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Daniele Barbaro
Sezione Endocrinologia, ASL 6, Livorno

(aggiornato al 29 gennaio 2019)

 

Il trattamento del carcinoma anaplastico è frustrante, non solo per la pessima prognosi in termini di sopravvivenza, ma anche perchè può accadere che durante le tempistiche richieste per la programmazione della strategia terapeutica il tumore mostri una tale progressione da compromettere le possibilità di trattamento che ci eravamo prefissati. Un trattamento multimodale aggressivo, se possibile, rappresenta l'unica strategia, ma attualmente non esiste alcuna linea guida o alcun trattamento che possa essere considerato di riferimento, così come non vi è alcun consenso circa la sequenzialità dei vari trattamenti.
La chirurgia, ove possibile, rappresenta senz'altro un punto fondamentale della terapia loco-regionale che, indipendentemente dal fatto che la malattia sia metastatica, gioca un ruolo decisivo, visto che l'ostruzione delle vie aeree superiori può essere una della cause di morte. La chirurgia può avere ruoli diversi. Nei casi di stadio IVa può avere un’apparente radicalità, mentre negli stadi successivi lo scopo della chirurgia potrà essere solo di riduzione della massa; in alcuni casi sarà invece possibile poco più di una biopsia, che permetterà comunque una verifica istologica e il successivo posizionamento di una cannula tracheale. Vi sono studi in cui l'intervento chirurgico è stato eseguito dopo radio-chemoterapia, che in alcuni casi ha permesso migliori possibilità chirurgiche. In uno studio in 22 pazienti consecutivi la scelta fu di postporre la chirurgia in tutti i pazienti dopo radioterapia iperfrazionata (1.6 Gy x 2 volte al dì, per una dose totale di 46 Gy) e doxorubicina (20 mg/m2 settimanali) fino alla chirurgia eseguita dopo 3 settimane. In quello studio nei 17 pazienti che poterono eseguire l'intervento chirurgico non vi fu alcuna recidiva loco-regionale (1). Appare comunque ragionevole suggerire che la chirurgia debba essere il primo passo se vi è una possibilità di rimozione totale o comunque di importante riduzione della massa.
Fino ad alcuni anni fa le terapie successive all’intervento erano radioterapia e chemioterapia. Gli studi riguardanti l'utilizzo della radioterapia da sola non sembrano mostrare alcun beneficio, pertanto tale opzione è da prendere in considerazione nei casi di pazienti anziani in cui non si intravedano altre forme di trattamento. Pochi studi sembrerebbero mostrare un beneficio della sola radioterapia eseguita a dose piena; in uno di questi non è stata notata differenza di efficacia e tossicità fra il trattamento standard tridimensionale e la radioterapia a intensità modulata (IMRT) (2). Nella maggioranza degli studi, comunque, la radioterapia suggerita è iperfrazionata, vista l'alta velocità di proliferazione della neoplasia.
Il trattamento radio-chemioterapico ha mostrato in vari studi una maggiore evidenza di beneficio. Dalla fine degli anni '80 ad oggi vi sono poco più di 30 studi principali riguardanti varie strategie radio-chemioterapiche (3), ma purtroppo i più sono retrospettivi e con numerosità limitata. Uno dei farmaci più usati e fra i primi storicamente utilizzati è la doxorubicina, per cui già una revisione pubblicata nel 1987 aveva evidenziato una risposta (remissione parziale o stabilizzazione di malattia) nel 22% dei casi, peraltro di breve durata (4). Vari studi anche recenti ne confermano il possibile utilizzo in associazione al cisplatino, in trattamenti multimodali con radioterapia iperfrazionata. Fra questi vi è lo storico “IGR protocol” utilizzato all'Istituto Gustave Roussy di Parigi: doxorubicina (sia in schemi settimanali che trisettimanali) e cisplatino (120 mg/m2 ogni tre settimane), due cicli prima della radioterapia iperfrazionata (1.25 Gy per due volte al dì per 5 gg /settimana fino ad una dose totale di 40 Gy), seguita poi da altri 4 cicli di chemioterapia (5,6). Uno studio prospettico su 30 soggetti con questo schema ha mostrato una sopravvivenza ad un anno del 46% e a 3 anni del 27% (7). Peraltro, in un altro studio prospettico i risultati non sono stati altrettanto buoni (8). Uno studio retrospettivo multimodale su 44 pazienti con doxorubicina (60 mg/m2) più cisplatino (100 mg/m2) ogni tre settimane ha confermato un buon risultato in termini di risposta completa (31.8%) e di risposta parziale (18.2%), con una sopravvivenza mediana dei responders di 28.4 mesi contro i 5.1 mesi dei non responders (9). I tempi di sopravvivenza più lunghi si avevano nei soggetti in cui era stata possibile un’apparente radicalità. Un lavoro retrospettivo sulla banca dati del Memorial Sloan Kettering Cancer Center in 37 pazienti trattati con doxorubicina a bassa dose (10 mg/m2 settimana) e radioterapia iperfrazionata (dose mediana 57.6 Gy) ha evidenziato una sopravvivenza ad un anno solo del 28% (10).
Altri farmaci utilizzati in vari studi sono i taxani. Già nel 2000 una segnalazione riguardava il possibile utilizzo del paclitaxel (11). Il farmaco somministrato in 20 pazienti, già trattati chirurgicamente e con radioterapia, aveva ottenuto il 53% di risposte obiettive, con sopravvivenza mediana però di soli 6 mesi. Uno studio retrospettivo (12), su soli 6 pazienti, ha confermato l’efficacia dopo chirurgia decompressiva di radioterapia (2 Gy/die fino a 60 Gy) e docetaxel (iniziato entro 7 giorni dalla radioterapia, alla dose di 100 mg ogni 3 settimane per 6 cicli).
Un altro farmaco, che sembrava aver mostrato efficacia in fase 1, è la fosbretabulina, ma lo studio di fase 2 ha mostrato una sopravvivenza mediana di soli 4.7 mesi (13).
Allo stato attuale delle cose è difficile consigliare un trattamento piuttosto che un altro e probabilmente per il carcinoma anaplastico è opportuna una strategia multimodale personalizzata, che deve vedere lavorare in equipe l'endocrinologo, il chirurgo, l'oncologo e il radioterapista (14).

