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Maria Rosaria Ambrosio, Mariella Celico
Sezione di Endocrinologia, Dipartimento di Scienze Biomediche e Terapia Avanzate, Università degli Studi di Ferrara

(aggiornato al 21 febbraio 2017)

 

Introduzione
L’esercizio fisico è uno dei fattori maggiormente condizionanti il sistema endocrino; infatti, esso rappresenta per l’organismo un evento “stressante”, che innesca una serie di risposte fisiologiche e adattative, al fine di garantire l’equilibrio funzionale dell’organismo. Tali risposte sono finalizzate, in una prima fase, a garantire il corretto svolgimento dell’esercizio stesso e, in un secondo momento, a ottimizzare il recupero dopo l’attività fisica.
Quando si pratica un esercizio fisico di sufficiente intensità, il sistema neuroendocrino viene attivato nell’arco di frazioni di secondo, provocando modificazioni quantitative e/o qualitative della secrezione e/o del metabolismo ormonale e/o della sensibilità recettoriale agli ormoni. Anche possibili variazioni delle proteine di trasporto o dell’osmolarità plasmatica (emodiluizione o emoconcentrazione) possono causare variazioni nelle concentrazioni ormonali.
Si possono distinguere due tipi di risposta neuroendocrina all’esercizio fisico:

  • risposta ormonale all’esercizio fisico acuto, inteso come ben circostanziato nel tempo e con durata da pochi secondi a alcune ore;
  • risposta ormonale all’esercizio fisico cronico (allenamento), inteso come ripetizione programmata e continuata nel tempo di singole sedute di esercizi fisici acuti.

Nell’esercizio acuto le modificazioni ormonali sono transitorie e si verificano in stretto rapporto temporale con la pratica dell’esercizio stesso (prima, durante e dopo). In particolare, si assiste a un incremento della concentrazione ematica degli ormoni dello stress, che vengono rilasciati più o meno rapidamente (secondi o minuti), in base al tipo di ormone e al tipo di esercizio svolto, e che tornano a livelli basali in fase di recupero (1 o 2 ore dopo l’esercizio). Negli atleti queste variazioni ormonali possono avvenire anche prima dell’inizio di un esercizio o di una gara, configurando la cosiddetta “reazione anticipatoria”. La concentrazione di altri ormoni invece, come ad esempio l’insulina, in genere si riduce. Tale risposta ormonale acuta è fondamentale per garantire la disponibilità di substrati energetici e l’ottimizzazione dei processi metabolici, l’attivazione del sistema nervoso centrale, l’adattamento dell’apparato cardiovascolare, l’equilibrio idrosalino, la termoregolazione, le modificazioni comportamentali.
Nell’allenamento, invece, si assiste a un processo costante e progressivo di adattamento biologico, che comporta modificazioni ormonali di tipo stabile. Un atleta allenato presenta uno stato ormonale basale diverso da quello dello stesso soggetto non allenato. Inoltre si modificano anche le caratteristiche della risposta ormonale a un esercizio fisico acuto. In linea generale si assiste a una ridotta secrezione degli ormoni dello stress in risposta allo stesso carico di lavoro acuto, probabilmente perché lo stesso esercizio viene vissuto come meno stressante. Quando l’attività motoria cronica svolta è eccessiva (overtraining), si assiste a una risposta ormonale anomala, eccessiva o insufficiente, con ripercussioni sulla salute e sulla performance dell’atleta.
La risposta ormonale all’esercizio fisico può essere influenzata da numerosissime variabili, sia correlate all’individuo (genetica, età, sesso, ritmi biologici, stato nutrizionale, grado di allenamento, assunzione di farmaci o integratori, patologie pregresse o in atto) che all’attività fisica (tipo, intensità e durata dell’esercizio, condizioni ambientali). Per studiare le caratteristiche della risposta ormonale all’esercizio fisico è pertanto fondamentale cercare di standardizzare il più possibile queste condizioni e descrivere l’esercizio svolto in termini di tipo, durata e intensità (quest’ultima espressa in genere come consumo di ossigeno relativo, in termini di percentuale del massimo consumo individuale di O2, VO2 max); in alcuni casi, tuttavia, questo può essere difficile, come ad esempio nel caso della valutazione del carico di lavoro in uno sport di squadra.
Pertanto, per la notevole quantità di variabili e la difficoltà nella standardizzazione delle procedure sperimentali, è spesso difficile confrontare i lavori scientifici pubblicati e ottenere un numero di studi adeguato per ogni singolo sport o atleta. Questo può spiegare anche la discrepanza che talora si riscontra nei vari studi. Tuttavia, le caratteristiche generali di risposta ormonale possono essere inquadrate in alcune linee generali (tabella).

 

Modificazioni ormonali durante attività sportiva
  Esercizio fisico acuto Allenamento
GH ↑/=/↓
IGF-1 ↑/= ↑/=/↓
Catecolamine ↑/=/↓
ACTH ↑/=/↓
Cortisolo ↑/=/↓
TSH ↑/=/↓ ↑/=/↓
T3 - T4 ↑/=/↓ ↑/=/↓
LH - FSH ↑/=/↓ =/↓
Testosterone ↑/=/↓ =/↓
Estradiolo ↑/=/↓ =/↓
Insulina

 

 

Asse GH-IGF-1
L’esercizio fisico è uno dei più potenti stimoli fisiologici per la secrezione di ormone della crescita (GH). Durante un esercizio fisico acuto, i livelli di GH aumentano dopo 10-20 minuti dall’inizio, raggiungendo il picco alla fine dell’esercizio e rimanendo elevati fino a 2 ore dopo.
L’incremento dei livelli di GH:

  • correla positivamente con la durata e in particolare con l’intensità dell’esercizio svolto (la soglia minima per stimolarne la secrezione è pari al 30-50% della VO2 max, con una risposta massimale al 70% della VO2 max);
  • è maggiore con esercizi di resistenza, specie se intermittenti, ed è influenzata dal tipo di risposta muscolare richiesta;
  • è condizionato dall’età (inferiore nei soggetti più anziani), dal sesso (le donne hanno livelli basali più alti ma non sono state osservate differenze nella risposta all’esercizio fisico) e dalla composizione corporea (essendo minore nei soggetti con maggiore massa grassa).

Gli effetti dell’allenamento sulla secrezione di GH sono controversi, in quanto può amplificare la secrezione pulsatile di GH ma diminuirne la risposta a un esercizio fisico acuto. Tuttavia, i valori di GH a riposo non sono differenti nel soggetto allenato rispetto a quello non allenato.
Altrettanto controversi sono i risultati riguardanti l’insulin-like growth factor-1 (IGF-1). Alcuni studi non evidenziano modificazioni acute dei livelli circolanti di IGF-1 dopo attività fisica, altri invece ne riscontrano un aumento. L’assenza di variazione nei primi potrebbe essere spiegata dal tempo di latenza tra la secrezione di GH e quella di IGF-1 da esso stimolata. Anche nei pazienti allenati sembra esserci un aumento dei livelli circolanti di IGF-1. In seguito a esercizio fisico è stato dimostrato inoltre un aumento dell’espressione dell’IGF-1 a livello muscolare, con azione autocrina e/o paracrina, la cui secrezione appare indipendentemente dall’aumento sistemico del GH.

 

Sistema adrenergico
Adrenalina e noradrenalina, prodotte sia dal sistema nervoso autonomo che dalla midollare del surrene, sono i primi ormoni in ordine di tempo a modificarsi in occasione di un esercizio fisico acuto (1-2 minuti); raggiungono rapidamente un picco di concentrazione nel sangue pari a 5-10 volte i livelli basali e ritornano alla normalità nell’arco di circa 10-20 minuti. Negli atleti a volte possono aumentare anche prima dell’esecuzione dell’esercizio fisico per lo stress psichico associato (“secrezione anticipatoria”). L’entità dell’aumento è influenzata in particolare dall’intensità dell’esercizio: all’aumentare della VO2 aumentano anche i valori delle due catecolamine, mostrando un brusco incremento per carichi di lavoro > 65-70% della VO2 max (relazione non lineare). La secrezione di catecolamine in risposta a un esercizio fisico acuto è funzione anche dell’età (inferiore nei soggetti più anziani), del sesso e della condizione in cui si pratica l’esercizio (temperatura, altitudine, postura, …).
L’allenamento non sembra modificare i livelli basali di catecolamine. Tuttavia, nel soggetto allenato la secrezione di noradrenalina dopo un esercizio fisico acuto può risultare ridotta rispetto allo stesso soggetto non allenato. Ciò è probabilmente legato sia al miglioramento della condizione di “fitness” generale, che permette di sostenere lo stesso carico di lavoro con minore sforzo, sia al miglioramento della responsività individuale a uno stress. Infatti, considerando lo sforzo massimale di un individuo, i valori massimi di noradrenalina non differiscono tra il soggetto allenato e quello non allenato. Per quanto riguarda l’adrenalina, invece, è stata osservata una maggior capacità secretoria nel soggetto allenato sia in risposta all’esercizio fisico che ad altri stimoli. Questo fenomeno, detto “midollare sportiva”, è il risultato di un adattamento a lungo termine delle ghiandole surrenali, verosimilmente legato a un aumento di volume della midollare stessa.

 

Asse ipotalamo-ipofisi-surreni (HPA)
In seguito a un esercizio fisico acuto si osserva un immediato aumento dei livelli di CRH e ADH, seguito entro pochi minuti dall’aumento dell’ACTH, al quale segue nell’arco di circa 10-20 minuti un innalzamento dei livelli di cortisolemia. L’attivazione HPA è correlata allo stress psichico e metabolico (ipoglicemia) che accompagna l’esercizio e all’attivazione del sistema nervoso autonomo. L’entità di queste variazioni è proporzionale all’intensità e alla durata dell’esercizio svolto, essendo necessari almeno un consumo del 60% della VO2 max per 20 minuti o del 100% della VO2 max per 1 minuto, e al tipo di esercizio, essendo maggiore per quelli di tipo anaerobico. Ulteriori variabili sono l’età (i valori massimi di cortisolo dopo esercizio fisico tendono a ridursi con l’invecchiamento), lo stato nutrizionale (l’uso di integratori può ridurre lo stato di relativa ipoglicemia), l’altitudine (i valori basali di cortisolo sono più elevati), il momento della giornata (al mattino si registrano i valori massimi di cortisolo in termini assoluti, tuttavia nelle ore serali è più marcato l’aumento percentuale rispetto al basale).
L’allenamento può comportare una riduzione della sensibilità periferica ai glucocorticoidi, come evidenziato dal riscontro in alcuni studi di normali livelli di cortisolo con aumentati livelli di ACTH. Negli atleti si può inoltre osservare una riduzione della risposta del cortisolo in risposta a un esercizio fisico acuto. Al contrario, nei casi di overtraining si può assistere a un aumento dei valori basali di cortisolo e nei casi più estremi anche a un’alterazione del ritmo circadiano.

 

Asse ipotalamo-ipofisi-tiroide (HPT)
È noto che le disfunzioni tiroidee (ipotiroidismo e ipertiroidismo) alterano significativamente la performance fisica; a fronte di ciò, l’effetto dell’esercizio fisico sugli ormoni tiroidei sembra essere assai ridotto. Il ruolo degli ormoni tiroidei durante l’esercizio fisico sembra essere essenzialmente permissivo nei confronti degli altri ormoni.
Gli effetti dell’esercizio fisico acuto sugli ormoni tiroidei sono comunque contrastanti: a seconda delle caratteristiche dell’esercizio, sono stati riportati sia un aumento che una diminuzione dei livelli di T4, T3 e TSH.
Anche l’allenamento non sembra modificare la funzionalità tiroidea. Tuttavia, in atleti sottoposti a intenso e prolungato allenamento, tale da indurre un bilancio energetico negativo, si può osservare il quadro della “sindrome da bassa T3”.

 

Asse ipotalamo-ipofisi-gonadi (HPG)
L’esercizio fisico acuto può essere associato a un incremento, una riduzione o una non variazione delle concentrazioni delle gonadotropine in circolo, in funzione delle caratteristiche dell’esercizio svolto. I dati disponibili in letteratura non sono univoci, tuttavia è di comune riscontro una riduzione dei picchi di LH. Altrettanto poco chiare sono le modificazioni della funzione ormonale ovarica. Nell’uomo, invece, è noto che i livelli di testosterone aumentano durante l’esercizio acuto, verosimilmente per il suo ruolo nei processi anabolici e per modulare l’aggressività necessaria per far fronte allo sforzo, per poi ridursi nella fase di recupero e consentire il ripristino delle riserve energetiche replete. Anche in questo caso le caratteristiche dell’esercizio rivestono un ruolo primario, in quanto tali modificazioni sono più evidenti quanto maggiore è l’intensità dell’esercizio stesso.
In corso di allenamento, invece, le alterazioni dell’asse HPG sono molto più significative e con implicazioni cliniche maggiori, specie nella donna. In generale in entrambi i sessi si osserva una soppressione dell’attività gonadica (il cosiddetto “ipogonadismo dell’atleta”); lo stress fisico di per sé agisce a livello centrale, comportando un aumento del tono inibitorio degli oppioidi, con conseguente riduzione della secrezione di GnRH e a seguire di LH e FSH, di tipo quantitativo ma soprattutto qualitativo. La minore frequenza e ampiezza dei picchi esita in una ridotta produzione di ormoni sessuali da parte delle gonadi. L’inibizione dell’asse gonadico è inoltre fortemente condizionata dalla qualità e quantità dell’introito energetico e della composizione corporea: infatti, bassi livelli di leptina e alti livelli di ghrelina, tipici di chi presenta poca massa grassa, possono sopprimere a livello centrale l’asse gonadico. Inoltre, l’azione sfavorevole dell’attività fisica sull’apparato riproduttivo si realizza in misura minore anche per l’azione di altri ormoni coinvolti nella risposta allo stress fisico, quali cortisolo e catecolamine, e può essere influenzata anche dall’eventuale assunzione di sostanze illecite (doping). A livello clinico, nelle donne che praticano regolarmente attività sportiva si riscontrano fino al 60-70% dei casi disordini del ciclo mestruale (anovularietà, deficit della fase luteale, oligo-amenorrea) in relazione a tipo, intensità e durata dell’attività sportiva e alle modifiche della composizione corporea. Nelle donne è frequente la cosiddetta “triade dell’atleta”, caratterizzata da amenorrea ipotalamica funzionale, disturbi del comportamento alimentare e osteoporosi. Tali alterazioni possono essere reversibili con l’aumento dell’introito calorico e la riduzione dell’attività sportiva. Negli atleti uomini, pur riscontrandosi livelli di testosterone più bassi, è meno frequente riscontrare un quadro di franco ipogonadismo e ancora più raro rilevare modificazioni del liquido seminale e della spermatogenesi imputabili esclusivamente all’attività sportiva.

 

Insulina
I livelli di insulina si riducono in risposta all’esercizio fisico, comportandosi in maniera opposta agli ormoni contro-regolatori. Inoltre, l’attività fisica ha un’azione insulino-mimetica, determinando un aumento dell’espressione di GLUT4 a livello della membrana cellulare e facilitando la captazione di glucosio all’interno delle cellule. Questo miglioramento della sensibilità insulinica, essendo legato all’esercizio fisico stesso, è indipendente dall’eventuale variazione del peso corporeo, pur essendo questo un fattore contribuente. Tali modificazioni sono presenti sia dopo esercizio fisico acuto (più spiccate nelle ore immediatamente successive, per poi recedere completamente in 72 ore) che nel soggetto allenato. In quest’ultimo caso, però, i benefici risultano più stabili, con conseguente miglioramento del profilo glicemico e riduzione delle richieste di insulina. L’entità del miglioramento della sensibilità insulinica è dipendente dall’intensità e dal tipo di esercizio, essendosi dimostrata maggiore nel caso di esercizi di tipo aerobico o combinati (aerobico e di resistenza). Tuttavia, esso è presente per qualsiasi tipo di attività fisica, anche non strutturata, che comporti un dispendio energetico per un minimo di 30 minuti per 5 volte la settimana, con implicazioni cliniche rilevanti, in particolare nel paziente diabetico o con sindrome metabolica.

 

Bibliografia

  1. Lenzi A, Lombardi G, Martino E, Trimarchi F. Endocrinologia e attività motorie. Elsevier Ed. 2008.
  2. Monaco F. Endocrinologia clinica. Società Editrice Universo 2011
  3. Gibney J, et al. The growth hormone/insulin-like growth factor-I axis in exercise and sport. Endocr Rev 2007, 28: 603-24.
  4. Zouhal H, et al. Catecholamines and the effects of exercise, training and gender. Sports Med 2008, 38: 401-23.
  5. Kraemer WJ, et al. Hormonal responses and adaptations to resistance exercise and training. Sports Med 2005, 35: 339-61.
  6. Janssen J. Impact of physical exercise on endocrine aging. Front Horm Res 2016, 47: 68-81.
  7. Maimoun L, et al. Endocrine disorders in adolescent and young female athletes: impact on growth, menstrual cycles and bone mass acquisition. J Clin Endocrinol Metab 2014, 99: 4037-50.
  8. Mann S, et al. Changes in insulin sensitivity in response to different modalities of exercise: a review of the evidence. Diabetes Metab Res Rev 2014, 30: 257-68.
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Alessandro Scoppola
IDI-IRCCS, Roma

(aggiornato al 21 febbraio 2017)

 

La relazione tra sport e ormoni è biunivoca: il sistema endocrino regola l’omeostasi del corpo umano durante l’esercizio fisico, e a sua volta, l’esercizio fisico rappresenta un potente modulatore della funzionalità del sistema endocrino. Patologie del sistema endocrino, pertanto, possono comportare sia un calo delle prestazioni, quanto un cambiamento importante nella salute di numerosi organi e sistemi. A titolo indicativo, nella tabella seguente, sono illustrate le relazioni tra i più importanti elementi costituenti la performance sportiva, massa muscolare, metabolismo energetico, integrità psico-fisica e le più frequenti endocrinopatie.

 

Tabella 1
Massa muscolare Metabolismo energetico Integrità psico-fisica
sono influenzati negativamente da
Deficit di GH
Ipercortisolismo
Deficit di vitamina D
Ipocortisolismo
Ipotiroidismo
Iperprolattinemia
Ipertiroidismo
Ipocortisolismo
Ipotiroidismo
Ipercortisolismo
Diabete mellito
Deficit di GH
Ipertiroidismo
Ipopituitarismo post-traumatico
Ipotiroidismo
Ipercortisolismo
Deficit di GH
Ipogonadismo
Ipocortisolismo
Ipertiroidismo
Ipopituitarismo post-traumatico

 

 

Asse GnRH-Gn-testicolo nell’attività fisica
La concentrazione del testosterone può influenzare favorevolmente la composizione corporea (sviluppo muscolare, massa grassa e densità minerale ossea), la maturazione e la funzione del sistema nervoso centrale (processi cognitivi, aggressività), importanti processi metabolici coinvolgenti il metabolismo del glucosio, dell’insulina e della leptina, la contrazione muscolare, l’eritropoiesi e l’adattamento allo stress.
Le variazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-testicolo indotte dall’esercizio fisico, possono in diversi modi, modificare significativamente molte delle funzioni sovra-riportate (1).
Le concentrazioni di testosterone totale, SHBG, come di altri ormoni sono fondamentali nell’adattamento allo stress e nella prestazione fisica nella maggior parte degli sport. I soggetti ipogonadici affetti da s. di Klinefelter, ipogonadismo ipogonadotropo congenito, anorchia, ipogonadismo ipogonadotropo secondario ad adenomi ipofisario sono, infatti, esposti a importanti rischi per l’incapacità di adattamento durante l’esercizio fisico. In generale, è possibile affermare che gli atleti ipogonadici hanno un aumentato rischio di fratture osteoporotiche spontanee e post-traumatiche, complicanze cardio-vascolari correlate all’intensità dell’esercizio fisico e anemia sport-correlata.
Anche nella fase di recupero il testosterone è fondamentale per la riparazione muscolare e il trofismo delle fibre muscolari e va considerato con particolare attenzione nel sovra-allenamento, che rappresenta per questo la condizione a maggior rischio. Il comitato mondiale che controlla l’anti-doping (World Anti-Doping Agency: WADA) consente ai pazienti ipogonadici l’uso di sostanze altrimenti proibite, a seguito di accurate diagnosi e valutazioni, in dosaggi adeguati unicamente per la correzione del difetto ormonale nei limiti fisiologici.
Un discorso a parte merita la presenza del varicocele nell’atleta, che rappresenta una delle più frequenti malattie andrologiche, con prevalenza > 30% (2). Numero e caratteristiche maturative degli spermatozoi possono essere ridotte maggiormente negli atleti rispetto ai soggetti sedentari, in proporzione al grado del varicocele stesso. L’attività fisica è stata considerata come un possibile fattore di progressione clinica del varicocele e peggioramento della fertilità negli atleti, con ulteriore riscontro di significative alterazioni del liquido seminale. Per tale motivo, è da auspicare che nelle visite di idoneità sportiva venga eseguita di routine la valutazione dei genitali e quindi anche la ricerca di un varicocele.

 

Asse GnRH-Gn-ovaio nell’attività fisica
L’amenorrea indotta dall’esercizio fisico è di origine ipotalamica, con ben documentata alterazione della secrezione pulsatile di GnRH e conseguente riduzione di LH, quindi con ipo-estrogenismo. Alla base di questa alterazione è presente un’errata compensazione della bilancia energetica, dove, a fronte dell’elevato consumo, è presente un inadeguato introito calorico. L’amenorrea che spesso si stabilisce può essere sia primaria che secondaria. Talvolta, quando l’attività fisica si stabilisce prima del menarca, è possibile documentare un significativo ritardo puberale. Quale ulteriore conseguenza di quanto sovra-riportato, l’ipoestrogenismo determina importanti conseguenze sulla massa ossea. Laddove queste conseguenze si associno a eventuali tare genetiche e di etnia, il significato clinico nel tempo assume importanza ancora maggiore. È noto, infatti, che nel 90% delle adolescenti il contenuto minerale osseo totale matura intorno ai 16.9 ± 1.3 anni: mentre la massa ossea aumenta fino alla terza decade, la densità ossea non ha più un significativo incremento dopo la fine della pubertà (3). Questo importante dato va considerato in quelle condizioni dove le atlete agoniste, per effetto dell’ipoestrogenismo indotto dall’amenorrea, presentano un ritardo della pubertà, con importanti modificazioni dell’accrescimento della massa ossea. La ridotta massa ossea sembra in parte reversibile con il ripristino del ciclo mestruale, ma la densità minerale ossea rimane al di sotto della media per età per i successivi 4 anni e tutte queste donne andranno in menopausa con una densità minerale ossea inferiore a quella delle donne con cicli regolari. Tra le conseguenze a breve termine, fratture da stress e scoliosi sono i disturbi più frequenti. Diversi studi sul turnover osseo nelle atlete amenorroiche hanno documentato sia una riduzione della formazione ossea, che del turnover, piuttosto che un incremento del riassorbimento osseo e del turnover tipico dell’ipoestrogenismo (4). Questo implica che l’osteopenia osservata in queste donne può dipendere da un meccanismo di adattamento all’errato bilancio energetico.
Le indicazioni terapeutiche sono spesso di difficile attuazione, poiché in queste atlete per paura di modificare la performance sportiva non viene spesso accettata la correzione della bilancia energetica e il ripristino di un adeguato peso corporeo. È necessario un adeguato apporto di vitamina D (400-800 UI/die) e di calcio (1200-1500 mg/die) per il periodo di allenamento. Studi in queste atlete mirati alla somministrazione di terapia estro-progestinica sostitutiva o con contraccettivi orali non hanno fornito risultati sempre riproducibili, per l’eterogeneità delle formulazioni disponibili; tuttavia, nella maggior parte delle casistiche è stata notata una prevenzione della perdita ossea, senza un incremento della stessa ai valori comparabili per età.

