica" SEU Editore, 2006):

  1. pesare la levotiroxina su garza sterile
  2. dissolvere la polvere in 2-3 gocce di NaOH 0.1 N in beaker sterile
  3. diluire la soluzione con 4-5 mL di NaCl 0.9% sterile, contenente albumina 1%
  4. filtrare attraverso un filtro Millipore sterile di 0.22 µm
  5. neutralizzare la soluzione a pH 7.4
  6. iniettare ev lentamente in non meno di 2 minuti.

 


LIOTIRONINA

Meccanismo d’azione
Legame diretto ai recettori degli ormoni tiroidei

 

Proprietà farmacocinetiche
Più rapidamente assorbito rispetto alla levotiroxina, ha un picco plasmatico a 2-4 ore ed un’emivita di circa un giorno.

 

Preparazioni, via di somministrazione, posologia

  • gocce orali in soluzione da 5, 10, 15, 20 µg/mL: Liotir

 

Indicazioni terapeutiche
Ipotiroidismo in pazienti che non rispondono adeguatamente alla sola somministrazione di levotiroxina (deficit di desiodasi, insufficienza renale cronica, ecc.), in preparazione a trattamento con radio-iodio nei pazienti operati per carcinoma tiroideo.

 

Effetti collaterali
Quasi esclusivamente legati ad un eccessivo dosaggio del farmaco (tachicardia, sudorazione, cefalea, irritabilità, ecc).

 

Limitazioni prescrittive
Classe di prescrivibilità: A
Nei pazienti in coma ipotiroideo, in genere, ne è sconsigliato l'uso, poichè la rapidità ed intensità di azione potrebbero innescare aritmie cardiache anche letali.

 


PRODOTTI DI COMBINAZIONE (levotiroxina sodica + liotironina) ed estratti tiroidei non sono più in commercio

Stampa

Giuseppina Fini, Elidon Mici, Ludovica Marcella Ponzo, Carmela Maria Pia Scannavino, Pasquale Virciglio, Francesco Ricotta
Cattedra di Chirurgia Maxillo-Facciale, Dipartimento NESMOS, Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma

 

 

Premesse e storia

Dollinger1 nel 1911 descriveva il primo intervento di decompressione orbitaria per il trattamento di un esoftalmo, eseguito utilizzando un’orbitotomia laterale secondo la tecnica che Kronlein nel 18892 aveva codificato per rimuovere una neoplasia orbitaria; l’entità della decompressione risultava comunque modesta.
Per molti anni, la tecnica descritta da Walsh-Ogura nel 19573, consistente nell’abbattimento della parete laterale e del pavimento orbitario, è stata il gold standard per la decompressione orbitaria. Nel 1990 Kennedy e colleghi4 riportavano l’esperienza dei primi interventi endoscopici trans-nasali. Da allora, sono state sviluppate numerose tecniche chirurgiche per ottenere una decompressione ottimale: abbattimento del pavimento orbitario5, della parete mediale dell’orbita6, combinazione di queste3,7, della parete laterale1,2, osteotomia del malare associata a depressione delle pareti mediale e inferiore8,9, abbattimento di tre pareti10,11, di quattro12-14, rimozione del grasso orbitario, e rimozione della porzione laterale del pavimento orbitario15 e della parete laterale insieme alla mobilizzazione della cornice orbitaria laterale16. Il tutto mediante l’ausilio di tecniche classiche o endoscopiche17,18. La moltitudine di tecniche disponibili (circa 18 secondo uno studio condotto dall’EUGOGO19) è testimone del fatto che nessuna si è dimostrata nettamente superiore all’altra o comunque che una tecnica può essere considerata migliore nella risoluzione di alcune condizioni piuttosto che in altre.
Qualsiasi tecnica venga presa in considerazione, l’entità della riduzione della proptosi è funzione del numero di pareti coinvolte nel trattamento chirurgico20, dell’entità dell’esoftalmo precedente l’intervento e del numero e grandezza delle incisioni eseguite sulla peri-orbita21. Inoltre, quando le varie metodiche chirurgiche, prese singolarmente, non sono sufficienti per la correzione della protrusione oculare è possibile effettuarle in combinazione. Possiamo riassumere che tali metodiche associabili tra loro siano in ordine di invasività e complessità: lipectomia, decompressione orbitaria, espansione orbitaria.
Quattro sono i principali approcci cutanei: coronale, sovra-palpebrale, sotto-palpebrale, cantotomia mediale e/o laterale.