 

Terapie emergenti
Consultando il sito ClinicalTrials.Gov si trovano 33 trial registrati in varie fasi. Molti di essi riguardano gli inibitori multi-kinasici (principalmente lenvatinib e sorafenib, ma anche sunitinib, pazopanib, gefinitib e PLX108-01) ma alcuni riguardano l’utilizzo di farmaci immuno-oncologici (15). Sono inoltre riportate strategie multimodali con chemioterapici classici più radioterapia e trattamenti con meccanismi di azione diversi. Si rimanda al sito per maggiori informazioni, ma bisognerà aspettare ancora per capire se vi potrà essere un possibile utilizzo di queste nuove strategie. Segnalazioni in letteratura abbastanza consistenti sembrerebbero mostrare comunque un’efficacia del lenvatinib (16,17) e l’esperienza personale su due casi in trattamento conferma una possibile efficacia di tale farmaco:

  1. in un paziente trapiantato renale e immuno-depresso, stadio IVa, trattato chirurgicamente con modesto residuo di malattia, la malattia ha avuto remissione loco-regionale ma dopo 8 mesi è comparsa una metastasi cerebrale e l’exitus è avvenuto per complicanza bronco-polmonare post-intervento;
  2. in un altro caso, stadio IVc, la terapia ha arrestato il decorso tumultuoso e, sottoposta a tiroidectomia totale, la paziente è in remissione parziale dopo ben 13 mesi.

 

 

 Metastasi polmonare pre-terapia (in alto), dopo 3 mesi (al centro) e dopo 6 mesi (in basso)

 

Per il sorafenib vi è un’evidenza di efficacia in uno studio in fase 2 (18).
Alcuni studi in vitro e in vivo nell'animale hanno mostrato possibili sviluppi della terapia genica, con trasferimento di geni onco-soppressori, inibizione di oncogeni, geni suicidio o geni stimolanti la risposta immune. Riguardo alla terapia genica, l'unico lavoro pubblicato sull'uomo risale al 2005: l'inoculazione locale di un retro-virus trasportatore del gene umano IL-2 più un gene suicidio (gene timidin-kinasi dell'Herpes 1), seguito da trattamento con ganciclovir aveva mostrato necrosi del tessuto tumorale (19). Peraltro, il successivo decesso dei pazienti per problematiche cardio-vascolari aveva indotto uno stop del proseguio delle sperimentazioni.