 

Disordini tiroidei ed attività fisica
Nell’ipotiroidismo la riduzione degli ormoni metabolicamente attivi può ridurre la contrattilità miocardica, modificando la frazione di eiezione. Può essere influenzata anche la fase di rilassamento diastolico e in questi casi le variazioni ormonali tiroidee determinano variazioni delle concentrazioni di ossido nitrico nella parete vasale, con prematura perdita di elasticità e irrigidimento. Anche nell’ipotiroidismo subclinico, che frequentemente può evolvere verso una forma manifesta (70% dei casi), è stata documentata una condizione di ipercoagulabilità, malattia aterosclerotica cardio-vascolare e riduzione della capacità submassimale (5). Se si confrontano i pazienti con ipotiroidismo subclinico con i normali, anche nella fase di recupero, i primi presentano tempi più lunghi e modificazioni cardio-vascolari più frequenti. Comunque, sebbene gli studi sull’effetto dell’ipotiroidismo sull’attività fisica siano molto eterogenei, c’è un parere concorde in letteratura sulla scarsa tolleranza all’esercizio fisico sia nell’ipotiroidismo manifesto che, meno, in quello subclinico e comunque con una scarsa reversibilità anche dopo adeguata correzione farmacologica.
Nell’ipertiroidismo l’incremento del metabolismo basale è alla base dell’aumento del consumo di ossigeno e della produzione di calore. Questo pone gli atleti ad elevato rischio di insufficienza cardiaca. Il facile mantenimento del peso corporeo, l’aumento dell’appetito con iniziale apparente miglioramento della performance sportiva, cui segue inevitabilmente una riduzione della stessa, e la modesta elevazione della frequenza cardiaca, celata dalla bradicardia sinusale tipica degli atleti, possono nascondere una condizione di ipertiroidismo in evoluzione (6). In questi casi è raccomandato il trattamento con metimazolo e ß-bloccanti, sebbene questi ultimi determinino negli atleti, che effettuano sport di resistenza, una riduzione della performance, per i noti effetti emodinamici sulla funzione cardiocircolatoria. Particolare attenzione va posta all’ipertiroidismo subclinico, che determina modificazioni importanti della funzione cardiaca, con tachicardia, rischio di aritmie (in particolare fibrillazione atriale), ipertrofia ventricolare, riduzione della performance sistolica, riduzione della tolleranza all’esercizio fisico e soprattutto alterazioni della funzione e del ritmo cardiaco anche nella fase di recupero (7). Inoltre, nei pazienti con ipertiroidismo subclinico di età > 60 anni, proprio per questi motivi, è stata dimostrata una maggiore incidenza di morte improvvisa. Un discorso a parte merita l’incremento di sviluppo dell’osteoporosi, con maggiore vulnerabilità a traumi e fratture. L’ipertiroidismo subclinico è spesso causato dall’assunzione impropria di tiroxina e/o di integratori con iodio al fine di mantenere il peso corporeo. Questa pratica sembra essere sempre più diffusa tra i body-builders e gli atleti ove è necessario uno stretto controllo del peso. La valutazione delle dimensioni ghiandolari tiroidee, della captazione dello iodio e delle basse concentrazioni plasmatiche di tireoglobulina facilitano il sospetto clinico e la diagnosi.

 

Disfunzioni cortico-surrenaliche e attività fisica
L’insufficienza cortico-surrenalica è caratterizzata da sintomi, quali astenia, riduzione del peso e dell’appetito, che talvolta sono presenti in diverso modo negli sportivi. Il ruolo degli ormoni cortico-surrenalici sul muscolo è ben noto e la loro carenza determina una riduzione della forza muscolare, con edema, mialgie e in casi particolarmente gravi, anche la comparsa di necrosi ed alterazioni elettromiografiche. La correzione farmacologica in genere consente una risoluzione dei disturbi, ma talvolta, nonostante l’apparente compenso che si stabilisce farmacologicamente, permangono astenia e ridotta forza muscolare. Anche l’aggiunta di ulteriori dosi ormonali sostitutive (idrocortisone) poco prima della prestazione fisica, non migliora la sintomatologia e la performance complessiva (8). Talvolta tale incompleta risoluzione dei disturbi può essere correlata alla scelta della terapia sostitutiva (idrocortisone in dosi frazionate vs idrocortisone a rilascio modificato) e la sintomatologia si può accentuare nei diversi momenti della giornata, in funzione della più o meno completa copertura farmacologica. Tra i muscoli maggiormente coinvolti, i più importanti sono quelli delle gambe, in particolare il quadricipite. L’astenia e il deficit muscolare in questi pazienti è sostenuto anche dalle anomalie elettrolitiche (iposodiemia, iperpotassiemia, ipercalcemia), che si associano alla carenza ormonale cortico-surrenalica. Poiché l’attività fisica intensa rappresenta un “evento stressante” per l’individuo, che modifica i parametri metabolici e ormonali, ma anche quelli neurosensoriali, cognitivi e di concentrazione, è stato recentemente osservato nei pazienti affetti da malattia di Addison, che sia la riduzione della qualità della vita, che della performance fisica, sono più frequenti, indifferentemente dal sesso, nei soggetti più giovani rispetto agli ultra65enni (9).
Anche l’eccesso di glucorticoidi, indipendentemente dall’eziologia, può influenzare l’attività sportiva. La miopatia da glucorticoidi si può manifestare in forma acuta, dopo pochi giorni dalla somministrazione di dosi elevate in corso di esercizio fisico intenso, o successivamente alla somministrazione cronica, in associazione all’azione proteolitica sulle miofibrille, con interessamento tipico della muscolatura del cinto pelvico e dei muscoli prossimali.

 

Alla luce di quanto illustrato, sono necessari maggiori controlli clinici endocrinologici per chi pratica attività sportiva, soprattutto di intensità elevata, al fine di una precoce diagnosi delle disfunzioni endocrine. È necessaria la valutazione di parametri di funzionalità ormonale, diversificati, adeguandoli all’intensità e alla durata dell’esercizio fisico e l’individuazione della fase subclinica, che nell’atleta agonista, diversamente dal soggetto sedentario, può influenzare la performance atletica e a volte compromettere lo stato di salute complessivo.

 

Bibliografia

  1. Bhasin S, Woodhouse L, Casaburi R, et al. Testosterone dose-response relationships in healthy young men. Am J Physiol Endocrinol Metab 2001, 281: E1172–81.
  2. Rigano E, Santoro G, Impellizzeri P, et al. Varicocele and sport in the adolescent age. Preliminary report on the effects of physical training. J Endocrinol Invest 2004, 27: 130–2.
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  4. Warren MP, Perlroth NF. The effects of intense exercise on the female reproductive system. J Endocrinol 2001, 170: 3-11.
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  6. Kaminski G, Dziuk M, Szczepanek-Parulska E, et al. Electrocardiographic and scintigraphic evaluation of patients with subclinical hyperthyroidism during workout. Endocrine 2016, 53;  512-9.
  7. Maor E, Kivity S, Kopel E, et al. Differences in heart rate profile during exercise among subjects with subclinical thyroid disease. Thyroid 2013, 23: 1226-32.
  8. Simunkova K, Jovanovic N, Rostrup E, et al. Effect of a pre-exercise hydrocortisone dose on short-term physical performance in female patients with primary adrenal failure. Eur J Endocrinol 2016, 174: 97-105.
  9. van der Valk ES, Smans LC, Hofstetter H, et al. Decreased physical activity, reduced QoL and presence of debilitating fatigue in patients with Addison's disease. Clin Endocrinol (Oxf) 2016, 85: 354-60.
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Danilo Fintini
UOC di Endocrinologia e Diabetologia, Dipartimento Universitario Ospedaliero, Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”, Roma

 

Definizione di doping
Con il termine inglese Doping si intende l’assunzione di sostanze o procedimenti destinati ad aumentare artificialmente il rendimento in occasione di una gara sportiva (Legge n. 376 del 2000). Gli ormoni rientrano in queste sostanze.
Il fenomeno doping non si può più considerare solo un problema dello sport professionistico, ma anche dello sport dilettantistico e amatoriale.
I composti chimici utilizzati illecitamente nello sport sono molti, con diversi meccanismi d’azione e diverso grado di pericolosità, e l’elenco delle sostanze il cui uso da parte degli atleti è vietato viene revisionato annualmente ad opera della World Anti-Doping Agency (WADA), organo del CIO, dal 1° gennaio 2011 (tabelle 1 e 2).
La presenza di sostanze proibite, durante una competizione e non, è possibile solo in presenza di una TUE (Therapeutic Use Exemptions), in accordo con gli Standard Internazionali (WADA code 2016).

 

Tabella 1
Elenco delle sostanze e dei metodi “dopanti” sempre proibiti (modificato dal WADA 2016)
S1. Steroidi anabolizzanti Androstenedione, androstenediolo, testosterone, nandrolone, ecc
S2. Ormoni peptidici, fattori di crescita e sostanze correlate Eritropoietina e fattori di rilascio, GH e fattori di rilascio, IGF-1, gonadotropine (LH, hCG), insulina, ACTH e fattori di rilascio, ecc
S3. Agonisti ß2-adrenergici Salmeterolo, terbutalina, orciprenalina, albuterolo, ecc
S4. Antagonisti e modulatori ormonali Anastrazolo, aminoglutetimide, testolattone, raloxifene, tamoxifene, ecc
S5. Diuretici e altri agenti mascheranti Desmopressina, acetazolamide, furosemide, idroclorotiazide, spironolattone, ecc (ad eccezione del drospirenone)

 

 

Tabella 2
Elenco delle sostanze e dei metodi “dopanti” proibiti in competizione (modificato dal WADA 2016)
S6. Stimolanti non specificati e specificati Amfetamine, cocaina, ecc
Efedrina, pseudo-efedrina oltre le dosi terapeutiche
S7. Narcotici Buprenorfina, metadone, ossicodone, morfina, pentidina, ecc
S8. Cannabinoidi Hashish, marijuana, cannabino-mimetici
S9. Glucocorticoidi Tutti i glucocorticosteroidi quando somministrati per via orale, endovenosa, intramuscolare o rettale
Sostanze proibite in particolari sport
P1. Alcool (> 0.10 g/L) Aeronautica, tiro con l’arco, automobilismo, motonautica, ecc
P2. ß-bloccanti Aeronautica, tiro, automobilismo, golf, freccette, biliardo, sci, sport subacquei

 

Di seguito verranno presi in considerazione alcuni fra gli ormoni maggiormente utilizzati nell’ambito del doping.

 

Steroidi anabolizzanti androgeni
Questa categoria di sostanze include l’ormone maschile testosterone e i composti chimici a questo affine. Possiedono attività androgenica tutti quegli steroidi a 19 atomi di carbonio con un gruppo β idrossilico in C-17 e un gruppo chetonico in C-3.
Gli effetti fisiologici del testosterone e degli steroidi anabolizzanti di sintesi sono mediati dal complesso steroide-recettore, portando principalmente a ipertrofia muscolare, con conseguente aumento dei recettori e aumento della massa magra. A livello cerebrale, il testosterone e i suoi derivati inducono un effetto amfetamino-simile. A livello del midollo osseo gli androgeni stimolano l’attività eritropoietica.
In conclusione, riescono ad aumentare la massa e la forza muscolare e consentono di sopportare carichi di lavoro più intensi.
Il loro uso può portare però a una serie di effetti collaterali, come epatotossicità (in particolare nelle formulazioni orali), rischio di neoplasie epatiche e prostatiche e maturazione ossea accelerata nell’adolescente, oltre a ipogonadismo e azoospermia nell’uomo e irsutismo e irregolarità mestruali nella donna. Inoltre, possono favorire l’aterogenesi, aumentando il colesterolo LDL, con aumentato rischio cardio-vascolare.

 

Ormone della crescita (GH)
Il GH è una proteina di 191 aminoacidi e 22 kDa, secreta in maniera pulsatile dall’ipofisi, che, legandosi a un recettore trans-membrana, stimola la produzione del suo mediatore principale periferico IGF-1, che ne media gli effetti anabolici e di accrescimento.
L’effetto principale è l’accrescimento scheletrico nei bambini, ma anche l’aumento della massa magra e il controllo dell’omeostasi glicidica e lipidica. Inizialmente estratto da ipofisi di cadavere, dal 1987 è utilizzato il GH biosintetico, prodotto mediante tecnologia del DNA ricombinante.
Viene utilizzato in ambito sportivo per potenziare la forza muscolare, con un effetto simile a quello degli anabolizzanti steroidei negli sport di potenza, ma anche in quelli a più alto impegno del metabolismo aerobico, quali per esempio maratona, ecc. L’efficacia del GH, somministrato a dosi elevate ad atleti adulti, è stata scientificamente provata da una serie di studi.
La somministrazione di questo ormone in soggetti non carenti comporta segni e sintomi tipici dell’acromegalia (modificazioni somatiche, diabete mellito, cardio- e organomegalia, alterazioni articolari, rischio neoplastico, ecc), con rischio aumentato di mortalità cardio-vascolare.

 

Eritropoietina (EPO)
L’EPO è un farmaco molto utilizzato nel doping, in particolare negli sport che richiedono molta resistenza con sforzi prolungati (es ciclismo). Infatti, aumentando la produzione di globuli rossi, aumenta il trasporto di ossigeno nel sangue e quindi migliora il meccanismo muscolare di utilizzo del glucosio.
La poliglobulia che può derivarne, aumentando la viscosità del sangue, può comportare un rischio elevato di trombosi, ictus e infarto miocardico.

 

Corticotropina (ACTH)
L’ACTH è un ormone peptidico derivato dalla scissione della pro-opiomelanocortina secreta dall’ipofisi, che stimola i surrenali per la produzione di glico- e mineralcorticoidi. La sua secrezione, regolata con meccanismo di feed-back negativo dagli ormoni circolanti esogeni ed endogeni, aiuta nella regolazione del metabolismo idro-salino e aumenta sotto stress fisico o psicologico. Viene impiegata nello sport in forma di tetracosactide (Synacthen) per i suoi effetti anabolizzanti, nonostante non vi sia alcuna prova scientifica, avendo un effetto indiretto attraverso l’aumentata produzione di steroidi.
Gli effetti collaterali, simili a quelli dell’assunzione di steroidi anabolizzanti, possono comprendere: ritenzione idrica, iperglicemia, disturbi gastro-intestinali, osteoporosi, acne e irsutismo.

 

Insulina
Il suo impiego come doping, legato agli effetti anabolizzanti, non è supportato da prove scientifiche. Gli atleti la assumono nella convinzione che determini un miglioramento della performance sportiva.
Gli effetti collaterali sono soprattutto crisi ipoglicemiche acute, ritenzione di liquidi, ecc.

 

Gonadotropina corionica umana (hCG)
L’hCG è una sostanza prodotta dalla placenta durante la gravidanza, che si estrae dall’urina ed è normalmente impiegata in medicina per stimolare le cellule di Leydig testicolari ed aumentare il testosterone nell’ipogonadismo ipogonadotropo maschile e per l’ovulazione (effetto LH-simile) nelle donne con problemi di infertilità. Nell’attività sportiva viene utilizzato per l’effetto anabolizzante, legato all’aumento della produzione di androgeni.
Gli effetti collaterali comprendono principalmente rischio trombotico, aumento delle dimensioni delle mammelle e dei testicoli, alterazioni della crescita se utilizzato in età adolescenziale/infantile.

 

Conclusioni
La pratica del doping e l’uso di ormoni come doping ha quindi in generale pochi vantaggi e tantissimi rischi di effetti collaterali.
I controlli anti-doping non hanno dato ad oggi i risultati attesi e la figura del medico e dell’endocrinologo può avere un ruolo centrale nella prevenzione e nell’individuazione di possibile abuso di sostanze a scopo di doping.

 

Bibliografia di riferimento

  • wada-ama.org
  • Wilson JD. Androgen abuse by athletes. Endocr Rev 1988, 9: 181-99.
  • Cappa M. Endocrinologia dell’esercizio fisico. UTET 1999.
  • Healy ML, Gibney J, Russel-Jones DL, et al. High dose growth hormone exerts an anabolic effect at rest and during exercise in endurance-trained athletes. J Clin Endocrinol Metab 2003, 88: 5221-6.
  • Duclos M. Glucocorticoids: a doping agent? Endocrinol Metab Clin North Am 2010, 39: 107-26.
  • Birzniece V. Doping in sport: effects, harm and misconceptions. Intern Med J 2015, 45: 239-48.
  • Nieschlag E, Vorona E. Mechanisms in endocrinology: Medical consequences of doping with anabolic androgenic steroids: effects on reproductive functions. Eur J Endocrinol 2015, 173: R47-58.
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Chiara Nardin, Marcello Rattazzi
Dipartimento di Medicina, Università degli Studi di Padova, Medicina Interna I, Ospedale Cà Foncello, Treviso

 

Se fossimo in grado di fornire a ciascuno la giusta dose di nutrimento ed esercizio fisico, né in difetto né in eccesso, avremmo trovato la strada per la salute” (Opere di Ippocrate).

Come è possibile notare da questa citazione straordinariamente attuale, già Ippocrate aveva compreso l’importanza di una regolare attività fisica nell’ambito di un approccio globale volto a garantire la salute e la longevità. Le patologie cardio-vascolari rappresentano oggi la più frequente causa di morte e disabilità (17.3 milioni di morti/anno, fonte OMS 2008), equivalente a circa il 30% della mortalità mondiale. Secondo i dati ISTAT, in Italia le patologie cardiovascolari causano rispettivamente il 35% e il 43% dei decessi maschili e femminili. Le strategie terapeutiche volte al controllo dei tradizionali fattori di rischio e alla prevenzione primaria e secondaria degli eventi cardio-vascolari, sono caratterizzate da diverse combinazioni farmacologiche, che risultano spesso dispendiose e difficili da attuare. L’esercizio fisico, invece, è disponibile a bassi costi ed è relativamente scevro da eventi avversi, rappresentando una valida e insostituibile strategia di prevenzione cardiovascolare, sia primaria che secondaria (1).

 

Benefici cardio-vascolari dell’esercizio fisico
Negli ultimi sessant’anni numerosi studi hanno evidenziato gli effetti benefici dell’attività fisica sul rischio cardiovascolare e, globalmente, sulla salute. Il lavoro fisico aerobico, infatti, esercita un ruolo protettivo, non solo nei confronti dei più comuni eventi cardiovascolari (infarto miocardico, lctus e arteriopatia periferica), ma anche su osteoporosi, sarcopenia, depressione, demenza e le più comuni neoplasie (in particolare del colon e della mammella). Per primo, nel 1953, Morris dimostrò che i postini e coloro che lavoravano negli autobus a due piani, fisicamente più attivi, avevano un’incidenza di eventi coronarici minore del 50% rispetto ai più sedentari autisti di autobus e impiegati nei servizi pubblici (2). Nei decenni successivi numerosi lavori scientifici hanno contribuito a valorizzare il contributo dell’attività fisica nella riduzione globale di eventi cardiovascolari (3).
L’associazione tra esercizio fisico e patologie cardiovascolari è più frequentemente rappresentata da una relazione curvilinea. Infatti, è importante sottolineare come il passaggio da uno stile di vita inattivo a uno lieve-moderatamente attivo produce una riduzione del rischio globale di malattia, relativamente maggiore rispetto a quella causata dall’incremento dei volumi dell’esercizio stesso, che determinano riduzioni del rischio più moderate. Questo significa che qualsiasi tipo di movimento è migliore dell’inattività, anche se volumi di esercizio più elevati sembrano produrre benefici maggiori (4).
Attraverso quali meccanismi l’attività fisica riduce il rischio cardiovascolare? Sebbene lo studio INTERHEART abbia dimostrato che più del 90% degli eventi cardiovascolari è attribuibile ai fattori di rischio convenzionali, è ormai ben assodato che la patologia aterosclerotica, alla base di tali eventi, è il risultato di una più complessa interazione tra meccanismi immunologici, infiammatori, emocoagulativi e metabolici (5). L’abituale esercizio fisico determina un effetto protettivo sui fattori di rischio tradizionali, migliorando l’assetto lipidico, controllando la pressione arteriosa, aumentando la sensibilità insulinica e riducendo il peso corporeo. È stato, infatti, dimostrato che praticare regolarmente il walking produce una riduzione statisticamente significativa del colesterolo LDL, con miglioramento del profilo aterogeno (rapporto tra colesterolo totale e colesterolo HDL)(6). Inoltre, pazienti diabetici, inclusi in programmi di abituale attività fisica, hanno riportato una significativa riduzione dei livelli di emoglobina glicata e delle complicanze renali e vascolari associate, rispetto ai controlli. Numerosi meccanismi sono stati proposti per spiegare l’incremento della sensibilità insulinica determinato dall’esercizio, quali aumento dell’attività di alcuni enzimi epatici (come ad esempio glicogeno-sintetasi ed esochinasi), modifiche nella composizione muscolare che favoriscono il deposito di glucosio, ridotto rilascio di acidi grassi liberi e incremento delle proteine di trasporto del glucosio e della via di segnale insulinica (7). Questi benefici realizzano tuttavia solo il 59% della riduzione del rischio cardiovascolare. Il rimanente 41% è spiegato dala promozione del rimodellamento vascolare, dall’incremento dei circoli collaterali e della disponibilità di ossido nitrico, dal miglioramento del flusso sanguigno cerebrale e dalla protezione della funzione endoteliale, esercitati dall’attività fisica stessa (1).

 

Caratteristiche dell’esercizio fisico
Quanto e quale esercizio fisico deve essere prescritto per la prevenzione di eventi cardiovascolari?

Prevenzione primaria. Le linee guida elaborate nel 2008 dal HHS (United States Department of Health and Human Services) raccomandano 150 minuti/settimana di attività fisica moderata-intensa o 75 minuti/settimana di esercizio fisico aerobico vigoroso-intenso. Questi volumi di attività fisica, intesi come relazione tra intensità, durata e frequenza dell’allenamento, conferiscono il beneficio maggiore in termini di riduzione del rischio cardiovascolare (Physical Activity Guidelines)(8). L’AHA (American Heart Association) e l’ACSM (American College of Sports Medicine) raccomandano 30 minuti di attività fisica moderata-intensa 5 volte a settimana o 20 minuti di esercizio aerobico vigoroso 3 volte a settimana, o la combinazione di entrambi, in aggiunta a esercizi neuromotori, di resistenza e flessibilità 2-3 volte a settimana (9).
L’attività fisica viene generalmente suddivisa in tre tipologie (10):

  • aerobica, ossia di bassa intensità (inferiore al 50-60% dello sforzo massimale) e di lunga durata;
  • anaerobica, volta a rafforzare e tonificare i muscoli;
  • di flessibilità, volta a ridurre il rischio di danno muscolare.