 

Incisione bicoronale

       Figura 1. Incisione Bicoronale  

     

Incisione trans-palpebrale, è possibile effettuarla sia inferiormente che superiormente

Figura 2. Incisione Trans-palpebrale

 

Cantotomia mediale

Figura 3. Cantotomia mediale

 

Approccio transpalpebrale inferiore

Figura 4. Aspetto intra-operatorio accesso trans-palpebrale inferiore


 

Rimozione del grasso intra-orbitario

Nel 1964 Rundle iniettò della paraffina nello spazio retro-bulbare di un cadavere. Questo determinò il riscontro di una proptosi di 6 mm dopo l’iniezione di circa 4 cc di paraffina. Studi successivi hanno messo in evidenza che il grasso intra-orbitario raggiunge un volume di circa 8 cc negli individui sani, mentre aumenta a circa 10 cc nei soggetti con orbitopatia di Graves. Questo suggerì ad Olivari che la riduzione del grasso intra-orbitario avrebbe prodotto una correzione significativa nei pazienti con orbitopatia tiroidea, oltre a determinare una decompressione del nervo ottico spesso coinvolto dall’aumento di tale tessuto. Olivari fu il primo a pubblicare i risultati chirurgici di 147 procedure dal 1991: a una asportazione media di grasso orbitario asportato di circa 6 cc si associava una riduzione dell’esoftalmo di circa 5.9 mm; l’acuità visiva veniva ripristinata in 6/10 pazienti con visione compromessa pre-operatoriamente.
In una pubblicazione più recente è stato descritto che il 40% del grasso orbitario poteva essere prelevato dal quadrante infero-laterale, il 25% dal quadrante infero-mediale, il 20% dal quadrante supero-mediale e il 15% da quello supero-laterale. L’utilizzo di questa tecnica è controindicato in pazienti che hanno effettuato radioterapia pre-operatoria, a causa della fibrosi indotta da tale metodica che inficia sul risultato finale del trattamento chirurgico nella gran parte dei casi (maggior incidenza di complicanze intra-operatorie e risultato estetico meno soddisfacente).

 

Percentuali grasso orbitario da rimuovere

Figura 5. Percentuali di prelievo grasso peri-orbitario

 


Decompressione orbitaria 

Può essere effettuata sia con tecnica open che in endoscopia, attraverso l’abbattimeno di una o più pareti orbitarie (generalmente non più di tre). La tecnica di Van der Wall, basata sull’abbattimente del pavimento, della parete mediale e laterale, risulta essere senz’altro la più utilizzata. Tuttavia ad oggi preferiamo usufruire di una modifica alla tecnica stessa, provvedendo ad effettuare un abbattimento più limitato del pavimento, della parete mediale e della parete laterale, diminuendo drasticamente la percentuale di pazienti con strabismo post-operatorio.

 

                                     tecnica di Van der Wall, abbattimento pavimento orbitario, parete mediale e laterale                         

Figura 6. Tecnica di Van der Wall

 

Van der Wall modificata, abbattimento pavimento, parete mediale, e solo parte della parete laterale

Figura 7. Tecnica di Van der Wall modificata: notare l'abbattimento del pavimento e solo di parte della   parete mediale e laterale

                            


L’ausilio del trapano piezo-elettrico

Le sostanze piezoelettriche hanno la capacità di essere deformate, quando sono immesse in un campo elettrico. Se la polarità del campo cambia periodicamente, questi materiali iniziano a vibrare. Le vibrazioni ad ultrasuoni possono essere trasmesse a diversi materiali, solidi, liquidi o gassosi. Questa proprietà viene utilizzata in scaler a ultrasuoni con una frequenza funzionale di circa 20 kHz. L'aggiunta di un impulso a 50 kHz ogni 10 ns a questa frequenza basale aumenta la potenza del dispositivo ricevente, che permette di tagliare le ossa senza danneggiare i tessuti molli22. La chirurgia piezoelettrica è una tecnica poco invasiva che riduce il rischio di danni ai tessuti molli circostanti e a strutture importanti come nervi, vasi e mucosa. Si riducono anche i danni agli osteociti e consente una buona sopravvivenza delle cellule ossee durante la osteotomia. La chirurgia piezoelettrica è stata per la prima volta utilizzata da chirurghi maxillo-facciali per le osteotomie, ma di recente sono state proposte alcune applicazioni in neurochirurgia, otorinolaringoiatria e ortopedia23. I vantaggi nell’utilizzo di questo strumento sono quindi: alta precisione dell’osteotomia, minore emissione di calore al taglio con minore traumatismo sulle superfici ossee, preservazione delle strutture vascolari e nervose profonde, rapido recupero funzionale.