 

Alcune conclusioni pratiche
La prognosi del carcinoma anaplastico continua ad essere severa e tuttora la risposta ai vari trattamenti, globalmente considerati, è di poco > 20%, dunque certamente vi è urgente bisogno di nuove strategie.
Per il carcinoma anaplastico una diagnosi quanto più precoce possibile è l'unica possibilità per evitare una mortalità pressochè certa. Vista la straordinaria velocità di crescita e la rarità di questo tumore, purtroppo è impossibile un'ipotesi praticabile di screening. Vi sono però alcune considerazioni pratiche. Come detto, il carcinoma anaplastico insorge spesso su un gozzo multinodulare di lunga durata e inoltre in molti casi rappresenta una sdifferenziazione di un carcinoma tiroideo differenziato. Nella metà dei casi giunti alla nostra osservazione, incredibilmente i pazienti erano portatori di gozzo in cui non era mai stato eseguito un agoaspirato. In un caso giunto alla nostra osservazione per gozzo, un FNA su uno dei noduli aveva mostrato una citologia micro-follicolare con sporadici grooves e atipie. Dopo circa due anni la paziente, che non aveva seguito l’indicazione chirurgica, si è ripresentata per la rapida crescita, nell'arco di settimane, del nodulo. In un fortunatissimo caso invece l'FNA ha permesso una diagnosi di sospetto e l'istologia post-chirurgica ha confermato la diagnosi di carcinoma anaplastico di 0.9 mm per verosimile sdifferenziazione di un papillare. Il paziente è vivo a 8 anni senza segni di ripresa e senza avere eseguito alcuna terapia radio-chemioterapica.
Dunque un consiglio pratico può essere quello di seguire con giusta attenzione i pazienti con gozzo nodulare e sforzarsi di eseguire e/o ripetere un FNA in caso di noduli ecograficamente sospetti o che mostrino crescita e modifica delle caratteristiche ecografiche.
In caso di diagnosi di carcinoma anaplastico siamo sostanzialmente di fronte a uno dei pochi tumori solidi che rappresentano un’emergenza oncologica e l'approccio multimodale sovra-descritto ma con sequenzialità individualizzata dovrà essere il più rapido possibile. La terapia con farmaci inibitori multi-kinasici è da considerare per le forme non suscettibili di intervento chirurgico o con ripresa di malattia.

 

Ringraziamento: si ringraziano per la parte citopatologica la Dott.ssa Elisa Proietti e il Prof F. Basolo, dell'U.O. Anatomia Patologica di Pisa

 

Bibliografia

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Linfoma

Sarcoma

Metastasi

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Franco Angelini & Filomena Graziano
UOC di Oncologia e Ematologia & UOC di Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale, Roma

 

Il linfoma primitivo della tiroide, anche se raro, deve essere preso in considerazione nella diagnosi differenziale dei pazienti affetti da gozzo e neoformazioni tiroidee in accrescimento progressivo, soprattutto se associato ad un quadro clinico ed ecografico di tiroidite.
Solo il 2% dei linfomi extra-nodali colpisce la tiroide e il linfoma rappresenta meno dell'1% dei tumori maligni della tiroide. Insorge con frequenza maggiore nel sesso femminile (F:M = 3-4:1) e il suo picco di incidenza si manifesta in età relativamente avanzata, tra i 65 e i 75 anni (1,2).