Un lavoro aerobico, che raggiunga il 60-90% della frequenza cardiaca massima per almeno 20-30 minuti tre volte a settimana (secondo la dottrina aerobica elaborata da Cooper), produce il maggior incremento nel consumo di ossigeno e nella capacità di lavoro, permettendo di ridurre i fattori di rischio cardiovascolare e le malattie croniche (3). Sebbene sia ormai ben consolidato che anche la minima quantità di esercizio fisico sia migliore dell’inattività, è difficile determinare il volume di lavoro aerobico (inteso come relazione tra intensità, durata e frequenza dell’allenamento) in grado di produrre la maggior riduzione di eventi cardiovascolari. L’intensità di attività fisica è obiettivamente espressa in equivalenti metabolici (METs), dove 1 MET corrisponde a un consumo assoluto e relativo di ossigeno rispettivamente di 250 mL/min e di 3.5 mL/kg/min (11):

  • lieve: < 3 METs;
  • moderata: tra 3 e 6 METs;
  • vigorosa: ≥ 6 METs.

È stato dimostrato che, per allenamenti di intensità > 4 METs, per ogni MET aggiunto vi è una riduzione del 12-20% della mortalità cardiovascolare (12). Anche solo 15 minuti di attività fisica quotidiana di tipo moderato sono stati, infatti, associati a una riduzione del 14% di tutte le cause di mortalità (3), ribadendo il concetto che qualsiasi tipo di attività sia migliore dell’inattività (1).
Può l’attività fisica danneggiare un cuore sano? Un esercizio fisico vigoroso prolungato (> 15 MET per almeno 20 ore/settimana) potrebbe produrre effetti negativi sul sistema cardiovascolare e incrementare il rischio di morte cardiaca improvvisa. Dati epidemiologici evidenziano una prevalenza di arresto cardiaco di 1/50.000 durante gare sportive tra atleti agonisti e maratoneti di mezza età (13). Anche se gli adattamenti strutturali, funzionali ed elettrici, che caratterizzano il cosiddetto “cuore d’atleta”, sono generalmente considerati benigni, la possibilità che l’eccessiva attività fisica possa aumentare il rischio di fibrosi del miocardio e conseguenti aritmie, anche in virtù di una sottostante predisposizione genetica, rende necessario l’approfondimento mediante ulteriori studi clinici (1). Nonostante ciò, le evidenze della letteratura oggi disponibili suggeriscono che l’esercizio fisico di elevata intensità è sicuro per la maggior parte della popolazione sana; precauzioni dettate dal comune buon senso sono fondamentali per evitare danni al sistema cardiovascolare e muscolo-scheletrico.

Prevenzione secondaria. Le linee guida elaborate dall’AHA e dall’ACC (American College of Cardiology) raccomandano 30-60 minuti al giorno di attività aerobica moderata in pazienti con patologie cardiache (14,15). Numerosi studi clinici randomizzati hanno infatti dimostrato gli effetti benefici dell’esercizio fisico in gruppi selezionati di pazienti con malattia cardiaca, evidenziando non solo una riduzione dell’ospedalizzazione, ma anche di tutte le cause di mortalità (1). Poiché in questi pazienti permane, anche se modesto, un aumentato rischio di arresto cardiaco durante l’attività fisica, ne viene raccomandata l’accurata selezione e l’assoluta supervisione, come da linee guida.

 

Conclusioni
L’attività fisica regolare rappresenta la via più efficace e accessibile per la tutela globale della salute; compito del medico è incoraggiarla con entusiasmo, promuoverla e prescriverla secondo le raccomandazioni internazionali. I pazienti ad elevato rischio di malattia cardiovascolare dovrebbero essere identificati precocemente, selezionati e coinvolti in programmi strutturati e supervisionati di regolare esercizio fisico.

 

Bibliografia

  1. Eijsvogels TM, et al. Exercise at the extremes: the amount of exercise to reduce cardiovascular events. J Am Coll Cardiol 2016, 67: 316-29.
  2. Morris JN, et al. Coronary heart-disease and physical activity of work. Lancet 1953, 265: 1111-20.
  3. Simon HB. Exercise and health: dose and response, considering both ends of the curve. Am J Med 2015, 128: 1171-7.
  4. Powell KE, Paluch AE, Blair SN. Physical activity for health: What kind? How much? How intense? On top of what? Annu Rev Public Health 2011, 32: 349-65.
  5. Yusuf S, et al. Effect of potentially modifiable risk factors associated with myocardial infarction in 52 countries (the INTERHEART study): case-control study. Lancet 2004, 364: 937-52.
  6. Kelley GA, Kelley KS, Tran ZV. Walking, lipids, and lipoproteins: a meta-analysis of randomized controlled trials. Prev Med 2004, 38: 651-61.
  7. Boule NG, et al. Effects of exercise on glycemic control and body mass in type 2 diabetes mellitus: a meta-analysis of controlled clinical trials. JAMA 2001, 286: 1218-27.
  8. Physical Activity Guidelines Advisory Committee report, 2008. To the Secretary of Health and Human Services. Part A: executive summary. Nutr Rev 2009, 67: 114-20.
  9. Haskell WL, et al. Physical activity and public health: updated recommendation for adults from the American College of Sports Medicine and the American Heart Association. Med Sci Sports Exerc 2007, 39: 1423-34.
  10. Wang Y, et al. Physical exercise-induced protection on ischemic cardiovascular and cerebrovascular diseases. Int J Clin Exp Med 2015, 8: 9859-66.
  11. Varghese T, et al. Physical activity in the prevention of coronary heart disease: implications for the clinician. Heart 2016, doi: 10.1136/heartjnl-2015-308773.
  12. Kokkinos P, et al. Exercise capacity and mortality in older men: a 20-year follow-up study. Circulation 2010 122: 790-7.
  13. Sharma S, Merghani A, Mont L. Exercise and the heart: the good, the bad, and the ugly. Eur Heart J 2015, 36: 1445-53.
  14. Amsterdam EA, et al. 2014 AHA/ACC Guideline for the management of patients with non-ST-elevation acute coronary syndromes: a report of the American College of Cardiology/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines. J Am Coll Cardiol 2014, 64: e139-228.
  15. O’Gara PT, et al. 2013 ACCF/AHA guideline for the management of ST-elevation myocardial infarction: a report of the American College of Cardiology Foundation/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines. J Am Coll Cardiol 2013, 61: e78-140.
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Ernesto De Menis
UO Medicina Interna, Dipartimento Medicina Clinica, Ospedale Generale, Montebelluna

 

Fisiologia
Il processo di invecchiamento determina a livello ipofisario rilevanti alterazioni della secrezione ormonale. Le variazioni ormonali ipofisarie sono state associate alle modifiche della composizione corporea e al declino delle funzioni cognitive fisiologicamente presenti nell’anziano. Inoltre, alcune di queste alterazioni ormonali risultano particolarmente accentuate nei soggetti anziani con demenza.
La secrezione delle tropine ipofisarie è sotto controllo di varie vie neuroendocrinologiche, che risultano profondamente alterate nel processo generale di invecchiamento cerebrale. In modo particolare, si verificano alterazioni dei nuclei ipotalamici, specie di quelli che regolano i ritmi circadiani, ed alterazioni del sistema limbico ed ippocampale, fondamentale nel mediare le risposte ormonali allo stress (1,2).

HPA
Il dato più rilevante nell’asse HPA del soggetto anziano è la riduzione dei livelli di androgeni surrenalici (DHEA, DHEAS-S), mentre il livelli di cortisolemia e ACTH sono sovrapponibili ai soggetti giovani-adulti, pertanto si verifica un aumento del rapporto cortisolo/androgeni surrenalici (1). Tale alterazione del rapporto risulta particolarmente spiccata nei pazienti con demenza. Sebbene i livelli plasmatici di cortisolo e ACTH non si modifichino significativamente, nell’anziano si osservano importanti alterazioni della regolazione dell’asse HPA. Il ritmo circadiano della secrezione dimostra una minor ampiezza, con livelli di cortisolemia serale e notturna più elevati rispetto ai soggetti giovani. Inoltre il sistema di feed-back negativo dei glucocorticoidi sull’asse risulta attenuato, come dimostrato da una minor sopprimibilità di ACTH/cortisolo dopo desametasone e idrocortisone. In definitiva, lo stato dell’asse HPA dimostra uno stato di relativa iperfunzione e di maggior inerzia ai meccanismi di controllo. Le basi anatomo-funzionali di questa condizione sono primariamente le anomalie del sistema ippocampale, dei nuclei ipotalamici regolatori dei ritmi e inoltre la riduzione dei recettori per i corticosteroidi (sia per i glucocorticoidi, GR, che per i mineralcorticoidi, MR) (2). Tali alterazioni risultano accentuate nei soggetti con demenza.
A queste alterazioni sono state attribuite conseguenze rilevanti nel processo di invecchiamento, sia fisiologico che patologico. L’eccesso relativo di glucocorticoidi ha conseguenze negative ben note sulla composizione corporea e sui fattori di rischio cardio-vascolare; inoltre, a livello cerebrale determina effetti negativi su specifiche popolazioni neuronali coinvolte nelle capacità cognitive. Gli androgeni surrenalici hanno invece azione opposta, sia su composizione corporea sia come effetto “protettivo” sull’integrità neuronale. Pertanto, l’eccesso relativo di glucocorticoidi e il deficit assoluto di androgeni surrenalici sembrano avere un ruolo rilevante nel processo fisiologico di invecchiamento, sia somatico che cerebrale. Studi epidemiologici hanno effettivamente correlato la riduzione dell’ampiezza delle oscillazioni circadiane del cortisolo con le performance fisiche (3), il rischio di sviluppare diabete (4) e l’aumento di eventi cardio-vascolari e mortalità (5).

GH (somatopausa)
Il sistema GH-IGF è sicuramente fra le funzioni ipofisarie quello che dimostra le più rilevanti alterazioni, che si traducono dal punto di vista pratico in una età-dipendenza dei cut-off di normalità dei valori plasmatici di GH/IGF-I. A partire dai 40 anni si osserva una riduzione della secrezione integrata di GH, del 14% per ogni decade di vita. La secrezione di GH è tipicamente pulsatile e nell’anziano si osserva che la sua riduzione è dovuta a una minore frequenza e durata dei picchi secretori e soprattutto a una loro minore ampiezza; inoltre, nell’anziano si osserva anche la perdita del dimorfismo sessuale della secrezione di GH (nelle altre età la donna ha maggiore secrezione). La riduzione della secrezione di GH si accompagna a riduzione delle concentrazioni plasmatiche di IGF-I. La ridotta secrezione di GH è dovuta a riduzione dei recettori ipofisari per il GHRH, ma anche a riduzione della secrezione di GHRH, aumento locale del tono somatostatinergico e alterazioni di altri mediatori. In particolare, è stato dimostrato che il soggetto anziano ha una ridotta risposta del GH a ghrelin (6).
La riduzione età-dipendente del GH/IGF-I è stata correlata a modifiche caratteristiche dell’individuo anziano, in particolare alterazioni della struttura somatica come le alterazioni della composizione corporea (riduzione massa magra e ossea, aumento della massa adiposa, specie addominale), riduzione della performance fisica, profilo di rischio cardio-vascolare negativo (lipidi, metabolismo glucidico). È stato introdotto pertanto il termine di somatopausa per indicare il deficit fisiologico di GH nell’individuo anziano.
Il GH e i neuromediatori collegati alla sua secrezione (GHRH, ghrelin, somatostatina, ecc) sono stati collegati anche all’integrità delle funzioni neurologiche. In particolare, è stata osservata una correlazione fra declino di GH e declino fisiologico delle funzioni cognitive dell’anziano (2). L’anziano presenta quindi fisiologicamente un quadro ormonale e clinico che assomiglia al deficit di GH da causa organica. Tuttavia, anche nell’anziano con ipopituitarismo è possibile diagnosticare dal punto di vista biochimico un deficit severo di GH ed è stato dimostrato che in questi soggetti il trattamento sostitutivo con rhGH, a dosi appropriate per l’età, risulta efficace e tollerato (7).

 

Bibliografia

  1. Ferrari E, et al. Age-related changes of the hypothalamic-pituitary-adrenal axis: pathophysiological correlates. Eur J Endocrinol 2001, 144: 319-29.
  2. Smith RJ, et al. Molecular endocrinology and physiology of the aging central nervous system. Endocr Rev 2005, 26: 203–50.
  3. Gardner MP, et al. Dysregulation of the hypothalamic pituitary adrenal (HPA) axis and physical performance at older ages: an individual participant meta-analysis. Psychoneuroendocrinology 2013, 38: 40-9.
  4. Hackett RA. Diurnal cortisol patterns, future diabetes, and impaired glucose metabolism in the Whitehall II Cohort Study. J Clin Endocrinol Metab 2016, 101: 619–25.
  5. Kumari M, et al. Association of diurnal patterns in salivary cortisol with all-cause and cardiovascular mortality: findings from the Whitehall II Study. J Clin Endocrinol Metab 2011, 96: 1478–85.
  6. Broglio F, et al. The endocrine response to Ghrelin as a function of gender in humans in young and elderly subjects. J Clin Endocrinol Metab 2013, 88: 1537–42.
  7. Kokshoorn NE. GH replacement therapy in elderly GH-deficient patients: a systematic review. Eur J Endocrinol 2011, 164: 657-65.
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Carlo Cappelli
Unità di Endocrinologia, Dipartimento di Medicina Interna, Spedali Civili di Brescia

 

Le patologie tiroidee sono molto frequenti nell’età anziana e molte volte di non facile e rapida diagnosi, a causa della presentazione clinica spesso atipica e/o per la concomitante coesistenza di molteplici patologie. Le patologie tiroidee nel paziente anziano sono diventate via via negli anni argomento di crescente interesse da parte degli esperti, proprio a causa dello stretto legame fra disfunzione tiroidea e disabilità, funzione cognitiva, rischio cardio-vascolare e longevità.

 

ALTERAZIONI NELL'ANATOMIA E FUNZIONE DELLA TIROIDE NEL CORSO DELL’INVECCHIAMENTO

Con l’avanzare dell’età, la tiroide va incontro a progressiva atrofia e fibrosi, riduzione delle dimensioni dei follicoli, appiattimento e degenerazione delle cellule epiteliali, con gradi variabili di infiltrazione linfocitaria inter-follicolare. Tutto questo comporta nella gran parte dei casi una riduzione del volume ghiandolare (1). Inoltre, vi è una diminuzione del pool iodico, dovuto al fisiologico minor assorbimento intestinale, ma anche alla restrizione dell’uso di sale nella dieta consigliato ai cardiopatici in generale. Questo porta a ridotta secrezione di T4, che viene a sua volta compensata da una riduzione della clearance legata alla minor attività della 5-deiodinasi (2).
Evidenze cliniche ottenute in ampie casistiche hanno dimostrato come circa il 70% dei pazienti “anziani” presentino valori di TSH > 4.5 mU/L, da considerarsi come para-fisiologici, secondari a un adattamento alle alterazioni appena citate e alle mutate esigenze metaboliche dell’organismo (3). Secondo alcuni autori, questo nuovo assetto funzionale tiroideo permetterebbe un maggior risparmio energetico, andando a ridurre il consumo di ossigeno e i processi catabolici, soprattutto in pazienti affetti da patologie croniche debilitanti. Questi meccanismi potrebbero favorire la selezione positiva di soggetti particolarmente longevi (4).

 

PATOLOGIE TIROIDEE NELL’ANZIANO

La prevalenza delle patologie tiroidee aumenta in modo lineare con l’età e, se si considerano nel loro complesso, ne sono affetti oltre il 40% dei pazienti anziani (5).

 

Ipotiroidismo clinico
La prevalenza è di circa il 15% nei soggetti di sesso femminile e del 5-10% in quello maschile con età > 60 anni. La principale causa è rappresentata dalla tiroidite cronica autoimmune, assai più frequente nelle aree a carenza iodica (3), ma numerosi farmaci possono essere causa di ipotiroidismo.
L’esordio clinico dell’ipotiroidismo può essere assai insidioso, interessando poco alla volta e lentamente più organi e apparati, specialmente se nel paziente anziano sussistono più patologie. I sintomi classici sono poco frequenti e il quadro clinico appare spesso paucisintomatico; in questi casi l’insorgere di uno stato depressivo può essere la prima e unica manifestazione clinica.
Altro aspetto importante è rappresentato dal fatto che l’ipotiroidismo nel paziente anziano determina un rallentamento del metabolismo, aumentando il rischio di accumulo di farmaci per una riduzione della loro clearance (6).
Il trattamento prevede la somministrazione di levo-tiroxina (L-T4), con la raccomandazione di iniziare con bassi dosaggi (12.5-25 µg/die). L’aumento del dosaggio deve essere effettuato ogni 2-3 settimane, in base alle condizioni cliniche del paziente, per evitare di slatentizzare una cardiopatia ischemica silente o indurre angina da discrepanza in pazienti cardiopatici noti. La velocità di supplementazione deve inoltre essere modulata in base alla gravità dell’ipotiroidismo: molto più lenta e graduale negli ipotiroidismi severi (7).

 

Ipotiroidismo subclinico
Circa il 7-10% della popolazione con età > 65 anni presenta un quadro laboratoristico compatibile con ipotiroidismo subclinico (6,8). Di questi oltre il 25% presenterà normalizzazione spontanea del TSH entro un anno.
Assai discordanti sono i dati inerenti al rapporto fra ipotiroidismo subclinico e rischio di mortalità. Una recente meta-analisi di studi prospettici evidenzia come la mortalità cardio-vascolare aumenti significativamente per valori di TSH ≥ 10 mU/L (9); al contrario, valori di TSH < 10 mU/L non sembrano impattare sulla mortalità. Le linee guida dell’European Thyroid Association suggeriscono di trattare con ormone tiroideo tutti i pazienti con età < 70 anni e TSH ≥ 10 mU/L, mentre per quelli con età > 70 anni si suggerisce il trattamento sostitutivo solo in caso di evidenti sintomi di ipotiroidismo. Per valori compresi tra 4.5-10 mU/L si può adottare un atteggiamento di “wait and see”, indipendentemente dall’età del paziente (10).

 

Ipertiroidismo clinico
Sebbene l’ipertiroidismo sia più frequente tra i 20-30 anni, è riscontrabile in circa il 10-15% dei pazienti con oltre 60 anni. Il morbo di Basedow è la causa più comune in ogni decade, mentre l’incidenza del gozzo multinodulare tossico aumenta con l’avanzare dell’età, soprattutto nelle aree iodo-carenti (5,6). Anche la tireotossicosi iodio-indotta (Jod-Basedow) ha una frequenza elevata nella popolazione anziana, a causa del frequente utilizzo di farmaci a elevato contenuto iodico, primo fra tutti l’amiodarone (11).
La diagnosi di ipertiroidismo nel soggetto anziano rappresenta ancora oggi una sfida, considerata l’elevata frequenza di manifestazioni atipiche. Infatti, i classici segni e sintomi, quali perdita di peso, diarrea, cardiopalmo, intolleranza al caldo, ecc, riferiti dai giovani-adulti, possono essere assenti nell’anziano. Il termine di “ipertiroidismo apatetico” è utilizzato proprio per descrivere la presentazione del quadro clinico “atipico” caratterizzato da depressione, letargia e perdita di peso, che si può riscontrare quasi solamente nel paziente anziano. Il sistema cardio-vascolare è molto sensibile all’azione degli ormoni tiroidei, che possono indurre quadri di fibrillazione atriale, come unica manifestazione di ipertiroidismo, in oltre il 20% dei pazienti > 60 anni.
Il trattamento della tireotossicosi nel paziente anziano dipende non solo dalle cause che la determinano, ma deve essere personalizzato in base all’età, alla gravità del quadro e alle comorbilità. La terapia radiometabolica è il trattamento di scelta per i pazienti anziani, in quanto presenta basso rischio di complicanze, ridotti effetti avversi e alta efficacia. L’opzione chirurgica presenta un maggior rischio nei soggetti anziani e quindi deve essere ponderata e valutata caso per caso. Sicuramente rimane di prima scelta in caso di gozzi voluminosi, in presenza di chiari sintomi compressivi (6,11,12).

 

Ipertiroidismo subclinico
Si riscontra in circa l’1-9% della popolazione anziana. L'ipertiroidismo subclinico sembra incrementare il rischio di mortalità sia generale (odds ratio 1.24, IC95% 1.06-1.46) che per cause cardio-vascolari (OR 1.29, IC95% 1.02-1.62). Questo rischio, legato soprattutto all’insorgenza della fibrillazione atriale, è più significativo per valori di TSH < 0.1 mU/L che per valori compresi tra 0.1 e 0.4 mU/L (OR 1.84 vs 1.24)(13). Inoltre, numerosi studi evidenziano come questa condizione si associ a una riduzione della densità ossea e a maggior rischio di fratture nel paziente anziano. Per questi motivi, si suggerisce di trattare farmacologicamente tutti i pazienti ultra65enni con valori di TSH < 0.1 mIU/ml, mentre nei soggetti con valori compresi tra 0.1 e 0.4 mU/L il trattamento farmacologico va iniziato se sono cardiopatici o con segni/sintomi di ipertiroidismo (14).

 

Gozzo multinodulare eutiroideo
La frequenza di noduli tiroidei singoli o multipli è molto elevata nella popolazione generale e aumenta con l’avanzare dell’età. La prevalenza, basata su dati ecografici, va dal 20 al 76% dei soggetti esaminati (11,15).
Nel paziente anziano l’atteggiamento terapeutico per il gozzo è in genere di tipo conservativo, visto l’elevato rischio del trattamento chirurgico. Inoltre, la terapia soppressiva con L-T4 non è mai indicata negli anziani con gozzo, visti i possibili effetti iatrogeni. L’opzione chirurgica deve essere presa in considerazione solo per gozzi voluminosi con effetti compressivi severi (15).

 

Neoplasie
L’incidenza annuale di carcinoma tiroideo aumenta con l’età e dopo i 65 anni è di circa 9-10 casi/100.000 abitanti nelle donne e di 7 casi/100.000 nei maschi (15).
Caratteristiche dei carcinomi ben differenziati nell’anziano sono la maggior invasività locale e la maggior frequenza a metastatizzare. Per tale motivo, la prognosi del carcinoma tiroideo è in generale peggiore nell’età avanzata rispetto all’età giovanile. Anche il linfoma tiroideo (< 5% delle neoplasie tiroidee), che si sviluppa per l’80-85% dei casi nei soggetti con tiroidite autoimmune, predilige l’età avanzata. Da tali presupposti emerge quindi l’importanza di sottoporre a tempestiva analisi citologica noduli a rapida crescita e con caratteristiche ecografiche altamente sospette (15).