 

Trapano Piezoelettrico

Figura 8. Trapano piezo-elettrico

 


Innesto di fibro-mucosa palatale

Tale metodica chirurgica viene applicata qualora residui la ptosi palpebrale residua dovuta all’esoftalmo. Lo scopo dell’innesto è quello di dare maggior spessore e consistenza alla palpebra ptosica (molto spesso quella inferiore), prelevando un frammento di fibromucosa palatale (area donatrice), e applicandolo a livello della congiuntiva palpebrale opportunamente preparata. I risultati estetici sono decisamente soddisfacenti, gravati da una bassissima percentuale di complicanze post-operatorie (mancato attecchimento dell’innesto, posizionamento erroneo, infezione dell’area donatrice).

 


Complicanze

Sulla base dell’osservazione che il paziente affetto da esoftalmopatia, che si sottopone a intervento chirurgico di decompressione orbitaria, non avverte particolare dolore nella prima ora post-intervento, ogni dolore che insorge prematuramente viene considerato anomalo e allarmante. Le complicanze immediate generalmente si manifestano nella prima ora successiva al trattamento chirurgico: chemosi congiuntivale, edema palpebrale, enoftalmo, erniazione del muscolo temporale, ematoma retro-bulbare responsabile di una cefalea importante, proptosi di nuova insorgenza; a queste possono aggiungersi altre condizioni patologiche, come l’ostruzione del seno mascellare dovuta all’erniazione del contenuto orbitario nel seno stesso o la compromissione transitoria o permanente del nervo sovra-orbitario e/o sotto-orbitario imputabile a una contusione iatrogena. Complicanze maggiori sono rappresentate invece da cecità, rottura della dura madre e meningite post-operatoria. Considerando invece la complicanza che più di frequente viene descritta in letteratura, non possiamo non soffermarci sulla comparsa o il peggioramento della diplopia 20,24,3. Walsh e Ogura riscontrarono un peggioramento della diplopia nel 33% dei casi3 e Garrity et al riportarono un 64% di nuove diplopie in un’ampia casistica di pazienti operati per via trans-antrale20. Per quanto riguarda la tecnica con approccio coronale, Mourits riporta percentuali variabili dal 3.2% al 10%, fino al 34%, in relazione al grado di miopatia presente25. È stato comunque evidenziato che a una maggiore riduzione della proptosi, indipendentemente dalla tecnica utilizzata, corrisponde una maggiore percentuale di comparsa o peggioramento della diplopia. La patogenesi di questa complicanza viene attribuita a un'espansione asimmetrica del contenuto orbitario: la rimozione del pavimento, infatti, permette di ottenere uno spazio ampio all’interno del quale andrà ad erniare il contenuto orbitario, ma è causa di uno spostamento verso il basso del bulbo e del muscolo retto inferiore, dovuti proprio alla perdita del sostegno strutturale offerto dalla struttura ossea stessa; la rimozione della parete mediale provoca altresì uno spostamento in questo senso del bulbo e del muscolo retto mediale, con conseguente perdità di simmetricità. Lo spostamento dei muscoli retti mediale ed inferiore, senza alcuna variazione di posizione di quello laterale giustifica lo strabismo convergente o verticale. Se invece i muscoli retto mediale o laterale subiscono uno spostamento simmetrico rispetto all’asse dell’orbita, l’effetto sulla motilità viene attenuato26.

 

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Figura 9. Paziente 1 pre (sinistra) e post (destra)                                                                           

 

 

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Figura 10. Paziente 2 pre (sinistra) e post (destra)   

       


Bibliografia

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