 

Eziologia
Il solo fattore di rischio conosciuto per il linfoma è rappresentato da una pre-esistente tiroidite cronica autoimmune, in circa la metà dei pazienti. I pazienti con tiroidite hanno un rischio di ammalarsi di linfoma tiroideo 40-80 volte superiore rispetto alla popolazione generale, con una latenza media di circa 30 anni rispetto alla diagnosi della malattia tiroidea. L'evoluzione della tiroidite di Hashimoto verso il linfoma, tipicamente MALT (“mucosa-associated limphoid tissue”), può verificarsi fino allo 0.5% dei casi ed è generalmente caratterizzata da un decorso insidioso.
La presenza nella tiroidite cronica di una ricca popolazione linfocitaria può fornire il substrato in cui un clone maligno si può sviluppare a seguito di una non meglio definita condizione di stimolazione antigenica cronica (1,3,4). A conferma di tale ipotesi sono il riscontro di aree di transizione fra un'iperplasia linfoide reattiva e aree di ben definito linfoma e la presenza di un riarrangiamento clonale dei geni delle immunoglobuline nei linfociti di alcuni pazienti con tiroidite di Hashimoto (Atlas of Endocrine Pathology).
Rimangono senza conferma le segnalazioni presenti in letteratura circa il ruolo promuovente svolto dalla supplementazione di iodio ad alte dosi (5). Controversa rimane l'associazione tra l'esposizione a radiazioni e i linfomi (6).
Tra le alterazioni molecolari descritte nel MALT linfoma vi è un ridotta espressione di bcl-2 e un'aumentata attivazione di p53 (7,8). 

 

Classificazione
I linfomi tiroidei sono quasi sempre di tipo non-Hodgkin, mentre eccezionalmente rari sono i linfomi di Hodgkin e le localizzazioni tiroidee del plasmocitoma. Si tratta di  linfomi a derivazione dalle cellule B mature; solo occasionalmente sono stati riportati casi di linfomi a cellule T.
I linfomi diffusi a grandi cellule B (DLBCL) rappresentano il sottogruppo più frequente (50-70%), con decorso più aggressivo; meno comuni sono il linfoma follicolare e quello a piccoli linfociti.
Il sottotipo generalmente associato alla tiroidite di Hashimoto è il linfoma della zona marginale extra-nodale (MALT), caratterizzato da basso grado di malignità, crescita relativamente lenta e tendenza a recidivare (o a coinvolgere in modo contemporaneo) altre sedi ricche di tessuto linfoide, quali l'apparato gastroenterico, l'apparato respiratorio, il timo e le ghiandole salivari (9).

 

Clinica
Nel 90% dei pazienti il sintomo di esordio è l’aumento progressivo di volume (in genere nel corso di settimane o mesi) di un pre-esistente gozzo. Durante il suo avanzamento, la malattia si associa a disfagia, dispnea, disfonia, dolore cervicale ed edema facciale, per la compressione di trachea, esofago e grossi vasi del collo.
Meno frequentemente il linfoma può insorgere su un nodulo singolo o può presentare una crescita lenta e insidiosa nel corso di molti mesi (1,14,15).
Obiettivamente la tiroide appare ingrandita, di consistenza dura, non dolente o scarsamente dolorabile, fissa ai piani sottostanti ed immobile con la deglutizione. In molti casi può essere apprezzata una massa dominante, ma sempre nel contesto di un aumento di volume diffuso della ghiandola.
Circa la metà dei pazienti presenta linfonodi latero-cervicali  e sovra-claveari aumentati di volume e di consistenza parenchimatoso-dura. Sintomi sistemici di malattia linfoproliferativa, quali febbre, sudorazione notturna e calo ponderale, sono presenti in circa il 10% dei pazienti.
La maggior parte dei pazienti è eutiroidea. In alcuni casi può essere presente ipotiroidismo, di solito dovuto ad una pre-esistente tiroidite di Hashimoto o, più raramente, a diffusa infiltrazione e distruzione del parenchima da parte del linfoma (1,2,10).
Solo occasionalmente è stata descritta associazione con ipertiroidismo, dovuta a rilascio ormonale secondario a distruzione dei follicoli tiroidei da parte del tumore o a un pre-esistente morbo di Graves (16,17).