 

BIBLIOGRAFIA

  1. Mariotti S, Franceschi C, Cossarizza A, Pinchera A. The aging thyroid. Endocr Rev 1995, 16: 686-715.
  2. Aggarwal N, Razvi S. Thyroid and aging or the aging thyroid? An evidence-based analysis of the literature. J Thyroid Res 2013, 2013: 481287.
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  4. Gesing A, Lewiński A, Karbownik-Lewińska M. The thyroid gland and the process of aging; what is new? Thyroid Res 2012, 5: 16.
  5. Vanderpump MP, Tunbridge WM, French JM, et al. The incidence of thyroid disorders in the community: a twenty-year follow-up of the Whickham Survey. Clin Endocrinol (Oxf) 1995, 43: 55-68.
  6. Ajish TP, Jayakumar RV. Geriatric thyroidology: an update. Indian J Endocrinol Metab 2012, 16: 542-7.
  7. Jonklaas J, Bianco AC, Bauer AJ, et al. Guidelines for the treatment of hypothyroidism: prepared by the American Thyroid Association task force on thyroid hormone replacement. Thyroid 2014, 24: 1670-751.
  8. Cooper DS, Biondi B. Subclinical thyroid disease. Lancet 2012, 379: 1142-54.
  9. Rodondi N, den Elzen WP, Bauer DC, et al. Subclinical hypothyroidism and the risk of coronary heart disease and mortality. JAMA 2010, 304: 1365-74.
  10. Pearce SHS, Brabant G, Duntas LH, et al. 2013 ETA Guideline: management of subclinical hypothyroidism. Eur Thyroid J 2013, 2: 215-28.
  11. Castello R, Frigo A. Thyroid function and pathology in aging. Riv Ital Med Lab 2011, 7: 88-93.
  12. Bahn RS, Burch HB, Cooper DS, et al. Hyperthyroidism and other causes of thyrotoxicosis: management guidelines of the American Thyroid Association and American Association of Clinical Endocrinologists. Thyroid 2011, 21: 593-646.
  13. Collet TH, Gussekloo J, Bauer DC, et al. Subclinical hyperthyroidism and the risk of coronary heart disease and mortality. Arch Intern Med 2012, 172: 799-809.
  14. Biondi B, Bartalena L, Cooper DS, et al. The 2015 European Thyroid Association guidelines on diagnosis and treatment of endogenous subclinical hyperthyroidism. Eur Thyroid J 2015, 4: 149-63.
  15. Haugen BR, Alexander EK, Bible KC, et al. 2015 American Thyroid Association management guidelines for adult patients with thyroid nodules and differentiated thyroid cancer: the American Thyroid Association Guidelines task force on thyroid nodules and differentiated thyroid cancer. Thyroid 2016, 26: 1-133.
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Valentina Camozzi
UOC Endocrinologia, DIMED, Università di Padova

 

Nel corso della vita l’osso continua a compiere la funzione metabolica e quella di sostegno.
La prima consiste nella regolazione del bilancio elettrolitico e nel mantenimento dell’equilibrio acido-base: lo scheletro rappresenta un deposito di basi, al quale l’organismo può attingere, contiene la quasi totalità del calcio dell’organismo e, in caso di necessità, mette a disposizione lo ione, così da mantenere i livelli fisiologici della calcemia intra- ed extra-cellulari. Questo è fondamentale per garantire le funzioni che possono svolgersi solo in condizioni di livelli adeguati di calcio, come processi ormonali e metabolici, funzionalità delle membrane cellulari e mitocondriali, processi di calcificazione e di coagulazione.
La funzione di sostegno non è meno importante: garantisce la protezione degli organi e delle parti molli, consente il movimento dell’individuo.
Il depauperamento scheletrico nel tempo predispone al rischio di frattura, cui consegue non solo un peggioramento della qualità di vita, ma anche un aumento della morbilità e della mortalità. Le modifiche ossee avvengono attraverso le interazioni fra cellule, citochine e ormoni.

 

Le cellule ossee
Osteoblasti, osteoclasti e osteociti sono le cellule che regolano il rimodellamento osseo. Questo processo consente il continuo rinnovo scheletrico e comprende quattro fasi, di cui fondamentali sono il riassorbimento e l’osteoformazione. Nella prima, che dura circa 15 giorni, gli osteoclasti (OS) rimuovono velocemente l’osso danneggiato/invecchiato. Nella fase di osteoformazione, che dura oltre 3 mesi, gli osteoblasti (OB) producono la matrice collagenica, sulla quale verranno poi depositati i cristalli di idrossiapatite (fig).

 

 

Figura 1: il rimodellamento osseo (modificato da Baron R. Primer on the Metabolic Bone Diseases and Disorders of Mineral Metabolism, 5th ed 2003: pp 1-8.

 

Il principale regolatore della differenziazione osteoclastica è il RANK-L (Receptor Activator of Nuclear Factor Kappa B Ligand), una proteina di membrana solubile, che si lega al suo recettore (RANK), espresso dalle cellule della linea osteoclastica. Il RANK-L è prodotto dagli osteoblasti e dalle cellule T attivate. La formazione di osteoclasti è limitata dall’osteoprotegerina (OPG), un recettore solubile che si lega al RANK-L e che è prodotto dagli osteoblasti e dalle cellule stromali. La formazione di nuovo osso è sostenuta da vari fattori di crescita (IGF-I, IGF-II, FGF, TGF e PDGF), rilasciati dalla matrice ossea tramite l’attività di riassorbimento osteoclastico e che agiscono sugli osteoblasti (1).
Gli osteociti (OC) sono le cellule più longeve all'interno della matrice ossea e svolgono una varietà di funzioni, tra cui il controllo del rimodellamento osseo: sono in grado di segnalare la presenza di danni da rimuovere (microcracks) e promuovere l’autofagia, con lo scopo di eliminare organelli e macromolecole danneggiati, consentendo di mantenere la loro corretta funzione. Gli osteociti producono sclerostina, ormai considerata un importante regolatore della formazione ossea. La sclerostina, legandosi alla proteina LRP5, agisce interferendo con la via di segnale Wnt/ß-catenina, bloccando l’avvio dell’osteoformazione. I livelli circolanti di sclerostina aumentano con l'età e con il declino della funzione renale (2).

 

Gli ormoni
Gli estrogeni, grazie a complessi meccanismi che regolano la produzione di interleuchine e fattori di crescita, modulano il cross-talk OB/OS, interferendo con il sistema OPG/RANK/RANK-L e giocano un ruolo essenziale nel mantenimento della massa ossea sia femminile che maschile. Il ruolo dell’estrogeno è sicuramente più rilevante nella donna: con la menopausa si assiste a un improvviso aumento del turnover scheletrico.
Considerata la diversa durata delle fasi del rimodellamento, si determina uno squilibrio a favore del riassorbimento osseo: nei primi 10 anni dopo la menopausa le donne possono perdere fino al 20% del patrimonio scheletrico. Negli anni successivi, l'invecchiamento modifica il turnover osseo più lentamente, con un'ampia gamma di variazioni individuali. Nel tempo si assiste, in entrambi i sessi, a una ridotta funzionalità degli OB, correlata a una maggior quantità di tessuto adiposo nel midollo osseo: se questo rappresenti solo una sostituzione midollare o l’epifenomeno di modificazioni ormonali non è ancora chiaro (3).
Come noto, in corso di invecchiamento si assiste anche a una riduzione della produzione di GH, mentre il cortisolo tende ad aumentare: non è adeguatamente quantificabile l’effetto di queste variazioni sul metabolismo scheletrico.

 

La vitamina D
Nell’ambito delle variazioni ormonali va considerato anche lo stato vitaminico D, più frequentemente insufficiente nell’anziano. La vitamina D (vitD) o colecalciferolo in realtà è un pro-ormone, sintetizzato a livello cutaneo da un precursore (7-deidrocolesterolo), con successive idrossilazioni epatica (in posizione 25) e renale (in posizione 1), che conducono alla formazione della forma attiva (calcitriolo). Il calcitriolo è in grado di promuovere l’assorbimento di calcio, regolare la sintesi di PTH e stimolare la maturazione osteoclastica.
Le cause che conducono all’insufficienza di vitD nell’anziano sono dovute al ridotto apporto con gli alimenti, ma soprattutto alla mancanza di esposizione al sole e alla ridotta capacità della cute di produrre colecalciferolo. L’ipovitaminosi D contribuisce a ridurre l’assorbimento di calcio, che a sua volta stimola l’aumento del PTH, favorendo l’insorgenza di un quadro di osteoporomalacia. In corso di carenza, l’ipovitaminosi D si associa ad atrofia muscolare, facendo supporre anche un effetto diretto sul trofismo del muscolo da parte di questo ormone, non ancora completamente chiarito (4). Recentemente sono emerse anche possibili azioni extra-scheletriche della vitD, che potrebbero interferire con il funzionamento di altri sistemi (es. sistema immunitario e cardiovascolare) e lo sviluppo di numerose patologie (es. sclerosi multipla, diabete, ipertensione arteriosa, cancro del colon e della mammella), tanto che livelli ottimali risulterebbero associati a una riduzione della mortalità (5).

 

Le modifiche dell’architettura scheletrica
Si assiste nel tempo a una perdita globale di massa ossea. In particolare le trabecole della parte spongiosa si assottigliano e tendono a perforarsi, mentre a carico della porzione corticale delle ossa lunghe il tessuto diviene dapprima spongioso e poi si assiste a una progressiva riduzione dello spessore, con aumento del diametro endostale. Questo avviene in entrambi i sessi, ma è prevalente nella donna dopo la menopausa. Nel maschio, invece, persiste un’apposizione ossea sotto-periostea a carico delle ossa lunghe, mediata dagli androgeni, che in parte giustifica la maggior robustezza scheletrica nel genere maschile (6).

 

Le comorbilità e le terapie interferenti
La funzionalità renale si altera sia a causa della riduzione del numero dei nefroni funzionanti, sia per la presenza di alcune patologie che contribuiscono al suo declino (es. diabete, ipertensione, farmaci). L’insufficienza renale cronica, se di discreta entità, si associa all’aumento del PTH e interferisce sul metabolismo di escrezione dei marcatori ossei. In particolare, i marcatori di turnover osseo urinari possono risultare falsamente aumentati a causa della bassa escrezione di creatinina. Questo fenomeno può spiegare in parte la discrepanza fra il valore del turnover osseo e la valutazione densitometrica. Solo se l’insufficienza renale è severa, si altera l’idrossilazione renale della vitD, per minor efficacia della 1-alfa idrossilasi renale.
Diabete, broncopneumopatie, malattie reumatiche, cardiopatie, neoplasie, tutte patologie dannose per l’osso, tendono a essere più frequenti con l’età. La loro cura richiede un maggior uso di trattamenti che interferiscono con il metabolismo scheletrico, quali ad esempio i glucocorticoidi e i diuretici, nonchè il blocco ormonale impiegato nel caso del cancro della mammella o della prostata (7).
In particolare, in corso di diabete di tipo 2 e di terapia cortisonica si verificano alterazioni qualitative del collagene, con un aumento delle fratture anche per un T-score relativamente più alto: in questo caso la misura della densità minerale ossea può non rispecchiare la gravità del rischio fratturativo.
Lo sviluppo della sarcopenia è un'altra manifestazione di degrado del sistema muscolo-scheletrico: può essere rallentata da un corretto stile di vita, che include un adeguato apporto di proteine, vitD e minerali, oltre a un’adeguata attività fisica. Quest’ultima contribuisce non solo al mantenimento del trofismo muscolare, ma anche di quello scheletrico, in quanto lo stimolo meccanico agisce direttamente sull’osteoformazione.
La necessità di un aumentato apporto di calcio con alimenti o supplementi è giustificata non solo da una maggior prevalenza di ipovitaminosi D, ma anche dal fatto che la carenza estrogenica riduce l’assorbimento di calcio, per effetto diretto sull’enterocita e indiretto perché interferisce anche sull'attivazione della vitD mediata dalla 1-alfa-idrossilasi renale. La sarcopenia, specie se associata a disfunzione neuromuscolare e decadimento cognitivo, favorisce le cadute: in una situazione di aumentata fragilità ossea si stabilisce un circolo vizioso, che predispone esponenzialmente al rischio di frattura.

Concludendo, se lo scheletro continua a rappresentare “la banca del calcio” del nostro organismo, la fragilità ossea riconosce una genesi multifattoriale, è caratterizzata da alterazioni quantitative e qualitative, è condizionata da comorbilità, terapie, esercizio fisico e stato nutrizionale, risultando pertanto strettamente individuale (8).

 

Bibliografia

  1. Brincat SD, Borg M, Camilleri G, Calleja-Agius J. The role of cytokines in postmenopausal osteoporosis. Minerva Ginecol 2014, 66: 391-407.
  2. Jilka RL, O'Brien CA. The role of osteocytes in age-related bone loss. Curr Osteoporos Rep 2016, 14: 16-25.
  3. Khan H, Mafi P, Mafi R, Khan W. The effects of ageing on differentiation and characterisation of human mesenchymal stem cells. Curr Stem Cell Res Ther 2016, DOI: 10.2174/1574888X11666160429122527.
  4. Vanderschueren D, Vandenput L, Boonen S, et al. Androgens and bone. Endocr Rev 2004, 25: 389-425.
  5. Van der Meijden K, Bravenboer N, Dirks NF, et al. Effects of 1,25(OH)2 D3 and 25(OH)D3 on C2C12 myoblast proliferation, differentiation, and myotube hypertrophy. J Cell Physiol 2016, 231: 2517-28.
  6. Pilz S, Grübler M, Gaksch M, et al. Vitamin D and mortality. Anticancer Res 2016, 36: 1379-87.
  7. Holm JP, Hyldstrup L, Jensen JB. Time trends in osteoporosis risk factor profiles: a comparative analysis of risk factors, comorbidities, and medications over twelve years. Endocrine 2016, 54: 241–55.
  8. Oei L, Zillikens MC, Rivadeneira F, Oei EH. Osteoporotic vertebral fractures as part of systemic disease. J Clin Densitom 2016, 19: 70-80.
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Maria Grazia Deiana e Salvatore Monti
UOC Endocrinologia, AO Sant’Andrea, Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma

(aggiornato al 21 febbraio 2017)

 

Il rilascio di CRH, ACTH e cortisolo in risposta allo stress è un meccanismo di vitale importanza per l’organismo. L’attivazione dell’HPA non è importante solo per la risposta allo stress, ma sembra giocare un ruolo nei cambiamenti a lungo termine dei centri della memoria ed è responsabile della formazione della memoria a lungo termine, garantendo la risposta futura nei confronti di simili eventi stressanti. La risposta cronica allo stress può danneggiare alcune aree cerebrali responsabili della memoria e dell’apprendimento, quali la corteccia prefrontale, i neuroni para-ventricolari e l’ippocampo. Queste aree giocano un ruolo nel feed-back negativo del cortisolo su HPA, pertanto una loro alterazione potrebbe essere causa di un mancato feed-back negativo e di conseguenza di un eccesso di GC.
Studi animali hanno dimostrato che nel sistema nervoso centrale (SNC) il recettore per i glucocorticoidi (GR) è espresso ubiquitariamente, ma prevalentemente a livello ipotalamico e nelle cellule corticotrope ipofisarie, mediando a questo livello la risposta allo stress. Il recettore per i mineralcorticoidi (MR) ha invece una distribuzione nel SNC più ristretta, localizzandosi anche a livello ipotalamico, ma prevalentemente nelle strutture limbiche e in particolar modo a livello dell’ippocampo, dove perde la sua selettività verso i mineralcorticoidi, mostrando un’affinità di legame per i GC 10 volte maggiore rispetto al GR.
A livello cerebrale con l’avanzare dell’età il numero di GR e soprattutto MR dell’ippocampo si riduce, causando un’ulteriore insensibilità al feed-back negativo del cortisolo. La secrezione alterata di GC sembra essere coinvolta in alcune malattie correlate all’età: depressione, disordini cognitivi e malattia di Alzheimer. La maggior parte dei cambiamenti correlati all’età è simile a quelli riportati in persone affette da ipercortisolismo (figura): con l’avanzare dell’età, l’asse HPA sembra essere iperattivo, soprattutto nelle donne, sebbene i dati a sostegno di questa teoria siano comunque limitati. In realtà l’attività dell’HPA può presentare una variabilità tra i diversi individui e l’età non necessariamente conduce a un’iperattività dell’asse, che può mantenersi nella norma.

 

Questi sono i principali effetti sull’asse CRH-ACTH-surreni (HPA) legati all’età riportati in letteratura:

  • incremento del cortisolo plasmatico totale e libero nelle 24 ore, con CLU invariato;
  • incremento della secrezione giornaliera di cortisolo (misurata attraverso il cortisolo salivare), soprattutto serale e notturna;
  • riduzione di ampiezza della secrezione del cortisolo nelle 24 ore;
  • incremento della frammentazione della secrezione del cortisolo;
  • incremento della produzione di corticosterone;
  • lieve riduzione nella clearance plasmatica del cortisolo;
  • lenta e ridotta soppressione al desametasone;
  • riduzione della risposta del cortisolo all’ACTH;
  • ridotta risposta di cortisolo e ACTH a eventi stressanti, sebbene siano presenti dati contrastanti;
  • nessun cambiamento nella cortisol-binding globulin (CBG)
  • nessuna modifica nella risposta di ACTH a CRH, sebbene vi sia una ridotta abilità del desametasone nel sopprimere la risposta.

Con l’avanzare dell’età vi è una marcata riduzione dei C19 steroidi (DHEA e DHEA-S), con riduzione degli ormoni sessuali, in quanto i precursori surrenalici degli steroidi sono convertiti in androgeni e/o estrogeni nei tessuti periferici. Il declino dei C19 steroidi avviene fino ai 60 anni, successivamente il declino è meno drammatico. Vi è inoltre un marcato declino del pregnenolone e pregnenolone solfato, sia nelle donne che negli uomini. La presenza di livelli relativamente normali di 17OH-progesterone, progesterone e cortisolo dimostrerebbe come l’enzima 17,20 liasi (desmolasi) sia età-sensibile.
Sono stati condotti molti studi per valutare il ruolo di alcuni ormoni nell’indurre sarcopenia nell’anziano.
Nella patogenesi della sarcopenia sembra coinvolto l’aumento di produzione di cortisolo correlato all’età. Nel muscolo scheletrico i glucocorticoidi inibiscono la sintesi proteica e stimolano la proteolisi, inducendo di conseguenza un effetto catabolico sul muscolo. Rispetto a un gruppo di controllo di soggetti sani, nei pazienti sarcopenici vi è una disfunzione dell’HPA e un aumento dei livelli di cortisolemia, associato a un alterato metabolismo dei GC a livello muscolare. L’esposizione locale ai GC è regolata dall’enzima 11β-OH-steroido-deidrogenasi tipo I, che converte il cortisone in cortisolo (forma inattiva in forma attiva). Nel muscolo di soggetti anziani, oltre a un’aumentata produzione di GC, è stato dimostrato un aumento dell’attività di questo enzima, che può contribuire alla sarcopenia. Si ipotizza quindi una possibile terapia della sarcopenia attraverso l’inibizione selettiva dell’enzima 11β-OH-steroido-deidrogenasi tipo I.
Il muscolo scheletrico è in grado di convertire il DHEA in androgeni ed estrogeni. Per trattare la sarcopenia dell’anziano è stata valutata l’efficacia della terapia sostitutiva con DHEA: ci sono studi contraddittori e una recente revisione ha riportato l’assenza di beneficio sulla forza muscolare.
Un aspetto importante nell’età avanzata è la gestione della terapia sostitutiva con glucorticoidi (idrocortisone o cortone acetato) nei soggetti con ipofunzione dell’asse HPA. La terapia sostitutiva deve essere effettuata tenendo presente il rischio di effetti collaterali legati a un eccesso di terapia, quali osteoporosi, alterazioni metaboliche, morte causata da eventi cardio- e cerebro-vascolari; pertanto è sicuramente necessaria la dose sostitutiva minima efficace. La terapia sostitutiva con DHEA, invece, trova numerosi limiti e sono insufficienti gli studi in letteratura volti a valutarne l’efficacia.
Possiamo quindi concludere che con l’avanzare dell’età può svilupparsi un’iperattivazione dell’asse HPA, con perdita del ritmo circadiano; va comunque ricordato che vi è una variabilità tra i diversi individui e che l’invecchiamento non necessariamente conduce a un’iperattività dell’asse HPA, che può mantenersi anche nella norma. È certo che l’avanzare dell’età conduca inoltre a un progressivo declino della produzione di DHEA e DHEA-S, ma i dati riguardanti il loro trattamento sostitutivo sono insufficienti. È da ricordare infine l’elevata incidenza di malattie stress-dipendenti, come la depressione, in cui gioca un ruolo importante la produzione di glucocorticoidi.

 

Bibliografia

  1. Gupta D, Morley JE. Hypothalamic-pituitary-adrenal (HPA) axis and aging. Compr Physiol 2014, 4: 1495-510.
  2. Vitale G, Cesari M, Mari D. Aging of the endocrine system and its potential impact on sarcopenia. Eur J Intern Med 2016, 35: 10–5.
  3. Berardelli R, et al. Role of mineralocorticoid receptors on the hypothalamus–pituitary–adrenal axis in humans. Endocrine 2013, 43: 51–8.
  4. Goncharova ND. Stress responsiveness of the hypothalamic–pituitary–adrenal axis: age-related features of the vasopressinergic regulation. Front Endocrinol 2013, 4: 26.
  5. Chahal HS, Drake WM. The endocrine system and ageing. J Pathol 2007, 211: 173–80.
  6. Curtò L. Trimarchi F. Hypopituitarism in the elderly: a narrative review on clinical management of hypothalamic-pituitary-gonadal, hypothalamic-pituitary-thyroid and hypotalamic-pituitary adrenal axes dysfunction. J Endocrinol Invest 2016, 39: 1115-24.
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Mauro Giovanni Schiesaro
UOC Medicina Generale, Ospedale Classificato Villa Salus, Mestre (VE)

(aggiornato al 1 novembre 2017)

 

FISIOPATOLOGIA

L’ipogonadismo maschile dell’adulto/anziano (Late Onset Hypogonadism o LOH) viene abitualmente definito come una sindrome clinica che deriva dal riscontro di livelli ridotti di testosterone (T) ed alterazioni della spermatogenesi conseguenti a patologie dell’asse GnRH-Gn-testicolo (HPG).
È ormai assodato che il processo di invecchiamento determina una progressiva ed inesorabile riduzione della secrezione di T, quantificabile, a partire dall’età di 40 anni, in misura di 0.1 nmol/L all’anno (0.04% per anno) per il T Totale (TT) e di 3.83 pmol/L (0.77% per anno) per quanto riguarda invece il T Libero (fT) (1). All’età di circa 70 anni un maschio ha quindi perduto almeno un buon 30% della sua secrezione di T, se paragonata a quella misurabile in età di giovane adulto. In buona sostanza, nella fascia di età > 60 anni, circa il 20-30% dei soggetti di sesso maschile presenta una ridotta secrezione di T e questa percentuale è destinata ad aumentare progressivamente con l’aumentare dell’età, fenomeno diventato ancor più evidente negli ultimi anni rispetto al passato. Come conseguenza di ciò, il volume testicolare del maschio di età > 75 anni è inferiore del 31% circa rispetto a un uomo di età compresa tra 18 e 40 anni (2) e anche le cellule del Leydig si riducono di circa il 40% nelle stesse fasce di età (3).
In realtà l’invecchiamento è in grado di causare alterazioni a vari livelli dell’asse HPG, anche grazie anche all’intervento di altri fattori, quali malattie croniche, alterazioni del peso corporeo e del BMI, stili di vita e uso di farmaci. Sebbene il declino della funzione testicolare sembri essere il meccanismo principale che determina la riduzione età-correlata di T, anche la riduzione di GnRH gioca un ruolo, con consensuale alterazione della funzionalità dell’asse HPG.
Con l’aumentare dell’età, aumenta anche la massa grassa, con un picco che si raggiunge normalmente a circa 65 anni: il T è ridotto nei maschi obesi rispetto a quelli normopeso ed anche la concentrazione di T si riduce con l’età in modo più evidente negli obesi. Al contrario di quanto ci si potrebbe attendere, LH non è più elevato negli obesi rispetto ai normopeso, denotando come questo dato possa essere quindi conseguenza di alterazioni dell’asse HPG, causate da aumento delle citochine o da insulino-resistenza (4).
Anche le patologie croniche contribuiscono alla riduzione di T con il progredire dell’età ed è infatti osservazione comune come i pazienti affetti da malattie croniche (neoplasie, BPCO, cardiopatie, IRC, diabete, ecc) abbiano livelli ridotti di T rispetto ai soggetti sani, fenomeno anche in questo caso legato a incremento delle citochine pro-infiammatorie (5). Ma a ciò possono contribuire anche i farmaci utilizzati per il trattamento delle patologie stesse.