 

Diagnosi
In generale, la sola altra neoplasia tiroidea che presenta una massa a rapido accrescimento è il carcinoma anaplastico, condizione che tende a presentarsi nella stessa fascia di età del linfoma. Non ci sono dati clinici o di laboratorio patognomonici per la diagnosi di linfoma tiroideo. I pazienti presentano in genere un quadro di laboratorio caratterizzato da eu o ipotiroidismo, presenza di anticorpi anti-tireoglobulina e anti-tireoperossidasi e, se ricercati, elevati valori di LDH e ß2-microglobulina (2).
L'ecografia del collo documenta la presenza di una ghiandola disomogeneamente ingrandita, con una o più formazioni nodulari  marcatamente ipoecogene, spesso con aspetto di aree mal delimitate e a distribuzione asimmetrica, che richiedono una diagnosi differenziale rispetto alla tiroidite subacuta o cronica (18)(figura 3). Coesiste frequentemente adenopatia cervicale con caratteri ecografici di sospetto.
L’esame scintigrafico della tiroide mostra la presenza di una area ipocaptante (“fredda”), dovuta alla presenza di infiltrato linfomatoso.
L'agoaspirato per esame citologico può, nel caso dei linfomi della tiroide, non consentire una diagnosi precisa per la frequente coesistenza di tiroidite di Hashimoto. I linfomi a piccole cellule sono estremamente difficili da diagnosticare citologicamente ed è necessaria  la colorazione immuno-istochimica o la citometria a flusso per stabilire l'origine monoclonale dei linfociti e caratterizzare i marcatori di superficie. La diagnosi citologica di linfoma maligno a grandi cellule offre minori difficoltà diagnostiche per la presenza di una popolazione cellulare monotona di cellule atipiche con grandi nuclei vescicolosi, nucleoli prominenti e detriti necrotici di fondo (Atlas of Endocrine Pathology).
Nella pratica clinica, in caso di sospetto diagnostico di linfoma della tiroide è opportuno eseguire una biopsia con ago tranciante (20-21 G) sotto guida ecografica. Questa procedura, scarsamente invasiva, permette di ottenere nella maggior parte dei casi campioni sufficienti per un'adeguata caratterizzazione senza necessità di ricorrere a una biopsia chirurgica. Elementi caratteristici sono la sostituzione della architettura tiroidea, l’infiltrato linfomatoso permeante i follicoli non neoplastici, l’assenza di centri germinativi (Atlas of Endocrine Pathology).
La TC (Figura 1-2) e la RMN non sono utili per la diagnosi differenziale dei linfomi rispetto ai carcinomi tiroidei, ma sono indispensabili per la stadiazione iniziale. Esse consentono di definire l'estensione extra-tiroidea di malattia in sede cervicale, valutare il coinvolgimento dei linfonodi mediastinici e addominali e documentare l'interessamento tracheale al fine di  pianificare la terapia e monitorare la risposta al trattamento.
La PET/TC può avere difficoltà nel distinguere la tiroidite di Hashimoto dal linfoma, in quanto entrambe le condizioni possono causare una captazione diffusa a tutta la ghiandola. I linfomi MALT ed i linfomi follicolari, inoltre, possono produrre immagini falsamente negative (1,9).

 

Stadiazione
La classificazione di Ann Arbor (tabella1) è quella più frequentemente utilizzata per i linfomi primitivi della tiroide. Secondo tale classificazione, il 50% dei pazienti presenta malattia localizzata alla tiroide (IE); il 45% ha una malattia localizzata alla tiroide e ai linfonodi locoregionali (IIE); solo il 5% ha un coinvolgimento dei linfonodi sia sovra- che sotto-diaframmatici (IIIE) o il coinvolgimento diffuso di altri organi (IV).
I siti extra-nodali più frequentemente coinvolti sono il midollo osseo, il tratto gastrointestinale, il polmone, il fegato, il pancreas, il rene. In considerazione del potenziale coinvolgimento di tali organi, gli esami per la stadiazione iniziale dei linfomi tiroidei devono essere gli stessi utilizzati per tutti i linfomi: TC-PET e biopsia osteo-midollare, con esame del liquor ove indicato (1,2,9,10).