 

DIAGNOSI

Resta ancora da stabilire quale sia il reale valore del T al di sotto del quale si possa formulare la diagnosi di LOH, perchè in letteratura numerosi studi, linee guida e opinione di esperti hanno portato a conclusioni diverse. In ogni caso, tutti questi lavori orientano per una concentrazione di TT che deve essere inferiore a un range compreso tra 1.85 e 3.0 ng/mL. Fondamentale è la necessità di avere almeno 2 determinazioni di TT. Il gold standard della determinazione del TT è rappresentato dal dosaggio con spettrometria di massa, in particolar modo tramite cromatografia liquida abbinata. In realtà questa metodica viene utilizzata quasi esclusivamente per fini di ricerca. Di comune utilizzo è invece la metodica immunometrica, anche se questa viene considerata poco attendibile se paragonata al gold standard.
Il dosaggio del fT può essere eseguito tramite dialisi all’equilibrio o con metodi di ultra-filtrazione, che, comunque non possono essere applicati routinariamente alla pratica clinica; d’altra parte, le misurazioni dirette di fT vengono considerate inaffidabili e quindi poco accurate, per cui viene caldamente suggerito di ricorrere alla determinazione di TT per la diagnosi (6). Il modo migliore per ottenere una stima di fT è il calcolo a partire dal dosaggio di TT, correlandolo con i valori di SHBG e albumina, con la formula di Vermeulen, disponibile anche online (http://www.issam.ch/freetesto/htm).
Sono state documentate ampie variazioni di T, sia durante la giornata che in relazione alle stagioni; in conseguenza di queste osservazioni, T dovrebbe essere dosato al mattino ed eventuali valori bassi devono essere confermati con un secondo dosaggio, ottenuto almeno 2-4 settimane dopo il primo.
La diagnosi comunque richiede anche la presenza di segni e sintomi clinici che non sono di agevole riconoscimento, considerato che molti di questi possono essere ricondotti al processo di invecchiamento di per sé. I sintomi più specifici di LOH sono quelli riguardanti la sfera sessuale, mentre risultano meno specifici quelli riguardanti composizione corporea, BMD e rischio di fratture, alterazioni del tono dell’umore, ecc (tab 1).

 

Tabella 1
Sintomi di ipogonadismo
Aspecifici Astenia
Adiposità viscerale
Riduzione BMD e aumento rischio di fratture
Riduzione della statura
Alterazioni del tono dell’umore
Difficoltà di concentrazione
Perdita di memoria
Ginecomastia
Specifici Disfunzione erettile
Riduzione volume testicolare
Vampate
Riduzione volume ejaculato
Riduzione del desiderio sessuale
Riduzione dei peli corporei

 

Secondo lo studio EMAS (7), la coesistenza di livelli ridotti di TT con almeno 3 dei principali sintomi riguardanti la sfera sessuale, permette di quantificare la prevalenza del LOH in una quota pari a circa il 2.1% del totale dei soggetti di età compresa tra 45 e 79 anni, decisamente inferiore alle percentuali rilevabili con il solo dosaggio del TT. Diventa quindi estremamente importante comprendere come l’esistenza di una correlazione tra riduzione di livelli di T e sintomatologia non necessariamente esprima un nesso causale.
In linea generale possiamo distinguere 2 forme principali di ipogonadismo:

  1. primitivo (o ipergonadotropo), da testicolopatia primitiva, caratterizzato da ridotti livelli di T con gonadotropine elevate;
  2. secondario (o ipogonadotropo), caratterizzato da insufficienza ipotalamo-ipofisaria con conseguente riduzione dei livelli di gonadotropine e, di conseguenza, anche di T.

Nel maschio anziano è abbastanza comune il riscontro del cosiddetto “ipogonadismo compensato”, caratterizzato da livelli di T nel range di normalità, con Gn elevate, la cui prevalenza è destinata a incrementarsi con l’età e che sembra essere una condizione subclinica che potenzialmente può evolvere verso un manifesto ipogonadismo primitivo. Lo studio EMAS ha confermato come l’avanzamento dell’età correli con la possibilità di sviluppare ipogonadismo primitivo e non secondario, essendo quest’ultimo invece strettamente correlato con le comorbilità che accompagnano il processo di invecchiamento.
L’anamnesi è essenziale per riconoscere i sintomi legati all’ipogonadismo, che appartengono principalmente alla sfera sessuale e fisica. I questionari creati ad hoc per riconoscere i maschi anziani affetti da ipogonadismo non sono sufficientemente sensibili né specifici per poterne proporre un utilizzo su larga scala.

 

 

CONSEGUENZE DELL’IPOGONADISMO

È ormai accertato come i maschi di età > 65 anni affetti da LOH abbiano una spettanza di vita inferiore rispetto ai controlli “sani”, e questo fenomeno è dipendente dalla gravità biochimica del deficit di TT ma anche dal numero di sintomi correlabili con la patologia (8).

 

Malattie cardio-vascolari
La relazione tra livelli di T e patologia CV rappresenta a tutt’oggi oggetto di controversie. Tre metanalisi pubblicate nel 2011 riconoscono una correlazione tra riduzione del T e aumento della mortalità totale ed anche della mortalità per patologia CV, come pure i dati provenienti dal Rancho Bernardo Study, ma non sono state in grado di riscontrare correlazioni per quanto riguarda l’incidenza di eventi non fatali, fatta eccezione per i soggetti di età > 70 anni (9-10).
In ogni caso, è stata dimostrata una correlazione negativa tra T e progressione dell’arteriosclerosi aortica e sempre una correlazione negativa con ipertensione arteriosa, iperinsulinemia, adiposità viscerale, mentre è incerta l’associazione con HDL-colesterolo. Alcuni studi che hanno analizzato il ruolo del T nei soggetti con malattia coronarica o non sono riusciti nell’intento di trovare una correlazione, oppure hanno dimostrato una correlazione negativa, sia per quello che riguarda il T totale che il biodisponibile (11).
Nei soggetti con insufficienza cardiaca cronica è stata riscontrata una correlazione inversa tra TT e classe NYHA, essendo questa maggiore nei pazienti con TT più basso (12).

 

Osso
Sia gli androgeni che gli estrogeni rivestono un ruolo importante nel determinare la salute dell’osso nel maschio. Sebbene alcuni studi abbiano correlato la densità minerale ossea del femore con i bassi livelli di T biodisponibile, in realtà la maggior parte dei dati orienta verso una maggiore correlazione con l’estradiolo, come dimostrato anche per quanto riguarda il turn-over osseo nei maschi di età > 50 anni, sia a livello femorale che lombare. In ogni caso, sia la riduzione di T che di E2 è stata associata al rischio di fratture da fragilità.
La prevalenza di osteoporosi nei maschi di età > 50 anni è pari al 3-6% e un valore di TT < 6.9 nmol/L (2 ng/mL) è stato associato con un aumento della prevalenza di osteoporosi. Gli stessi valori di TT sono stati anche associati con un incremento del rischio fratturativo delle sedi extra-vertebrali, in particolar modo del femore nei soggetti con età > 60 anni. In realtà anche altri fattori caratteristici del processo di invecchiamento, oltre al calo dei livelli di TT, sono stati associati con un incremento del rischio di sviluppare osteoporosi, quali l’inattività fisica e il calo ponderale. In aggiunta a ciò vanno aggiunti altri fattori di rischio, caratteristici dell’età avanzata, quali farmaci (es. steroidi) e pregresse fratture oltre al fumo di sigaretta e al basso introito alimentare di calcio. Per questi motivi, viene suggerita una valutazione individuale e periodica riguardante i fattori di rischio di osteoporosi nei maschi di età > 65 anni, con lo scopo di identificare gli idonei a uno screening DEXA, anche per una quantificazione basale idonea al follow-up dell’efficacia di un eventuale trattamento sostitutivo (13).

 

Stato cognitivo e umore
È ormai ben documentata l’associazione tra la riduzione dei livelli plasmatici di T e la presenza e gravità di depressione, sebbene alcune osservazioni sembrino riscontrare una correlazione con il disturbo distimico, piuttosto che con le forme di depressione maggiore. Come per il tono dell’umore, vi sono numerose evidenze che riguardano lo scadimento di alcuni parametri riguardanti le funzioni cognitive, con il progressivo ridursi della testosteronemia (14).

 

Funzione sessuale e libido
Con il progredire dell’età, è frequente l’osservazione anche di una consensuale riduzione del desiderio e delle performance sessuali. Sempre lo studio EMAS (7) ha valutato i rapporti esistenti tra 32 sintomi potenzialmente correlabili a LOH e livelli subnormali di T, concludendo che solo 9 di questi correlavano in modo significativo e negativamente con i livelli sia di TT che di fT; tra questi, tre sintomi riguardano la sfera sessuale:

  • massimo 1 erezione al risveglio in un mese;
  • mai o raramente erezioni valide da consentire un rapporto;
  • fantasie o pensieri legati al sesso in numero massimo compreso tra 2 e 3 volte nell’ultimo mese.

Sempre secondo gli autori, l’assenza di sintomi legati alla sfera sessuale consente di escludere con ottima probabilità il LOH e la loro presenza, pur non essendo caratteristica esclusiva, rafforza il sospetto e attribuisce maggior valore ai sintomi cosiddetti meno specifici o minori.

 

Diabete mellito
Numerosi studi hanno dimostrato l’associazione tra diabete mellito tipo 2 e ipogonadismo maschile. I meccanismi che sottendono a questa associazione sono rappresentati essenzialmente dall’obesità e dall’insulino-resistenza. In realtà l’associazione è reciproca, dal momento che ridotti livelli di T sono in grado di indurre obesità e DM2, ma anche le modificazioni della massa corporea, quali aumento del BMI, obesità centrale e sindrome metabolica possono alterare il metabolismo del T. Nel tessuto adiposo avviene, infatti, la conversione di T in E2 e, se questa è esaltata come nell’obeso, si può giungere ad alterare la pulsatilità di LH; d’altra parte, è ormai noto come il tessuto adiposo svolga il ruolo di organo endocrino e, tramite adipochine e leptina ed anche grazie ad alterazioni di SHBG, è in grado di ridurre direttamente la produzione testicolare di T. In buona sostanza i maschi diabetici hanno una maggiore prevalenza di ipogonadismo, ma l’ipotestosteronemia, alterando le proporzioni corporee, può indurre l’insorgenza di fattori predisponenti il DM2 (15).

 

Condizioni particolari
Una maggior prevalenza di ipogonadismo si può osservare in alcune patologie, quali quelle croniche di fegato, che vanno dall’epato-steatosi alla cirrosi epatica, legato soprattutto alla maggior produzione di SHBG ed estrogeni, con il caratteristico effetto di inibizione sulle gonadotropine, ma anche in patologie croniche polmonari quali la BPCO, nelle quali la percentuale di soggetti ipogonadici varia dal 22 al 69%. L’osservazione che l’ossigeno-terapia è in grado di migliorare la funzione gonadica ha condotto al postulato che l’ipossiemia cronica sia in grado di alterare la funzione ipotalamo-ipofisaria, conducendo quindi alla conclusione dell’esistenza di ipogonadismo di tipo secondario, direttamente correlato alla gravità della malattia bronco-ostruttiva.
Anche nell’insufficienza renale cronica è stata dimostrata un’elevata prevalenza di soggetti ipogonadici, come conseguenza di una testicolopatia primitiva. Il trattamento sostitutivo dialitico non comporta alcun miglioramento sulla funzione gonadica, che però avviene nei soggetti sottoposti a trapianto renale.
Altre patologie sistemiche
, quali l’emocromatosi e la ß-talassemia, sono in grado di indurre ipogonadismo e la prevalenza di questa alterazione aumenta con l’età.
Non è trascurabile la possibilità di osservare ipogonadismo nei soggetti sottoposti a trattamenti chemioterapici o per patologie reumatiche.
In ogni caso, il rapporto ipogonadismo/patologie croniche è di tipo reciproco: il LOH è in grado di indurre o esacerbare queste patologie, ma le stesse possono indurre l’alterata secrezione di T, che diventa reversibile con il trattamento o la guarigione della patologia di base; le stesse osservazioni riguardano anche le malattie acute. L’alterazione dell’asse HPG osservabile nelle patologie croniche può essere considerata un meccanismo di adattamento che consente di deviare le energie che verrebbero utilizzate per la funzione riproduttiva, verso altre destinazioni, più utili per il mantenimento dello stato di salute. La testosteronemia può crollare anche durante patologie acute critiche, indipendentemente dalla natura o dalla sede della patologia. In questi casi, l’ipogonadismo, che peraltro è reversibile una volta avvenuta la guarigione, è di tipo secondario. La sepsi è in questo senso un esempio paradigmatico, come pure l’infezione da HIV, che determina una riduzione di T nei giovani fino a interessarne il 25%, aumentando però con il progredire dell’età.
Particolare attenzione merita il paziente “fragile”. In generale con il termine fragilità non si intende solamente la coesistenza di alcune patologie ad andamento cronico, ma soprattutto una serie di condizioni, quali la sarcopenia, l’osteoporosi, la riduzione delle autonomie, in particolar modo quella deambulatoria, e dell’acuità visiva, deficit mnesici, che insieme contribuiscono a esporre il soggetto a eventi avversi, quali le cadute, e che comunque sono parte integrante del processo di invecchiamento. La fragilità e la sarcopenia hanno mostrato un’associazione inversa con i livelli di T.

 

 

TERAPIA SOSTITUTIVA

Numerosi sono i fattori coinvolti nella patogenesi dell’ipogonadismo età-correlato, almeno in parte reversibili, per cui deve sempre essere consigliata la modificazione dello stile di vita (abolire l’uso del tabacco, migliorare l’attività fisica e il rapporto massa magra/massa grassa), sia con lo scopo di evitare l’ipotestosteronemia sia per migliorare la qualità di vita del soggetto anziano. Non solo, ma anche la guarigione da patologie acute o il miglioramento clinico ottenibile nelle patologie croniche possono modificare in senso positivo la secrezione testicolare di T.
I pazienti candidati a trattamento sostitutivo sono quelli cui è stato documentato LOH e che non abbiano controindicazioni al trattamento stesso. Al momento c’è consenso nello sconsigliare il trattamento nei soggetti con livelli di T superiori o comunque molto prossimi a 12 nmo/L (3.5 ng/mL).
Sicuramente la terapia sostitutiva provoca un miglioramento della funzione sessuale e anche della composizione corporea. Per quanto riguarda il rischio CV, su 5 metanalisi, solo una ha dimostrato un incremento del rischio CV, mentre le altre 4 non hanno confermato questa rilevazione.
Le controindicazioni sono rappresentate dalla presenza di carcinoma prostatico o mammario, ematocrito > 50%, apnee notturne, PSA > 4 e storia di accidente vascolare negli ultimi 6 mesi, insufficienza cardiaca classe NYHA ≥ III.

 

 

PER INVECCHIAMENTO GONADE FEMMINILE VEDI MENOPAUSA

 

 

BIBLIOGRAFIA

  1. Camacho EM, et al. Age-associated changes in hypothalamic-pituitary-testicular function in middle-aged and older men are modified by weight change and lifestyle factors: longitudinal results from the European Male Ageing Study. Eur J Endocrinol 2013, 168: 445-55.
  2. Mahmoud AM, et al. Testicular volume in relation to hormonal indices of gonadal function in community-dwelling elderly men. J Clin Endocrinol Metab 2003, 88: 179-84.
  3. Neaves WB, et al. Leydig cell numbers, daily sperm production, and serum gonadotropin levels in aging men. J Clin Endocrinol Metab 1984, 59: 756-63.
  4. Gamba M, Pralong FP. Control of GnRH neuronal activity by metabolic factors: the role of leptin and insulin. Mol Cell Endocrinol 2006, 254-255: 133-9.
  5. Jagannathan-Bogdan M, et al. Elevated proinflammatory cytokine production by a skewed T cell compartment requires monocytes and promotes inflammation in type 2 diabetes. J Immunol 2011, 186: 1162-72.
  6. Dean J, et al. The International Society for Sexual Medicine's process of care for the assessment and management of testosterone deficiency in adult men. J Sex Med 2015, 12: 1660-86.
  7. Wu FC, et al. Identification of late-onset hypogonadism in middle-aged and elderly men. N Engl J Med 2010, 363: 123-35.
  8. Pye SR, et al. Late-onset hypogonadism and mortality in aging men. J Clin Endocrinol Metab 2014, 99: 1357-66.
  9. Araujo AB, et al. Endogenous testosterone and mortality in men: a systematic review and meta-analysis. J Clin Endocr Metab 2011, 96: 3007-19.
  10. Ruige JB, et al. Beneficial and adverse effects of testosterone on the cardiovascular system in men. J Clin Endocrinol Metab 2013, 98: 4300-10.
  11. Walsh JP, Kitchens AC. Testosterone therapy and cardiovascular risk. Trends Cardiovasc Med 2015, 25: 250-7.
  12. Jankowska EA, et al. Anabolic deficiency in men with chronic heart failure: prevalence and detrimental impact on survival. Circulation 2006, 114: 1829-37.
  13. Decaroli MC, Rochira V. Aging and sex hormones in males. Virulence 2017, 8: 545-70.
  14. Barrett-Connor E, et al. Bioavailable testosterone and depressed mood in older men: the Rancho Bernardo Study. J Clin Endocrinol Metab 1999, 84: 573-7.
  15. Beatrice AM, et al. Testosterone levels and type 2 diabetes in men: current knowledge and clinical implications. Diabetes Metab Syndr Obes 2014, 7: 481-6.
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Maurizio Nizzoli
UO Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Dipartimento di Medicina Specialistica, Ospedale GB Morgagni, Forlì

 