 

Tabella 1
Classificazione di Ann Arbor per il linfoma Hodgkin e non-Hodgkin 
Stadio I  Il tumore invade un'unica sede linfatica (I) o solo un organo extra-linfatico (stadio IE)*
Stadio II Il tumore invade due o anche più regioni linfatiche riguardanti lo stesso lato del diaframma (II)
Possono essere interessate altre sedi linfonodali
Se è interessato un organo extra-linfatico, si definisce stadio (IIE)
Stadio III

Il tumore si estende sia sopra che sotto il diaframma. Tale stadio viene suddiviso in:

  • III1: linfonodi sopra i vasi renali, come gli ilari, i portali, i celiaci
  • III2: linfonodi inferior,i come i para-aortici, gli iliaci e i pelvici
  • IIIe: coinvolgimento di un organo extra-linfatico
  • IIIs: coinvolgimento della milza
Stadio IV Tumore diffuso al midollo osseo, al fegato o a più di due organi extra-linfatici

Tutti gli stadi sono sottoclassificati per indicare l'assenza (A) o presenza (B) dei sintomi sistemici ("B"): febbre (> 38°C), sudorazione notturnaperdita di peso inspiegabile o > 10% del peso corporeo nei sei mesi precedenti alla diagnosi.
* "E" si riferisce generalmente a estensione extra-nodale

 

Prognosi
La sopravvivenza dei pazienti affetti da linfoma tiroideo è correlata alle caratteristiche cliniche e al sottotipo istologico. Sono considerati fattori prognostici sfavorevoli: età > 65 anni, dimensione del tumore > 10 cm, stadiazione > IE, presenza di  sintomatologia compressiva locale, coinvolgimento mediastinico, crescita tumorale rapida, recidiva di malattia, istotipo a grandi cellule.
La sopravvivenza complessiva a 5 anni è (10):

  • stadio IE: 80%
  • stadio IIE: 50%
  • stadi IIIE e IVE: < 36%.

 

Terapia
Un'accurata stadiazione iniziale è indispensabile perchè il tipo e l'efficacia del trattamento dei linfomi tiroidei dipende dall'istotipo e dall'estensione di malattia. Per pianificare la gestione clinica, è necessario l’apporto di uno specialista onco-ematologo.

 

Stadio IE. Il trattamento di elezione è rappresentato dalla tiroidectomia seguita da radioterapia esterna. Nelle forme circoscritte l’intervento chirurgico è utile nel valutare il superamento  della capsula tiroidea da parte del tumore e quindi contribuisce ad una più puntuale stadiazione. Sono da evitare interventi con finalità radicali che provochino danni al ricorrente, alle vie aeree o digestive, o causino ipoparatiroidismo, in quanto non migliorano l'outcome clinico.
La radioterapia esterna è utilizzata per gli stadi IE e IIE da sola o combinata con altre modalità terapeutiche. Nel linfoma MALT stadio IE la sola radioterapia ha dimostrato un’efficacia simile alla chirurgia (11). I risultati migliori sono ottenuti con dosi > 30 Gy somministrate in un periodo di 4-5 settimane.

 

Stadi IIE o IIIE. Non vi sono evidenze sull'utilità della terapia chirurgica. In questi pazienti l'esecuzione di una biopsia tiroidea percutanea sotto guida ecografica consente di porre la diagnosi sul frammento di tessuto prelevato e consente nella maggior parte dei casi di evitare l'intervento di tiroidectomia o la biopsia chirurgica.

 

Il 25% dei pazienti con linfoma tiroideo può presentare all'esordio una severa compromissione delle vie aeree, dovuta alla rapida crescita di una variante aggressiva. E' opportuno considerare l'esecuzione di una tracheotomia in elezione in tutti i pazienti ad alto rischio di ostruzione delle vie aeree, per evitare il precipitare di una condizione di asfissia. Tuttavia, nelle situazioni meno gravi (assenza di stridore respiratorio e normali referti emogasanalitici) il pronto inizio di una chemioterapia di combinazione consente nel giro di alcune ore la messa in sicurezza delle vie aeree, grazie alla riduzione clinicamente significativa della massa neoplastica (soprattutto per il rapido effetto della componente corticosteroidea).
Nei pazienti con linfoma diffuso a grandi cellule B con malattia in stadio avanzato (III e IV) o localmente rapidamente evolutivo e in quelli che sviluppano recidive a distanza dopo un’iniziale terapia chirurgica o radiante, il trattamento di elezione è la chemioterapia. Lo schema più utilizzato consiste in 3-6 cicli di CHOP (ciclofosfamide, doxorubicina, vincristina e prednisone), associato a rituximab, un anticorpo monoclonale rivolto verso l'antigene di superficie delle cellule B denominato CD20.
Nei casi avanzati deve essere valutata l'opportunità di una  terapia multimodale combinata (radio e chemioterapia), al fine di migliorare il controllo della malattia e la sopravvivenza (1,9,10, 12,13).