L'invecchiamento comporta inevitabilmente un declino del metabolismo, con conseguente maggiore incidenza nell'anziano delle patologie ad esso correlate, quali il diabete di tipo 2 e le malattie cardio- e cerebro-vascolari. Alla progressiva perdita della capacità di mantenere l'omeostasi dei processi metabolici contribuiscono fattori quali l'insulino-resistenza (con perdita di controllo della gluconeogenesi epatica, aumentata lipogenesi nel tessuto adiposo, riduzione della sintesi del glicogeno e dell'assorbimento del glucosio nel muscolo scheletrico), l'obesità addominale (che può essere presente anche in coloro che presentano un BMI normale) e l'incremento delle citochine pro-infiammatorie (PAI-1, leptina, TNF-alfa, IL-6), che interferiscono negativamente con l’azione insulinica, a causa del maggior grasso viscerale e dei processi di senescenza cellulare.
Se altre citochine prodotte dal tessuto adiposo aumentano l'insulino-resistenza, all'opposto l'adiponectina possiede proprietà pro-insulinica e anti-infiammatoria, è un potente attivatore dell'AMPK (AMP-activated protein Kinase) ed aumenta paradossalmente nei soggetti magri o sottoposti a restrizione calorica. Livelli più elevati di adiponectina sono stati riscontrati sia in gruppi familiari di centenari sia in linee di topi mutanti longevi.
Lo stato pro-infiammatorio legato all'invecchiamento, l'obesità e l'insulino-resistenza (quest'ultima riducendo la sintesi proteica) sono poi concause della sarcopenia (perdita di massa muscolare scheletrica), che a sua volta genera nell’anziano debolezza muscolare e disabilità.
Altra manifestazione dell'invecchiamento è il declino delle funzioni mitocondriali. La teoria mitocontriale dell'invecchiamento, nel quale giocherebbe un ruolo eziologico importante la ridotta protezione dagli stress delle reazioni di ossidoriduzione, presenta ancora aspetti controversi, tuttavia negli umani è stata dimostrata una correlazione fra l’insulino-resistenza e la ridotta tolleranza glucidica da un lato e, dall’altro, la riduzione dell'attività ossidativa mitocondriale e ATPasica, sia in soggetti con diabete di tipo 2 che in studi di comparazione fra soggetti sani giovani e anziani.
Varie funzioni endocrine presentano un rallentamento legato all'età e ciò ha comportato l'effettuazione di studi volti a verificare le possibilità di controllare l'invecchiamento attraverso trattamenti ormonali sostitutivi.
Lo studio WHI (Women's Health Initiative), a suo tempo realizzato per testare le possibilità di migliorare l'invecchiamento attraverso l'impiego di estroprogestinici in donne anziane, fu interrotto precocemente per l'aumentata incidenza di malattie cardio-vascolari, declino cognitivo e cancro della mammella. Le donne in post-menopausa presentano un incremento delle citochine infiammatorie e della senescenza cellulare e per contro una minore capacità di riparazione cellulare: estrogeni e altri ormoni (es. GH/IGF-1) potrebbero aggravare tale stato, agendo in questa situazione non come promotori di sviluppo ma come cancerogeni.
Con l'età, anche i livelli di IGF-1 si riducono, comportando un maggior rischio di DM2, malattie cardio-vascolari, sarcopenia, osteoporosi. L'utilizzo del GH come "terapia dell'invecchiamento" non è tuttavia autorizzato: i livelli elevati di IGF-1 riscontrati nella pubertà comporterebbero nell’anziano un maggior rischio di cancro. Si è però dimostrato in studi su invertebrati e roditori che l'attenuazione dell’IIS (insulin/IGF-1 signaling: si prende in considerazione un unico “signaling” dato che la via intra-cellulare che informa della presenza del glucosio è la stessa per l’IGF–1 e per l’insulina) comporta un ampliamento della durata della vita; lo stesso avviene negli umani portatori di mutazioni funzionali del IGF-1R.
Gli ormoni tiroidei regolano il dispendio energetico. Si è dimostrato che nei ratti giovani un ipotiroidismo sperimentalmente indotto aumenta la durata della vita, mentre un ipertiroidismo indotto per contro la riduce. L'ipotiroidismo potrebbe migliorare l'aspettativa di vita, riducendo metabolismo, temperatura corporea e consumo d'ossigeno, con ciò riducendo il danno da ossidazione. L'ipotiroidismo subclinico è associato a una minore mortalità femminile, è ereditario in famiglie particolarmente longeve e può associarsi a polimorfismo del recettore del TSH: pertanto, nei soggetti anziani con ipotiroidismo asintomatico il trattamento tiroxinico sostitutivo potrebbe essere non necessario ed anzi potenzialmente dannoso.
La riduzione sperimentalmente indotta dell'insulino-resistenza nei roditori ed in altri mammiferi ha comportato un aumento della longevità. Nella realtà clinica, la riduzione dell'insulino-resistenza può essere ottenuta farmacologicamente (es. con metformina). Va però ricordato che per alcuni tessuti l'insulino-resistenza costituisce una difesa da un eccessivo apporto nutrizionale alle cellule, varia da organo a organo (contribuendo a indirizzare i principi nutritivi verso il tessuto adiposo) e potrebbe costituire una difesa contro lo stress ossidativo (come dimostrato in studi su invertebrati e topi). Pertanto, la riduzione dell'insulino-resistenza nell'uomo è utile nel trattamento del diabete, ma, senza concomitanti cambiamenti nello stile di vita, potrebbe esporre a complicanze dovute all'eccesso di nutrienti e ad inadeguate difese dallo stress ossidativo.
Studi genetici hanno infine consentito di individuare nel gene FOXO3A (attivo nella regolazione dell’azione insulinica e della resistenza allo stress, nonché parte degli effettori a valle della via IIS) un’importante causa di aumento dell’aspettativa di vita. Anche la variante 405VV del CETP (gene della cholesterol ester transfer protein), comportando minori concentrazioni di CETP e conseguentemente un aumento del colesterolo HDL e delle dimensioni delle HDL, svolge negli individui omozigoti un ruolo protettivo nei confronti delle malattie cardio-vascolari e del morbo di Alzheimer; un inibitore del CETP è attualmente allo studio e potrebbe condurre alla produzione di una nuova classe di farmaci.
Le strategie individuate al fine di rallentare l’invecchiamento agendo sulle vie del metabolismo si basano essenzialmente da un lato sulla restrizione calorica e/o sulla riduzione del grasso viscerale e dall’altro su interventi farmacologici.
La restrizione calorica si è dimostrata in grado di allungare mediamente la vita sia degli organismi semplici che di quelli più complessi, come i mammiferi, nei quali previene l’obesità, l’aumento del grasso viscerale e la progressiva perdita d’efficacia dell’azione insulinica a livello epatico e periferico. Nei modelli animali, la restrizione calorica comporta un calo delle concentrazioni di insulina e glucosio (mantenendo o ripristinando quindi livelli tipici degli individui più giovani) e dei livelli degli ormoni tiroidei, sessuali e dell’accrescimento (accentuando invece il divario rispetto ai soggetti giovani e tuttavia svolgendo paradossalmente un effetto protettivo). A causa della molteplicità degli effetti della restrizione calorica, è difficile valutarne singolarmente l’importanza attraverso modelli sperimentali (fatta eccezione per i già citati studi sull’IIS). Tuttavia, un impatto concreto sull’aspettativa di vita è stato dimostrato negli studi su AMPK, SIRT1 e mTOR. Resta comunque da definire quanto di ciò che è emerso dai modelli animali sia applicabile agli umani in termini di rischio di morte per malattia. In particolare negli umani tentare di prevenire l’invecchiamento attraverso la sola severa restrizione calorica può comportare (soprattutto negli anziani che necessitano di un adeguato apporto calorico e proteico) perdita di massa muscolare e demineralizzazione ossea: è evidente che risultati migliori potrebbero essere ottenuti associando una restrizione calorica meno drastica con una congrua attività fisica, consentendo così di salvaguardare massa muscolare, densità ossea, forza e capacità aerobica.
La riduzione dei livelli di GH/IGF-1 è fisiologica con l’età e si è già accennato a come un’ulteriore riduzione potrebbe aumentare l’aspettativa di vita. Si è osservato che, nell’ambito della specie, animali di taglia più piccola (cani, cavalli) hanno mediamente una vita più lunga e lo stesso accade a invertebrati che presentano singole mutazioni geniche dell’IIS o anche a topi mutanti con ridotti livelli di IGF-1. Studi sia sull’uomo che sull’animale hanno evidenziato un’associazione fra riduzione di IGF-1 e minor rischio di cancro. Mutazioni del gene umano per IGF-1R (che comportano una ridotta efficacia dell’IGF-1) sono state riscontrate più frequentemente nei centenari rispetto ai gruppi più giovani di controllo. Per contro, bassi livelli di IGF-1 sono associati negli umani a un maggior rischio di malattie cardio-vascolari, ictus, DM2 e osteoporosi. Infine, studi su soggetti dell’Ecuador affetti da sindrome di Laron (sindrome da insensibilità all’ormone della crescita) hanno evidenziato una minore incidenza di cancro e DM2, pur non dimostrando un aumento della longevità.
Le Sirtuine costituiscono una classe di sette proteine (SIRT1-7) ad attività enzimatica, implicate in una varietà di processi biologici. Nei mammiferi la SIRT1 gioca un ruolo importante nel metabolismo del glucosio, sull’azione insulinica, nell’accumulo del grasso e nelle modalità di riconoscimento delle sostanze nutrienti da parte delle cellule. Inoltre, la SIRT1 ha attività di soppressione sul NF-kB (che potrebbe avere un ruolo significativo nell’insulino-resistenza e nella sindrome metabolica). Quantunque non vi sia evidenza che l’attività della SIRT1 declini con l’età, si è ipotizzato che l’impiego di sostanze in grado di attivarla possa contribuire a rallentare l’invecchiamento. In effetti, il resveratrolo (polifenolo di origine vegetale) e il SRT1720 (attivatore sintetico) hanno dimostrato di migliorare durata e qualità della vita di vari animali. Nei topi la restrizione calorica potrebbe determinare proprio attraverso la SIRT1 la soppressione del GH. Il ruolo della SIRT1 è però sicuramente più complesso (la restrizione calorica riduce infatti l’attività della SIRT1 a livello del fegato).
L’AMPK, dal ruolo chiave nel bilancio energetico, svolge azioni diverse da tessuto a tessuto (nell’ipotalamo stimola l’appetito, nel muscolo promuove il trasporto del glucosio, l’ossidazione degli acidi grassi e la biogenesi dei mitocondri). Viene attivata dall’esercizio fisico e dalla restrizione calorica. La metformina, considerata un attivatore dell’AMPK, aumenta la sopravvivenza nel lievito e nel topo ma non nel ratto: anche se non è stata dimostrata una sua influenza sull’invecchiamento umano, se ne continuerà certamente lo studio, data l’ottima tollerabilità nei diabetici di tipo 2 e la recente dimostrazione di un’attività anti-cancro. Infine, l’AMPK è in grado di inibire la via di segnale mTOR.
La mTOR (mammalian target of rapamycin) è una protein-chinasi, che fosforila serina e treonina e che, regolando la sintesi proteica e la trascrizione, influisce su crescita, proliferazione, motilità e sopravvivenza delle cellule. Integra stimoli provenienti da insulina, fattori di crescita, mitogeni. È strettamente correlata a componenti dell'IIS e gioca un ruolo chiave nel metabolismo energetico e nell'omeostasi del glucosio. Una secrezione aberrante di mTOR è associata a varie malattie correlate all'età, quali DM2, cancro, morbo di Alzheimer, morbo di Parkinson, malattie cardio-vascolari. Negli invertebrati studiati la sopravvivenza è aumentata dall’inibizione della via di segnale mTOR (mediante interventi genetici o farmacologici) o dell’effettore della mTOR S6K. Nei topi l’inibizione del S6K protegge contro l’obesità alimentare e aumenta la sensibilità all’insulina. Ancora nei topi la rapamicina (antibiotico che può inibire la mTOR, associandosi al suo recettore intra-cellulare FBK12) allunga la vita media e massima. Va tuttavia segnalato che nei roditori gli effetti della soppressione della via di segnale mTOR variano da organo a organo: pertanto non è possibile estendere le indagini agli umani negli stessi termini. Inoltre la rapamicina ha comportato negli umani numerosi effetti collaterali (iperglicemia, dislipidemia, immunosoppressione, vasospasmo, insufficienza renale) e potrebbe condurre alla sarcopenia, attraverso il blocco del mTOR complex 1 (già meno attivo nell’anziano).

 

Bibliografia

  • Barzilai N, Huffman DM, Muzumdar RH, et al. The critical role of metabolic pathways in aging. Diabetes 2012, 61: 1315-22.
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  • Kapahi P, Chen D, Rogers AN, et al. With TOR, less is more: a key role for the conserved nutrient-sensing TOR pathway in aging. Cell Metab 2010, 11: 453-65.
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Funzione endocrina del muscolo scheletrico

Sarcopenia

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Sabrina Corbetta
Servizio di Endocrinologia e Diabetologia; Dipartimento di Scienze Biomediche, Chirurgiche e Odontoiatriche, Università degli studi di Milano, IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi, Milano

(aggiornato al 9 gennaio 2020)

 

INTRODUZIONE

Il muscolo scheletrico è il tessuto più abbondante nei soggetti adulti non obesi, rappresentando circa il 40% del peso corporeo. Il muscolo scheletrico si adatta a stimoli meccanici, nervosi e ormonali, e svolge un ruolo centrale nell’attività fisica, nel dispendio energetico e nel metabolismo glucidico. La massa muscolare scheletrica viene aumentata dall’esercizio e dagli ormoni anabolizzanti, come insulina, IGF-1, GH e testosterone. Invece, l’inattività fisica dell’invecchiamento o i disordini neuro-muscolari e le malattie croniche (come cancro, insufficienza renale, insufficienza respiratoria) e alcune alterazioni ormonali (come diabete mellito scompensato, ipertiroidismo e ipercortisolismo) causano atrofia o “sarcopenia”. La sarcopenia è associata a obesità, sindrome metabolica e altri disordini della popolazione anziana.

 

FUNZIONE ENDOCRINA DEL MUSCOLO SCHELETRICO

È ormai consolidato il concetto che il muscolo scheletrico secerne molecole con funzione ormonale, tramite le quali comunica attivamente con altri organi (1, 2). Tali fattori sono noti con il termine di “miochine”, indicando citochine e altri peptidi espressi e rilasciati dalle cellule muscolari in risposta a stimoli meccanici. Accanto alle miochine rilasciate dal muscolo scheletrico e aventi come bersaglio organi come l’osso e il tessuto adiposo, sono state identificate anche delle osteochine, rilasciate dall’osso, alcune delle quali dimostrano un effetto diretto sul muscolo scheletrico, identificando un cross-talk tra osso, muscolo scheletrico, tessuto adiposo e altri organi (figura 1). Qui vengono descritti più in dettaglio gli ormoni principalmente studiati fino ad ora in relazione alla funzione muscolare.

 

Figura 1. Citochine, adipochine e miochine coinvolte nel cross-talk tra osso, tessuto adiposo e muscolo scheletrico. Il-6 = interleuchina 6; IGF = insulin-like growth factor.

 

Miochine
Miostatina.
Nota anche come GDF8 (growth differentiation factor 8), è un membro della superfamiglia del trasforming growth factor beta (TGF-ß), espressa e secreta prevalentemente dal muscolo scheletrico, che inibisce la crescita muscolare. L’inattivazione del gene codificante per miostatina determina un fenotipo ipermuscoloso, sia nel topo, che nell’uomo. Inoltre, la mancanza di miostatina si associa a riduzione del grasso corporeo, incremento della termo-genesi nel tessuto adiposo bianco e aumento della sensibilità insulinica. Durante l’iniziale sviluppo post-natale, la miostatina inibisce la proliferazione, la differenziazione e la sintesi proteica delle cellule staminali muscolari. Inoltre, sembra esercitare effetti anti-anabolici sull’osso. Nell’uomo, l’obesità è associata ad un incremento dell’espressione e dei livelli circolanti di miostatina. Studi preliminari con anticorpi anti-miostatina in donne in post-menopausa hanno dimostrato un incremento della massa magra e una riduzione della massa grassa.

Interleuchina 6 (IL-6). I livelli di IL-6, rilasciata dalle fibre muscolari, aumentano in risposta all’esercizio fisico e alla contrazione muscolare. Il muscolo scheletrico si adatta all’esercizio alterando il contenuto di glicogeno, aumentando la ß-ossidazione degli acidi grassi, aumentando l’idrolisi intra-cellulare dei trigliceridi e stimolando la lipolisi indotta dall’adrenalina. Pertanto, il muscolo allenato utilizza i grassi come substrato energetico ed è meno dipendente dal glucosio e dal glicogeno muscolare durante l’esercizio. I livelli circolanti di IL-6 a riposo sono strettamente associati all’inattività fisica, all’obesità e alla sindrome metabolica. L’esercizio cronico riduce i livelli circolanti a riposo di IL-6 e riduce la risposta stimolatoria sui livelli di IL-6 dell’esercizio acuto. Il trattamento con IL-6 nei topi determina un aumento della captazione di glucosio, sia basale che stimolata dall’insulina. Nell’uomo, l’infusione acuta di dosi fisiologiche a riposo di IL-6 non determina alcuna modificazione, né della produzione né del dispendio di glucosio, mentre l’infusione in acuto di dosi di IL-6 pari a quelle raggiunte in risposta all’esercizio ad alta intensità, determina un incremento della produzione endogena di glucosio, stimola la lipolisi nel muscolo scheletrico senza alterare il tessuto adiposo, inibisce la produzione di TNF-alfa dai monociti, suggerendo un ruolo anti-infiammatorio.

Interleuchina 15 (IL-15). È una citochina infiammatoria prodotta dal muscolo scheletrico, che aumenta l’accumulo di proteine contrattili e causa ipertrofia dei miotubi. Riduce l’affaticamento dei muscoli veloci e aumenta il metabolismo ossidativo. L’affaticamento è una componente importante del fenotipo fragile dell’invecchiamento e solo in parte è dovuto alla perdita di massa muscolare.

Irisina. È codificata dal gene FNDC5, un gene target di PGC1a, il quale aumenta la biogenesi dei mitocondri nel muscolo scheletrico in risposta all’esercizio cronico. L’espressione del gene FNDC5 e della proteina irisina è aumentata nei muscoli dei soggetti allenati. Il trattamento con irisina di adipociti provenienti dal grasso bianco sotto-cutaneo induce un aumento dell’espressione dei geni del tessuto adiposo bruno, un aumento delle gocciole lipidiche multi-loculate, un aumento del numero di mitocondri e del consumo di ossigeno, consistente con un fenotipo termogenico. I livelli circolanti di irisina sono aumentati dopo esercizio a breve termine nel topo e nell’uomo. Inoltre, irisina aumenta la massa dell’osso corticale stimolando l’osteogenesi, suggerendo un effetto inibitorio di irisina sullo sviluppo di osteoporosi.

 

Osteochine
Osteocalcina.
È considerata un fattore endocrino prodotto dalle cellule dell’osso. I topi con deficit di osteocalcina mostrano una riduzione della massa muscolare e la somministrazione di osteocalcina aumenta la massa muscolare nei topi wild-type.

Sclerostina. È secreta prevalentemente dagli osteociti e agisce come antagonista della formazione ossea. La massa muscolare è aumentata nei topi con la delezione selettiva negli osteociti del gene SOST, codificante per sclerostina. Sclerostina sembra in grado di modificare la differenziazione e la proliferazione dei mioblasti.

 

FISIOPATOLOGIA DEL MUSCOLO SCHELETRICO

La massa e la forza muscolari declinano con l’invecchiamento. La massa muscolare diminuisce dell’1-2% per anno a partire dalla 5° decade d’età, mentre la forza muscolare comincia a ridursi a partire dalla 4°/5° decade d’età, riducendosi dell’1.5% all’anno nella 6° decade e del 3% all’anno nelle decadi successive, risultando in una perdita variabile tra il 20 e il 50% nel grande anziano.

 

Figura 2. Fattori coinvolti nella patogenesi della sarcopenia primaria correlata all’età.

 

Sono state identificate alterazioni a carico della struttura muscolare e della funzione muscolare correlate all’invecchiamento (figura 2) (1).

  1. Il numero e le dimensioni delle fibre muscolari rimangono relativamente stabili dalla pubertà fino alla 5° decade d’età, ma da qui inizia un consistente declino. Il numero delle unità motorie si riduce e la forza muscolare è minore.
  2. Il muscolo scheletrico consiste di due tipi di fibre: fibre di tipo 1 lente e di tipo 2 veloci. Le fibre di tipo 1 sono fibre resistenti alla fatica, perché sono dotate di una maggior densità di mitocondri, capillari e mioglobina. Le fibre di tipo 1 sono difficilmente alterate dall’invecchiamento. Nelle fibre di tipo 1 di un muscolo sarcopenico, si osserva di fatto un lieve incremento della area trasversale delle fibre e della produzione della forza. Le fibre di tipo 2 si differenziano in fibre di tipo 2a e di tipo 2b. Le fibre di tipo 2b hanno un elevato potenziale glicolitico, una minor capacità ossidativa, e una risposta più veloce, mentre anche le fibre di tipo 2a hanno le caratteristiche di fibre lente. Le fibre di tipo 2a si riducono del 14% in 7 anni nell’uomo anziano, mentre le fibre di tipo 2b del 25%, suggerendo che le fibre di tipo 2b sono più suscettibili all’invecchiamento. Le fibre di tipo 2 del muscolo sarcopenico generano meno forza di quelle del muscolo di un soggetto giovane. Durante l’invecchiamento si osserva uno spostamento delle fibre da veloci a lente.
  3. La via di segnale intra-cellulare PI3K/Akt/mTOR stimola la sintesi proteica e induce ipertrofia muscolare. Nel muscolo sarcopenico sono state descritte alterazioni di questa via di segnale.
  4. Diversi studi hanno dimostrato la presenza di elevati livelli di citochine infiammatorie nei soggetti anziani, suggerendo la teoria dell’inflammaging (invecchiamento causato da infiammazione cronica di basso grado). Tale infiammazione può interessare direttamente i muscoli scheletrici in modo catabolico. La citochina infiammatoria TNF-alfa è uno dei principali segnali che inducono apoptosi nei muscoli; inoltre, l’infiammazione può inibire la via di segnale PI3K/Akt/mTOR e quindi la sintesi proteica nelle fibre muscolari.
  5. Lo stress ossidativo consiste in uno squilibrio tra i livelli di ossidanti e di anti-ossidanti. L’invecchiamento aumenta la produzione delle specie reattive dell’ossigeno (ROS), portando a un livello più elevato di stress ossidativo nelle fibre muscolari. Le ROS promuovono la produzione di citochine infiammatorie, inducendo uno stato di infiammazione cronica di basso grado. Alti livelli di ROS possono danneggiare le macro-molecole come i lipidi, gli acidi nucleici, e le proteine, e danneggiare il DNA mitocondriale, causando disfunzione mitocondriale, capace di determinare apoptosi delle cellule muscolari scheletriche.
  6. Le cellule muscolari satellite, note anche come cellule staminali muscolari scheletriche, giocano un ruolo importante nella rigenerazione, riparazione e crescita delle fibre muscolari. Con l’invecchiamento, il numero delle cellule muscolari satellite, soprattutto delle fibre di tipo 2, si riduce sostanzialmente e la funzione di queste cellule risulta alterata. Alcuni studi suggeriscono anche che un’inadeguata vascolarizzazione delle fibre muscolari causa l’alterazione della funzione delle cellule satellite.
  7. Recentemente è stato riconosciuto il ruolo della disfunzione neurologica correlata all’invecchiamento nello sviluppo della sarcopenia, anche se devono essere ancora chiariti i meccanismi specifici. Nel sistema nervoso centrale sono ridotti i livelli di dopamina, i recettori dopaminergici post-sinaptici e i trasportatori pre-sinaptici della dopamina e il ridotto segnale dopaminergico determina la diminuzione del segnale di reward. Inoltre, sono ridotti la programmazione motoria, la funzione esecutiva e il coordinamento motorio. Nel sistema nervoso periferico, è ridotto il numero delle unità motorie ed è aumentato il numero delle fibre muscolari per unità motoria, configurando un meccanismo di riorganizzazione compensatoria delle unità motorie. Tuttavia, nell’invecchiamento si riduce l’eccitabilità dei moto-neuroni, con riduzione della potenza prodotta. Inoltre, declinano la velocità di conduzione dei nervi periferici e l’ampiezza dei potenziali d’azione composti dei muscoli. Ancora, si osserva un rimodellamento delle giunzioni neuro-muscolari negli individui anziani.
  8. Studi recenti clinici e di base hanno acceso l’attenzione sulla relazione tra sarcopenia e osteoporosi. Un’aumentata massa muscolare correla con un’aumentata massa ossea e un ridotto rischio di fratture. Uomini affetti da sarcopenia presentano un significativo incremento del rischio di fratture. In uno studio prospettico in uomini anziani, la ridotta forza di presa della mano si associa a un declino più rapido della densità minerale ossea e dello spessore dell’osso corticale. Tale associazione è sostenuta almeno in parte dalla funzione endocrina, sia del muscolo, tramite il rilascio di miochine, che dell’osso, tramite il rilascio di osteochine.

 

BIBLIOGRAFIA

  1. Yakabe M, Hosoi T, Akishita M, Ogawa S. Updated concept of sarcopenia based on muscle-bone relationship. J Bone Miner Metab 2020, 38: 7-13.
  2. Morley JE. Pharmacologic options for the treatment of sarcopenia. Calcif Tissue Int 2016, 98: 319-33.
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Sabrina Corbetta
Servizio di Endocrinologia e Diabetologia; Dipartimento di Scienze Biomediche, Chirurgiche e Odontoiatriche, Università degli studi di Milano, IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi, Milano

(aggiornato al 9 gennaio 2020)

 

Il concetto di sarcopenia è di recente introduzione in ambito medico. Il termine è stato introdotto per la prima volta nel 1988 da Irwin Rosemberg in occasione di un convegno ad Albuquerque in New Mexico, in riferimento alla perdita di muscolo della popolazione anziana. L’origine etimologica della parola sarcopenia deriva da sarx, che significa carne, e penia, che indica mancanza. Baumgarten e collaboratori proposero una definizione operativa di sarcopenia nel 1998, basandosi sulla misurazione della massa muscolare appendicolare mediante DXA (dual energy X-ray absorptiometry), dimostrando che la prevalenza della sarcopenia così definita aumenta con l’invecchiamento e si associa a disabilità fisica.
Dai primi anni 2000 viene riconosciuto che esistono numerose cause di sarcopenia correlata all’età e si distinguono una sarcopenia primaria e una secondaria. Nel 2010, lo European Working Group on Sarcopenia for Older Persons raccomanda una nuova definizione operativa di sarcopenia correlata all’età, basata sulla presenza di ridotta massa muscolare e ridotta funzione muscolare, intesa come forza o performance.

 

DEFINIZIONE

La sarcopenia è un disordine progressivo e generalizzato del muscolo scheletrico, associato a un aumento di eventi avversi, che includono le cadute, le fratture da fragilità, la disabilità fisica e la mortalità (1). Non è solo una riduzione della massa muscolare, in quanto la perdita di forza muscolare è più predittiva della perdita di massa muscolare nel definire il rischio di eventi avversi. Anche la qualità del muscolo scheletrico risulta alterata nel quadro di sarcopenia, considerando aspetti micro- e macroscopici dell’architettura e della composizione dl muscolo scheletrico. Tuttavia, i limiti delle attuali tecnologie rendono difficile valutare la quantità e la qualità della massa muscolare nella pratica clinica. Pertanto, il gruppo EWGSOP2 ha proposto per la definizione di sarcopenia il solo parametro della forza muscolare; nello specifico, la sarcopenia è probabile quando è diagnosticata una ridotta forza muscolare. La diagnosi di sarcopenia è confermata dalla presenza di ridotta massa muscolare o ridotta qualità del muscolo scheletrico. Quando sono presenti sia ridotta forza che ridotta massa muscolare o qualità, la sarcopenia è considerata severa (figura 1). Questa definizione è stata condivisa dall’International Clinical Practice Guidelines for Sarcopenia (ICFSR) (2). È frequente l’associazione del quadro di sarcopenia con le condizioni di obesità e di osteoporosi, per cui sono stati definiti quadri di sarcobesità e di osteo-sarcopenia.

 

 

Figura 1. Algoritmo per la diagnosi di sarcopenia e livelli soglia dei criteri diagnostici, secondo la più recente revisione dell’EWGSOP2.
*misurata mediante dinamometro.
ASM = massa muscolare scheletrica appendicolare misurata mediante DEXA total body.
SMI = indice di massa muscolare scheletrica (ASM/altezza in metri2).
SPPB = questionario breve sulla performance fisica (vedi tabella 1).
TUG = test Timed-Up and Go, misura il tempo che una persona impiega per alzarsi da una sedia, camminare per tre metri, girarsi, tornare alla sedia e sedersi di nuovo.

 

 

Sarcobesità/obesità sarcopenica
La definizione è basata sulle definizioni individuali di obesità e sarcopenia. La prevalenza negli anziani varia tra il 5 e il 10% ed è simile tra uomini e donne, maggiore nei soggetti > 80 anni e negli ispanici, minore nei neri non-ispanici.
Esiste un’associazione bidirezionale tra sarcopenia e obesità nella patogenesi della sarcobesità: da una parte, la ridotta massa muscolare scheletrica (SMM) può determinare la riduzione del metabolismo energetico a riposo e del consumo energetico totale, promuovendo l’accumulo di grasso; dall’altra, l’obesità può favorire lo sviluppo e la progressione della sarcopenia attraverso un network multi-fattoriale. Il tessuto adiposo e il muscolo scheletrico sono fortemente interconnessi attraverso un cross-talk dinamico, sostenuto da adipochine e miochine. Sono coinvolti anche altri meccanismi:

  • l’inattività fisica risultante dalle complicanze muscolo-scheletriche dell’obesità può avere un effetto negativo diretto sul turn-over delle proteine del muscolo scheletrico e la capacità ossidativa;
  • i soggetti obesi, anche se ipernutriti, possono essere malnutriti; consumano prevalentemente diete altamente energetiche ma povere di nutrienti, sperimentando spesso carenze di micro-nutrienti che possono influenzare negativamente la SMM e la funzione muscolare;
  • le alterazioni cardio-metaboliche associate all’obesità, come il diabete mellito tipo 2 e l’aterosclerosi possono promuovere il catabolismo muscolare e alterare la qualità e il metabolismo muscolare;
  • l’obesità è direttamente associata a condizioni croniche come l’insufficienza cardiaca cronica, le malattie ostruttive polmonari, le malattie renali e il cancro. Tutte queste condizioni croniche contribuiscono fornendo fonti di infiammazione e stress ossidativo e promuovendo sinergicamente la perdita della massa muscolare e la sua disfunzione;
  • gli interventi terapeutici nei soggetti obesi, come la chirurgia bariatrica e le diete ipocaloriche, nella fase iniziale di rapida perdita del peso corporeo possono indurre catabolismo muscolare come risultato di un profondo deficit energetico. La sarcopenia associata all’obesità è molto più probabile nell’obesità di lunga durata, in presenza di comorbilità e negli individui più anziani.

 

Osteo-sarcopenia
È una sindrome geriatrica caratterizzata dalla concomitanza di osteopenia o osteoporosi e sarcopenia (3). Si associa a scarsa funzione fisica, aumentato rischio di frattura, declino funzionale e aumentata mortalità, che risultano maggiori rispetto ai rischi associati alle singole condizioni di osteoporosi e sarcopenia. In una coorte di anziani in esiti di frattura di femore la prevalenza di osteo-sarcopenia era del 28.7% e la mortalità era 1.8 volte maggiore rispetto alla presenza dei singoli componenti. Deve però essere distinta dal concetto di fragilità, che indica il declino associato all’età delle riserve fisiologiche, con incremento della vulnerabilità verso stress minori. La fragilità coinvolge diversi organi, mentre l’osteo-sarcopenia è confinata all’ambito muscolo-scheletrico. Osteopenia e osteoporosi sono diagnosticate sulla base dei criteri ONU basati sulla misurazione della densità minerale ossea mediante DXA.

 

Sarcopenia secondaria
È definita in presenza di una causa specifica (figura 2) (4). È prevalente nei pazienti anziani, in quanto il processo di invecchiamento associato a riduzione della massa e della funzione muscolare, è spesso accompagnato da diverse condizioni di morbilità, che possono contribuire allo sviluppo di sarcopenia. La sarcopenia si presenta nel contesto di molte malattie croniche, inclusi i disordini endocrini, di cui può essere la causa o la conseguenza e contribuire alla prognosi. Riconoscere la sarcopenia nel contesto dei malati cronici è di fondamentale importanza, poiché pazienti anziani istituzionalizzati sarcopenici presentano un rischio di mortalità aumentato di 3 volte rispetto ai non-sarcopenici.

 

Figura 2. Meccanismi coinvolti nella sarcopenia secondaria ad altre malattie. I meccanismi correlati all’età potrebbero contribuire ai meccanismi specifici di malattie nel determinare lo sviluppo della sarcopenia. BPCO, broncopolmonite cronica ostruttiva; IRC, insufficienza renale cronica; MICI, malattia cronica infiammatoria intestinale (morbo di Crohn, colite ulcerosa); DM, diabete mellito.

 

  1. Malattie respiratorie croniche ostruttive (BPCO): la sarcopenia è il risultato di una aumentata richiesta catabolica da parte della muscolatura respiratoria, di elevati livelli di citochine pro-infiammatorie e di stress ossidativo, di ipossiemia e fumo. La prevalenza varia tra 12 e 20% dei pazienti con BPCO e si associa a una prognosi peggiore e alla severità della malattia.
  2. Insufficienza renale cronica (IRC): la perdita di massa muscolare si presenta precocemente ed è più marcata che nei soggetti senza patologie croniche. È attribuita al bilancio negativo dell’omeostasi proteica, che si presenta con un catabolismo aumentato, alterata rigenerazione muscolare e livelli elevati di miostatina. La prevalenza di sarcopenia nei pazienti con IRC non in dialisi varia dal 9.8 al 28.7%, e sale fino al 33.1% nei pazienti dializzati.
  3. Insufficienza cardiaca cronica: negli stadi avanzati, la perdita di massa muscolare scheletrica è comune, con una prevalenza variabile tra il 20% dei pazienti con ridotta frazione di eiezione e il 47% dei pazienti < 55 anni con cardiomiopatia dilatativa.
  4. Malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI): la prevalenza di sarcopenia varia dal 27.0 al 61%.
  5. Artrite reumatoide: questi pazienti sono particolarmente predisposti a sviluppare sarcopenia (presente nel 20% dei pazienti) a causa dello stato pro-infiammatorio sottostante e del ridotto uso muscolare, dell’inattività e del dolore. Il trattamento steroideo cronico contribuisce significativamente.
  6. Neoplasie: l’eziologia della sarcopenia è multi-fattoriale e condivide numerosi fattori con la sarcopenia dell’invecchiamento. Numerosi trattamenti (deprivazione estrogenica, deprivazione androgenica, steroidi, ecc.) contribuiscono alla sarcopenia.
  7. Diabete mellito (DM): la sarcopenia, considerata come una complicanza cronica del DM, si instaura più precocemente nei pazienti con DM tipo 2 rispetto alla sarcopenia correlata all’invecchiamento, poiché insorge tra i 50 e i 60 anni. È strettamente associata ad aumento di fragilità, mortalità, ospedalizzazione, disabilità e eventi cardio-vascolari. La sarcopenia può essere la causa o la conseguenza del DM tipo 2, in quanto la perdita di massa muscolare determina una riduzione del consumo periferico di glucosio, promuovendo insulino-resistenza e iperglicemia. I livelli di emoglobina glicata sono inversamente correlati con la perdita della massa muscolare. Tra le cause specifiche di sarcopenia nel DM tipo 2, si devono considerare la neuropatia diabetica, l’ipotestosteronemia, l’obesità, il ridotto flusso ematico ai muscoli a causa della vascolopatia periferica e l’inattività, per deficit del visus o insufficienza cardiaca. La sarcopenia interessa circa un terzo dei pazienti adulti con diabete autoimmune latente (LADA).
  8. Sindrome di Cushing (CS): la debolezza muscolare è una delle caratteristiche cliniche della CS, presente nel 40-70% dei pazienti. La muscolatura prossimale degli arti inferiori è maggiormente coinvolta, per cui i pazienti lamentano di non riuscire ad alzarsi dalla posizione accovacciata o di non riuscire a salire le scale, mentre sono meno frequentemente alterati la corsa o il cammino. Incrementi anche lievi dei livelli di cortisolo, come nell’ipercortisolismo subclinico, sono in grado di indurre sarcopenia. I glucocorticoidi modificano la composizione delle fibre muscolari e la forza, con perdita delle fibre di tipo 2 (veloci), anche dopo un breve periodo di trattamento. L’eccesso di cortisolo riduce la sintesi proteica muscolare, attiva la proteolisi muscolare, altera la funzione mitocondriale e riduce l’eccitabilità del sarcolemma. L’insulino-resistenza e l’ipercortisolismo inducono la deposizione di grasso nei muscoli e riducono la capacità ossidativa muscolare. Dopo trattamento efficace della CS, l’effetto dei glucocorticoidi sulla funzione muscolare può perdurare per periodi di tempo variabili da 6-8 mesi a 2 anni.
  9. Deficit di GH nell'adulto (GHD). Il GH stimola l’anabolismo muscolare e osseo. Nei soggetti sani dosi fisiologiche o sovra-fisiologiche di GH non hanno dimostrato effetti significativi su massa e funzione muscolare, osservati invece nei pazienti adulti con ipopituitarismo o GHD. Pertanto, il trattamento con GH, o con GHRH, anche in associazione a esercizi di resistenza o a testosterone, non è considerata una valida terapia della sarcopenia nei soggetti non-GHD. Negli adulti con GHD, la terapia con GH è associata principalmente con un aumento della massa muscolare, mentre gli effetti sulla funzione muscolare e sulla performance sono variabili e probabilmente dipendono da altri fattori.
  10. Ipogonadismo maschile: i livelli di testosterone si riducono dell’1% per anno a partire dai 30 anni, in parte in conseguenza dell’aumento della massa grassa che si verifica con l’invecchiamento, associato sia alla disfunzione ipotalamica che alla ridotta risposta delle cellule di Leydig alle gonadotropine. L’ipogonadismo si associa all’invecchiamento e a sarcopenia secondaria.
  11. Ipertiroidismo: gli ormoni tiroidei modulano l’espressione nel muscolo scheletrico di numerosi geni coinvolti nel metabolismo energetico. L’ipertiroidismo induce il turn-over proteico, portando a perdita di massa muscolare, accelera la termogenesi e induce la gluconeogenesi e la lipolisi. Nei pazienti ipertiroidei si osserva una riduzione della massa muscolare fino al 20% e della forza muscolare fino al 40%, alterazioni che migliorano con il trattamento.

 

DIAGNOSI

Recentemente, è stato introdotto un codice ICD-10-CM per la sarcopenia correlata all’invecchiamento (M62.84, valido negli USA), riconoscendola come malattia e permettendo ai medici di includerla formalmente nella lista delle diagnosi e di richiedere la rimborsabilità.
Le linee guide proposte dal gruppo EWGSOP2 (figura 1) raccomandano di misurare la forza muscolare mediante il test di presa della mano con un dinamometro, o con il test dell’alzarsi da una sedia (1). La massa muscolare può essere misurata mediante DXA, risonanza magnetica nucleare, o tomografia computerizzata. La performance muscolare dovrebbe essere misurata mediante il test della velocità del cammino, la batteria breve di prove di performance fisica (tabella 1), il test Timed Up and Go, o il tempo necessario per coprire 400 metri camminando. Tuttavia, il gruppo EWGSOP2 riconosce che tale iter diagnostico non è compatibile con un uso ambulatoriale; pertanto, suggerisce di identificare le persone anziane a rischio di sarcopenia usando i sintomi cinici associati alla sarcopenia o il questionario SARC-F, composto da 5 domande, che presenta alta specificità, ma bassa sensibilità (tabella 2).

 

Tabella 1
Short Physical Performance Battery (SPPB)
per valutare la funzionalità degli arti inferiori
Test Esecuzione Attribuzione punteggio
Valutazione dell’equilibrio in 3 prove
  • mantenimento per 10” della posizione a piedi uniti
  • mantenimento per 10” della posizione di semi-tandem (alluce di lato al calcagno)
  • mantenimento per 10” della posizione tandem (alluce dietro al tallone)
  • non riesce a mantenere la posizione a piedi paralleli per almeno 10”: 0
  • semitandem 0-9’’: 1
  • tandem 0-2’’: 2
  • tandem 3-9’’: 3
  • tandem 10’’: 4
Valutazione del cammino Misurazione del tempo necessario a percorrere 4 metri lineari
  • incapace: 0
  • > 7.5”: 1
  • 7.4" – 5.4”: 2
  • 5.3" – 4.1”: 3
  • < 4.1": 4
Valutazione della capacità di eseguire il passaggio da seduto su una sedia a in piedi Misurazione del tempo necessario a eseguire il test per 5 volte consecutive, senza utilizzare gli arti superiori (tenuti incrociati davanti al petto)
  • incapace: 0
  • > 16.6”: 1
  • 13.7" – 16.6”: 2
  • 11.2" – 13.6”: 3
  • < 11.2": 4
Il punteggio totale della scala ha quindi un range da 0 a 12.

 

 

Tabella 2
Il questionario SARC-F
Componente Domanda Punteggio
Forza Quanta difficoltà trova nel sollevare e portare 10 kg?
  • Nessuna = 0
  • Un po’ = 1
  • Molta o incapace = 2
Assistenza nel cammino Quanta difficoltà trova nel camminare attraverso una stanza?
  • Nessuna = 0
  • Un po’ = 1
  • Molta, usa ausili, o incapace = 2
Alzarsi da una sedia Quanta difficoltà trova nello spostarsi da una sedia o dal letto?
  • Nessuna = 0
  • Un po’ = 1
  • Molta o incapace senza aiuto = 2
Salire le scale Quanta difficoltà trova nel salire 10 gradini?
  • Nessuna = 0
  • Un po’ = 1
  • Molta o incapace = 2
Cadute Quante volete è caduto nell’ultimo anno?
  • Nessuna = 0
  • 1-3 cadute = 1
  • ≥ 4 cadute = 2

 

 

Metodi di misurazione della massa muscolare

Bio-impedenziometria: è utilizzata per stimare la massa muscolare mediante algoritmi basati sulla misurazione della conduttività tissutale. È pertanto considerato un metodo doppiamente indiretto e carente di adeguata standardizzazione. Può sovra-stimare la misurazione della massa muscolare di circa 2 kg. L’accuratezza delle misurazioni può essere alterata sia da un eccesso di fluidi che dalla disidratazione. La misurazione della fase angolare è divenuta recentemente popolare ma è influenzata da età, sesso, BMI e massa grassa.

Dual-energy X-ray absorptiometry (DXA): è stata considerata il gold-standard per la misurazione della massa muscolare. È stata validata sulla base della misurazione post-mortem dei muscoli, della cute e dei visceri, ma l’accuratezza può essere ridotta in presenza di disidratazione e in funzione dello spessore dei tessuti magri. Inoltre, diversi apparecchi DXA possono condurre a diversi risultati. Si deve ricordare che la DXA misura la massa magra piuttosto che la massa muscolare.

Tomografia computerizzata (TC) e risonanza magnetica nucleare (RMN): rappresentano metodi ottimali per la misurazione della massa muscolare, ma il loro costo ne rende proibitivo l’uso routinario nella pratica clinica. Sia TC che RMN permettono di quantificare il tessuto osseo, muscolare, gli organi viscerali e il tessuto adiposo, distinguendo il grasso sotto-cutaneo da quello viscerale. Inoltre, sono in grado di misurare la qualità del muscolo scheletrico, il deposito intra- ed extra-miocellulare di lipidi, e stimare la composizione dei diversi tipi di fibre muscolari.

Ultrasonografia: può misurare la massa dei quadricipiti. È dipendente dall’abilità dell’operatore e dalla pressione esercitata sulla sonda. Può fornire la misurazione dell’angolo di pennazione, che fornisce informazioni sull’abilità del muscolo di generare forza.

Diluizione della creatina D3: potrebbe essere il metodo più accurato per la misurazione della massa muscolare. Più del 95% della creatina corporea è contenuta nei muscoli; la creatina è convertita in creatinina e non è sintetizzata nei muscoli. Pertanto, la creatina ingerita per via orale e marcata con deuterio D3 determinerà l’escrezione di creatinina-D3 con le urine fornendo una stima della massa muscolare. Il plateau dell’escrezione della creatinina-D3 viene raggiunto a distanza di 30 ore dall’ingestione della creatina marcata. La stima della massa muscolare così ottenuta correla con la misurazione mediante RMN ed è più accurata rispetto a quella ottenuta mediante DXA. Inoltre, correla con le cadute, con la velocità del cammino, con la limitazione della motilità, con la riduzione della forza di presa della mano e con le modificazioni della massa muscolare indotte dall’invecchiamento.

 

Sarcobesità/obesità sarcopenica
Al fine di porre un’accurata diagnosi di sarcobesità si deve ottenere una valutazione quantitativa della composizione corporea, per misurare SMM e massa grassa. Il BMI non riesce a identificare le modificazioni dell’SMM e della massa grassa e pertanto non può essere utilizzato. DXA è altamente raccomandata per la misurazione dell’SMM e della massa grassa totale e regionale.

 

Sarcopenia secondaria
Al momento non sono disponibili raccomandazioni specifiche per la diagnosi di sarcopenia nei pazienti con malattie croniche, e i criteri identificati per la diagnosi di sarcopenia correlata all’invecchiamento vengono applicati anche in altre popolazioni di pazienti.

 

 

TERAPIA

Al momento il trattamento per la sarcopenia non è stato definito. Alcuni interventi potrebbero essere utili nel prevenire o migliorare la sarcopenia, e le combinazioni di questi interventi potrebbero essere anche più efficaci (figura 3) (5,6).

 

 

Figura 3. Potenziali strategie terapeutiche per la prevenzione e il miglioramento dei quadri di sarcopenia. SARM = selective androgenic receptor modulators; Ab = anticorpi.

 

Nutrizione
Un aumentato introito di proteine con il cibo rappresenta una strategia semplice ed efficace; le proteine del siero del latte sono ricche di leucina, la cui efficacia nello stimolare la sintesi muscolare è nota. La supplementazione di proteine del siero del latte ha determinato un incremento significativo della massa muscolare negli anziani.
La supplementazione con vitamina D ha dimostrato di avere un limitato ma significativo effetto positivo sulla forza muscolare nei soggetti anziani, senza aumentare la massa muscolare. La supplementazione con vitamina D è più efficace nell’anziano con livelli insufficienti di 25-idrossivitamina-D e riduce le cadute.
Supplementazione di calcio e magnesio.

 

Esercizi di resistenza
Hanno dimostrato significativi effetti positivi sulla massa muscolare, la forza muscolare e la performance fisica. Inoltre, si è dimostrato che sono in grado di far regredire il fenotipo di fragilità.

 

Farmaci
Finora nessun farmaco si è dimostrato clinicamente più efficace di un altro.

ß-idrossi-b-metilbutirrato (HMB): è un metabolita della leucina, che ha dimostrato effetti positivi sulla massa magra muscolare e sulla forza muscolare nei soggetti anziani.
Studi iniziali suggeriscono potenziale terapeutico per grehlin, modulatori del recettore degli androgeni e anticorpi anti-miostatina.
I livelli di testosterone si riducono alla velocità dell’1% per anno a partire dai 30 anni e il declino dei livelli di testosterone è associato al declino della massa e della forza muscolare. La somministrazione di testosterone anche a basse dosi nei soggetti anziani eugonadici è in grado di aumentare la massa muscolare e di ridurre la massa grassa. Ad alte dosi il testosterone attiva il reclutamento delle cellule satelliti e riduce le cellule staminali adipose. Una metanalisi degli studi controllati con testosterone nei maschi anziani non ha dimostrato un incremento di mortalità. Tuttavia, permane il timore per un eccesso di effetti negativi, che ha portato allo sviluppo di modulatori selettivi del recettore androginico (SARM), come il nandrolone. Al momento nessun composto si è dimostrato più efficace e più sicuro del testosterone nel trattamento della sarcopenia.
Ghrelina è un ormone prodotto dalle cellule del fondo dello stomaco e ha effetti oressizzanti. Gli analoghi della ghrelina si sono dimostrati in grado di aumentare l’appetito e la massa muscolare, ma non la forza nei soggetti con cachessia neoplastica.
Agonisti del recettore GLP-1: studi recenti suggeriscono che la liraglutide, efficace nel controllo glicemico in pazienti con diabete mellito tipo 2, possiede potenti effetti anti-atrofia muscolare e osteo-anabolici.
Denosumab, l’anticorpo monoclonale anti-RANKL, rappresenta un’efficace opzione terapeutica per l’osteoporosi e la prevenzione delle fratture da fragilità; studi recenti hanno dimostrato che l’inibizione del sistema RANK/RANKL migliora la forza muscolare e la sensibilità insulinica sia nei topi che negli uomini.
Romosozumab, anticorpo anti-sclerostina, rappresenta un’altra valida opzione terapeutica per il trattamento dell’osteoporosi; uno studio recente ha dimostrato che il blocco di sclerostina è in grado di migliorare la funzione muscolare, riducendo la debolezza muscolare nella malattia metastatica ossea del cancro della mammella.

 

BIBLIOGRAFIA

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Tempesta tireotossica

Coma mixedematoso

Ipercalcemia acuta

Insufficienza surrenalica acuta

Chetoacidosi diabetica

È disponibile una App preparata da Damiano Gullo per la gestione delle emergenze: scarica

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Alcool

Tabacco

Oppiacei

Steroidi anabolizzanti

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Massimo Boaretto & Corradina Alagona
UOC Medicina, PO S. Martino, Belluno

 

Il consumo di alcool rappresenta uno dei più seri disordini da abuso di sostanze in tutto il mondo, soprattutto nei paesi industrializzati. Negli USA le patologie alcool-correlate rappresentano la terza causa di morte (1). Esistono sia una suscettibilità genetica verso il rischio di sviluppare i disordini alcool-correlati che influenze ambientali che giocano un ruolo altrettanto importante nell’alcool-dipendenza. È noto che l’assunzione acuta e cronica di alcool influenza in maniera diversa il sistema endocrino, esitando in disfunzioni dello stesso, che possono danneggiare in maniera diretta e/o indiretta l’intero organismo.

 

Asse ipotalamo-ipofisi-surreni (HPA)
Numerosi studi hanno dimostrato che la somministrazione di alcool influenza l’attività dell’asse HPA. Alcuni di questi studi sull’uomo hanno evidenziato che i livelli di cortisolemia aumentano significativamente nei soggetti sani con dosi di alcool > 100 mg/100 mL (2) e che volontari sani dopo assunzione di alcool avevano livelli più elevati di cortisolo urinario. È noto, inoltre, che nei forti bevitori è alterato il controllo inibitorio dell’asse HPA. L’esposizione acuta all’alcool attiva l’asse HPA, portando ad aumento dei valori circolanti di ACTH e glucocorticoidi. Negli alcoolisti l’aumentata secrezione di cortisolo sarebbe responsabile dei segni di ipersurrenalismo definiti pseudosindrome di Cushing.
Le lesioni del nucleo para-ventricolare (PVN), che produce CRH, attenuano, ma non aboliscono gli effetti stimolatori dell’alcool sul rilascio di ACTH, suggerendo che regioni extra-PVN e altri secretagoghi dell’ACTH, verosimilmente la vasopressina, entrino in gioco nel rilascio di ACTH mediato dall’etanolo. Bassi livelli di CRH sono associati a una maggiore probabilità di ricaduta dopo un’astinenza acuta, suggerendo che il CRH possa essere implicato nel controllo a lungo termine dell’assunzione di alcool e della dipendenza dallo stesso. Si evidenzia un’alterazione dell’asse HPA sia negli alcoolisti attivi, sia nell’astinenza acuta e in quella prolungata. Medesima evidenza si ha anche negli individui con familiarità per alcoolismo.
Per quanto concerne invece la midollare del surrene, emerge un incremento delle catecolamine durante l’ingestione acuta di alcool. I glucocorticoidi, rilasciati durante lo stress e l’attivazione dell’asse HPA indotta dall’etanolo, modulano le attività dei sistemi oppioide, CRH e dopaminergico mesolimbica e interagiscono con le ricadute dell’abuso alcoolico. Si ritiene, infatti, che la ridotta attività oppioide, risultato dell’alcoolismo o geneticamente legata al rischio dell’alcolismo, indurrebbe ipercortisolismo ed altererebbe la produzione dopaminergica mesolimbica, portando quindi a un maggiore rischio di alcool-dipendenza (3).

 

Asse ipotalamo-ipofisi-gonadi (HPG)
L’abuso di alcool è associato a disordini della funzione riproduttiva, sia nei maschi sia nelle femmine. Negli etilisti, la disfunzione dell’asse HPG è associata a riduzione della libido, atrofia delle gonadi e infertilità.
Il consumo di alcool nelle donne in età pre-menopausale correla con diversi disturbi dell’apparato riproduttivo, come irregolarità mestruali, anovulazione, aumentato rischio di aborti spontanei e menopausa precoce. L’assunzione di alcool aumenta i livelli di estrogeni; ciò può in parte spiegare l’effetto negativo dell’alcool sulle irregolarità mestruali. È stato inoltre dimostrato che un prolungato consumo di alcool riduce la riserva ovarica che si associa ad aumentati livelli di FSH (4).
Nelle donne in età post-menopausale in terapia sostitutiva, invece, l’esposizione acuta all’alcool induce un temporaneo aumento dei livelli di estradiolo, che potrebbe essere dovuto ad un’alterazione del suo metabolismo, che riduce la conversione di estradiolo in estrone. L’esposizione all’alcool non ha effetti sui livelli di estradiolo in donne che non ricevono la terapia ormonale sostitutiva.
Per quanto concerne il sesso maschile, è stata ampiamente documentata l’associazione tra consumo acuto e cronico di alcool e ridotti livelli di testosterone. Studi di confronto hanno evidenziato negli alcoolisti rispetto agli astemi l’aumento di FSH, LH ed estrogeni e ridotti livelli di testosterone e progesterone. Nel gruppo degli alcoolisti sono più bassi volume del liquido seminale, conta, motilità e numero degli spermatozoi normali (5). L’abuso di alcool esita in ipogonadismo anche in assenza di malattie epatiche, ma in presenza di cirrosi sono stati documentati elevati valori di estradiolo e di estrone. L’etanolo aumenta l’attività dell’aromatasi, enzima che converte gli androgeni in estrogeni, specialmente nel fegato. La riduzione della disponibilità dell’IGF-1, come risultato di una patologia epatica, contribuisce in parte allo sviluppo dell’ipogonadismo associato alla cirrosi, poiché l’IGF-1 stimola la sintesi del testosterone e la spermatogenesi (6). Il metabolismo dell’alcool, generando specie reattive dell’ossigeno altamente tossiche, quali l’anione superossido, il perossido di idrogeno e i radicali idrossilici, può indurre danno cellulare nei testicoli. Un metabolita dell’alcool, l’acetaldeide, sarebbe più tossico dell’alcool stesso nell’alterare la produzione di testosterone, inibendo la protein-chinasi C, enzima chiave nella sintesi del testosterone.
Un discorso a parte riguarda l’impatto dell’alcool sulla pubertà, che produce, anche in seguito all’assunzione di moderate quantità di alcool, una riduzione duratura degli estrogeni nelle femmine adolescenti, mentre negli adolescenti maschi sono state riscontrate significative riduzioni dei livelli di testosterone, LH e FSH. Le alterazioni indotte dall’alcool sull’asse HPG in questa fase delicata dello sviluppo potrebbero avere ripercussioni sulla funzione riproduttiva e sulla crescita, potenzialmente persistenti anche nell’età adulta.

 

Alcool e prolattina
Il riscontro di iperprolattinemia è tipico in donne e uomini alcoolisti, con persistenza della stessa anche dopo alcuni giorni di sospensione dalle bevande alcooliche. Studi su ratti hanno dimostrato che l’etanolo aumenta i livelli di PRL e il peso ipofisario in femmine fertili e in quelle ovariectomizzate (7) e promuove lo sviluppo di prolattinomi indotti dall’estradiolo. I dati clinici suggeriscono che il consumo di alcool è un fattore di rischio positivo per i prolattinomi e l’iperprolattinemia.

 

Asse ipotalamo-ipofisi tiroide (HPT)
Gli alcoolisti mostrano spesso un’alterazione dell’asse HPT. Durante una breve astinenza, è stata notata una riduzione delle concentrazioni di T4 e T3 rispetto agli astemi, nonchè una ridotta risposta del TSH al TRH correlata alla severità dei sintomi dell’astinenza. Durante astinenze prolungate la disfunzione tiroidea si risolve e la risposta del TSH al TRH torna a livelli normali (34), per poi ripresentarsi con le stesse caratteristiche con la ripresa del potus. Sono stati proposti altri meccanismi riguardanti l’azione dell’etanolo sull’asse HPT, focalizzati sul metabolismo degli ormoni tiroidei e sull’attività degli enzimi che catalizzano la conversione di T4 in T3 e di quelli che inattivano la T3 in 3,3’’-T2. Secondo alcuni studi l’aumento delle concentrazioni di T3 nell’amigdala potrebbe essere coinvolto nello sviluppo della dipendenza da alcool (8).

 

Asse GH-IGF-1
L’esposizione acuta e/o cronica all’alcool riduce i livelli circolanti di GH e IGF-1. L’esposizione acuta di uomini sani all’etanolo (1.5 g/kg) riduce il picco notturno della secrezione di GH. Questo effetto non sembra mediato da un’azione diretta dell’etanolo di desensibilizzazione dell’ipofisi al GHRH, giacchè la somministrazione endovena di GHRH induce un aumento della secrezione del GH sia nei trattati con etanolo (1 g/kg) che nel gruppo di controllo. L’esposizione acuta di donne sane all’alcool non ha invece significativi effetti sulla secrezione di GH. Studi sui ratti hanno mostrato che l’esposizione cronica all’alcool riduce la secrezione di GH principalmente a livello ipotalamico, dove l’etanolo inibisce l’espressione genica del GHRH.
Il consumo cronico di alcool induce atrofia muscolare, attraverso la riduzione di l’IGF-1, potente agente anabolizzante, che risulta fortemente diminuito nel plasma, nel fegato e nel muscolo scheletrico degli etilisti rispetto agli astemi. Sono stati inoltre evidenziati valori aumentati di IGF-BP1 nel plasma, nel fegato e nel muscolo, senza variazioni dei livelli di glucocorticoidi, insulina e GH (9), suggerendo che le variazioni di IGF-1 e IGFBP-1 siano mediate da meccanismi diversi dai classici regolatori (GH, glucocorticoidi e ipoglicemia insulino-indotta).

 

Vasopressina e ossitocina
In seguito all’assunzione di alcool sono stati riscontrati livelli ridotti di vasopressina ed è ben conosciuto da diversi anni l’immediato effetto diuretico dell’etanolo, connesso verosimilmente con la soppressione della vasopressina. L’abuso cronico di alcool diminuisce la secrezione di vasopressina, influenzando il suo controllo ipotalamico. Dati sperimentali mostrano la capacità dell’etanolo di inibire acutamente anche il rilascio di ossitocina (10).

 

Funzione pancreatica
La relazione tra alcool e metabolismo glucidico ha una forma a “U”. Il consumo di alcool basso o moderato migliora la sensibilità periferica all’insulina e riduce la glicemia a digiuno. Alcuni studiosi hanno dimostrato che l’aumento della sensibilità insulinica può essere in parte dovuto all’azione dell’alcool sulla lipolisi. Tali effetti metabolici spiegano la riduzione dello sviluppo di diabete mellito tipo 2 e del rischio di malattie cardio-vascolari riportata da numerosi studi epidemiologici nei bevitori moderati (11). Al contrario, nei forti bevitori si ha un’aumentata insulino-resistenza a livello epatico e adiposo e una riduzione della funzione della ß-cellula pancreatica. Questi effetti dell’etilismo cronico sembrano mediati dall’inattivazione della glucochinasi, dalla riduzione di GLUT2, dalla produzione di specie reattive dell’ossigeno e dall’apoptosi delle ß-cellule. Tutti questi studi suggeriscono che il consumo di quantità eccessive di alcool ha effetti deleteri sulla funzione della ß-cellula pancreatica e sull’omeostasi glicemica.
Infine, bisogna ricordare l’esistenza della chetoacidosi alcoolica, una complicanza metabolica del consumo di alcool caratterizzata da iperchetonemia e acidosi con elevato gap anionico, in assenza di un’iperglicemia significativa. Mediante la riduzione della gluconeogenesi epatica e della secrezione insulinica, l’aumento della lipolisi e l’alterata ossidazione degli acidi grassi, l’alcool favorisce la chetogenesi, causando un’acidosi con elevato gap anionico. L’aumento degli ormoni controregolatori inibisce ulteriormente la secrezione insulinica. I valori glicemici sono solitamente normali o bassi, ma talvolta si può verificare un’iperglicemia moderata.

 

Effetti endocrini della somministrazione di alcool
Asse Acuta Cronica
Ipotalamo-ipofisi-surreni Attivazione: aumento ACTH, cortisolo e catecolamine Alterato controllo inibitorio (pseudo-Cushing)
Ipotalamo-ipofisi-gonadi
donne pre-menopausa Aumento estrogeni Irregolarità mestruali, anovulazione, aumentato rischio di aborti spontanei e menopausa precoce; riduzione riserva ovarica
donne post-menopausa Temporaneo aumento estradiolo (se in HRT)  
maschi Riduzione testosterone, aumento Gn e estrogeni Riduzione testosterone, ipogonadismo
PRL   Aumento
Ipotalamo-ipofisi tiroide In astinenza riduzione di T3 e T4 e della risposta di TSH a TRH  
GH-IGF-1 Riduzione livelli di GH e IGF-1 e solo nel maschio del picco notturno di GH Riduzione livelli di GH e IGF-1 e aumento IGF-BP1
Vasopressina e ossitocina Riduzione vasopressina e ossitocina Riduzione vasopressina
Pancreas endocrino   Consumo moderato: migliora sensibilità insulinica e riduce glicemia
Consumo forte: aumentata insulino-resistenza e riduzione funzione ß-cellulare
Chetoacidosi alcolica

 

Bibliografia

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  2. Jenkins JS, Connolly J. Adrenocortical response to ethanol in man. Br Med J 1968, 2: 804-5.
  3. Gianoulakis C. Influence of the endogenous opioid system on high alcohol consumption and genetic predisposition to alcoholism. J Psychiatry Neurosci 2001, 26: 304-18.
  4. Li N, Fu S, Zhu F, et al. Alcohol intake induces diminished ovarian reserve in childbearing age women. J Obstet Gynaecol Res 2013, 39: 516-21.
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  6. Chiao YB, Van Thiel DH. Biochemical mechanisms that contribute to alcohol-induced hypogonadism in the male. Alcohol Clin Exp Res 1983, 7: 131-4.
  7. De A, Boyadjieva N, Pastorcic M, et al. Potentiation of the mitogenic effect of estrogen on the pituitary gland by alcohol consumption. Int J Oncol 1995, 7: 643-8.
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  9. Lang CH, Fan J, Lipton BP, et al. Modulation of the insulin-like growth factor system by chronic alcohol feeding. Alcohol Clin Exp Res 1998, 22: 823-9.
  10. Wagner G, Fuchs AR. Effect of ethanol on uterine activity during suckling in post-partum women. Acta Endocrinol (Copenh) 1968, 58: 133-41.
  11. Avogaro A, Watanabe RM, Dall’Arche A, et al. Acute alcohol consumption improves insulin action without affecting insulin secretion in type 2 diabetic subjects. Diabetes Care 2004, 27: 1369-74.
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Alessandro Prete
Institute of Metabolism and Systems Research, University of Birmingham, UK

(aggiornato al 17 febbraio 2020)

 

Fin dal 1800 è noto come il consumo di oppioidi si associ spesso a endocrinopatie, in particolar modo ipogonadismo: nei carteggi di un esploratore britannico impegnato in India, dove era molto comune l'uso di oppio, emerge che “le donne avevano meno figli rispetto a quelle di altri Stati” e che i fumatori d’oppio erano “deboli” e “più effeminati delle donne” (1).
Al giorno d'oggi il problema è estremamente attuale, essendo le endocrinopatie indotte da oppioidi di riscontro sempre più frequente. Infatti, il numero di utilizzatori di oppioidi e di morti da overdose da oppioidi è aumentato in maniera costante: solo negli Stati Uniti, si stima che 11 milioni di persone ricevano prescrizioni inappropriate di analgesici oppioidi e che il numero di decessi legati all’uso di oppioidi sia più che quadruplicato nell’arco degli ultimi 20 anni (2).
Le endocrinopatie più frequentemente associate all’uso cronico di oppioidi sono ipogonadismo e, in misura minore, iposurrenalismo. La disfunzione degli assi gonadico e surrenalico può causare sintomi significativi e invalidanti, che vanno ad associarsi agli altri eventi avversi che si osservano tipicamente negli utilizzatori di oppioidi (in particolar modo stipsi, nausea e dispepsia).

 

Fisiopatologia degli effetti endocrini degli oppioidi
Gli oppioidi hanno effetti multipli sul sistema endocrino, soprattutto a causa dell’azione sull’asse ipotalamo-ipofisario (figura) (3).

 

 

 

Gli oppioidi modulano la funzione gonadica, in primo luogo legandosi ai recettori ipotalamici ε (determinando riduzione della secrezione e pulsatilità del GnRH) e potenzialmente agendo sui recettori μ, κ e δ (con aumento della secrezione di PRL). Essi possono inoltre agire direttamente a livello gonadico, determinando una riduzione della conta spermatica e della produzione testicolare di testosterone (3).
La funzione cortico-surrenalica può essere influenzata dall’azione degli oppioidi sui recettori κ, δ e μ a livello ipotalamico e ipofisario; inoltre, è stato suggerito che tali molecole possano anche agire a livello della ghiandola bersaglio, causando direttamente una riduzione della secrezione surrenalica di cortisolo (3).
Gli oppioidi possono influenzare anche la secrezione di GH, TSH, AVP e ossitocina, ma le possibili conseguenze cliniche non sono state studiate in maniera sistematica (3).

 

Oppioidi e ipogonadismo
In una recente revisione sistematica e meta-analisi della letteratura (53 studi su 18.428 soggetti trattati con oppioidi per dolore cronico o come terapia di mantenimento per dipendenza da oppioidi), la prevalenza di ipogonadismo è risultata del 63% (95% CI: 55-70%) (4). È importante notare che il 99.5% dei pazienti testati per ipogonadismo erano maschi; pertanto, le evidenze riguardo il sesso femminile sono molto limitate. Lo stesso lavoro ha anche evidenziato che l’ipogonadismo è associato a tutte le modalità di somministrazione (orale, trans-dermica o intra-tecale). Inoltre, gli effetti sull’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi sono risultati immediati, dose-dipendenti e più pronunciati negli utilizzatori di fentanil e di oppioidi con più lunga durata d’azione (4,5). In generale, la riduzione della dose o la sospensione dell’oppioide si associano al ristabilimento di una normale funzione gonadica, anche se modalità e tempistiche di recupero non sono state studiate in maniera sistematica (3).
È opportuno sottolineare che altri fattori possono contribuire all’ipogonadismo nei soggetti che assumono analgesici oppioidi, quali il dolore stesso, le comorbilità e l’età anagrafica; ciò va tenuto in considerazione nell’indagare la funzionalità gonadica.
Infine, i pazienti che assumono cronicamente oppioidi presentano un aumentato rischio di osteoporosi e fratture da fragilità (3,6): l’ipogonadismo è probabilmente il fattore di rischio principale, anche se gli oppioidi possono avere anche un impatto negativo sulla salute dell’osso agendo direttamente sugli osteoblasti (3). Bisogna inoltre considerare che gli utilizzatori di oppioidi sono a maggior rischio di cadute (a causa degli effetti di questi farmaci sul sistema nervoso centrale) e hanno spesso ridotta mobilità (a causa del dolore cronico, ad esempio); tali fattori possono contribuire all’aumento del rischio di fratture.

 

Oppioidi e iposurrenalismo
La revisione sistematica e meta-analisi della letteratura citata in precedenza ha trovato una prevalenza di iposurrenalismo nel 15% di tutti i pazienti trattati con oppioidi (IC95% 6-28%), ma la prevalenza saliva al 24% se venivano inclusi solo gli studi che utilizzavano il test di tolleranza all'insulina, gold standard per la diagnosi di insufficienza cortico-surrenalica (4).
Sono stati pubblicati diversi casi di insufficienza cortico-surrenalica indotta da oppioidi orali, trans-dermici e intra-tecali, inclusi pazienti con crisi surrenaliche (7) o sintomi talmente severi da portare a ricovero ospedaliero (5). Come per la funzione gonadica, la riduzione della dose o la sospensione dell’oppioide determinano in genere il ripristino di un’adeguata produzione endogena di cortisolo (3).

 

Approccio diagnostico e gestione terapeutica
Non vi sono linee guida specifiche per la valutazione e gestione degli effetti endocrini legati all’uso cronico di oppioidi. Un approccio pragmatico nel paziente che viene avviato a terapia con analgesici oppioidi può essere il seguente (3,8):

  1. prima di iniziare la terapia indagare su sintomi/segni di ipogonadismo e iposurrenalismo;
  2. istruire il paziente riguardo le possibili disfunzioni endocrine e i loro sintomi;
  3. valutare periodicamente la funzionalità gonadica e surrenalica durante il trattamento (anche in caso di cambio di dose o formulazione analgesica):
    1. sintomi/segni di ipogonadismo (incluse le irregolarità mestruali in pre-menopausa) e iposurrenalismo;
    2. prelievi ematici: in tutti LH, FSH, PRL, cortisolo mattutino, negli uomini testosterone totale mattutino e SHBG (se disponibile), nelle donne in pre-menopausa estradiolo. I risultati andranno interpretati nell’ambito delle comorbilità, dell’età anagrafica e degli altri farmaci assunti dal paziente. L’eventuale ricorso a test dinamici per la conferma diagnostica di iposurrenalismo (quali l’ACTH test) andrebbe basato sui valori di cortisolemia e sulla presenza di sintomi/segni tipici;
    3. in caso di ipogonadismo e/o ulteriori fattori di rischio per osteoporosi, valutare il monitoraggio della densitometria ossea.
  4. In caso di riscontro di endocrinopatia:
    1. ipogonadismo: valutare la sospensione o riduzione di dose del farmaco oppioide. La buprenorfina sembra avere un effetto minimo sull’asse gonadico e potrebbe essere valutata in sostituzione. Qualora la terapia con oppioidi non possa essere modificata, bisogna valutare l’inizio di una terapia ormonale sostitutiva;
    2. iposurrenalismo: iniziare terapia sostitutiva con glucocorticoidi. Valutare la sospensione o riduzione di dose del farmaco oppioide (con l’uso eventuale di altre forme di analgesia). In caso di sospetto clinico di iposurrenalismo acuto (crisi surrenalica), il paziente va trattato con idrocortisone ad alte dosi.

 

Conclusioni
A causa dell’utilizzo crescente degli oppioidi, è di fondamentale importanza aumentare la consapevolezza dei loro potenziali effetti collaterali endocrini tra tutti i professionisti sanitari coinvolti nella prescrizione e gestione di questi farmaci, in modo che indirizzino correttamente i pazienti.
L’ipogonadismo si riscontra in più della metà degli uomini che assumono oppioidi, mentre fino a un quinto dei pazienti di entrambi i sessi sviluppa iposurrenalismo. Anche se la letteratura riguardante la prevalenza di ipogonadismo nelle donne trattate con oppioidi è molto limitata, è plausibile ipotizzare un effetto di soppressione dell’asse gonadico sulla base dei meccanismi fisiopatologici descritti in precedenza.
Fino a quando non saranno disponibili linee guida per la valutazione e gestione delle endocrinopatie causate da terapia cronica con oppioidi, è consigliabile una valutazione periodica della funzione gonadica e cortico-surrenalica, soprattutto nel caso siano presenti manifestazioni cliniche compatibili con ipogonadismo e iposurrenalismo.

 

Bibliografia

  1. Adattato da: Bruce CA. An account of the manufacture of the black tea, as now practised at Suddeya in Upper Assaam, by the Chinamen sent thither for that purpose: with some observations on the culture of the plant in China, and its growth in Assam. Calcutta: GH Huttmann, Bengal Military Orphan Press, 1838.
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