 

Tabella 2
Rituximab, ciclofosfamide, doxorubicina, vincristina e prednisone nel trattamento del linfoma non Hodgkin
Farmaco Dose Modalità
Rituximab 375 mg/m2 ev Diluito in soluzione fisiologica (SF) per una concentrazione finale da 1 a 4 mg/mL. infusione iniziale: iniziare a 50 mg/h; aumentare di 50 mg/h ogni 30 min, fino ad un massimo di 400 mg/h, se tollerato
Per le infusioni successive somministrare il 20% della dose totale nei primi 30 min e il restante 80% nei successivi 60 min
Ciclofosfamide 750 mg/m2 ev Diluire in SF 250 mL e somministrare in 30 minuti
Doxorubicina 50 mg/m2 ev Diluire in SF 50 mL e somministrare in 3-5 minuti
Vincristina 1.4 mg/m2 ev (dose max = 2 mg) Diluire in SF 50 mL e somministrare in 15-20 minuti
Prednisone  100 mg per os Somministrare in 30 minuti prima della chemioterapia nel giorno 1, ogni 24 h dal giorno 2 al 5.

 

 

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Figura 1. Biopsia eco-assistita di sospetta massa linfoproliferativa del lobo destro tiroide (scansione sagittale): la freccia indica la posizione dell’ago tranciante (18 G) utilizzato per il prelievo istologico

 

 

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Figura 2. TC del collo (sezione assiale senza mdc): grossolana iperplasia di entrambi i lobi tiroidei e della regione istmica con fenomeni compressivi sulla trachea che, al di sotto della laringe, presenta calibro nettamente ridotto con diametro trasverso minimo pari a circa 4 mm. Tale espanso occupa lo spazio retro-faringeo, retro-laringeo e retro-tracheale, estendendosi caudalmente al di sotto della carena. Filiforme il lume dell'esofago adiacente. 

 

 

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Figura 3. TC del collo (ricostruzione sagittale) senza mdc: processo espansivo tiroideo destro, che disloca posteriormente e infiltra la trachea con gettoni neoplastici. 

 

 

Bibliografia

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Sara Bianchetti e Filomena Graziano
UOC di Oncologia ed Ematologia, UOC di Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale, Roma  

(2 Marzo 2012)

 

I sarcomi sono tumori maligni che originano dal tessuto mesenchimale. La localizzazione tiroidea è estremamente rara  e spesso aneddotica; la maggior parte della letteratura è infatti rappresentata da case report e case series.
L'eziologia dei sarcomi tiroidei non è nota. Tuttavia è stato ipotizzato come fattore di rischio il gozzo endemico, in quanto lo stimolo proliferativo indotto dal TSH potrebbe promuovere la trasformazione neoplastica dello struma tiroideo. Controversa è la correlazione con i trattamenti radianti.
Il numero esiguo di casi descritti in letteratura non consente di indicare una prevalenza di sesso né l'età maggiormente colpita.
Le cellule che costituiscono il tessuto mesenchimale possono conservare le caratteristiche di pluripotenzialità e dare quindi origine, nel processo di trasformazione neoplastica, anche a tessuti che fisiologicamente non sono presenti nella ghiandola tiroidea. Sono stati pertanto descritti casi di fibrosarcoma (l’istotipo più rappresentato), liposarcoma, leiomiosarcoma, osteosarcoma, condrosarcoma, angiosarcoma, sarcoma sinoviale, carcinosarcoma localizzati alla ghiandola tiroide (1,2). L’esame istologico pone non poche difficoltà  di diagnosi differenziale, soprattutto con il carcinoma anaplastico della tiroide, per la presenza di popolazioni cellulari miste fusate, tonde, pleomorfe. Tuttavia, tale discriminazione ha principalmente carattere speculativo, in quanto la storia naturale, la prognosi e il trattamento di queste due neoplasie non differiscono significativamente. L’unica eccezione è rappresentata dall'angiosarcoma, che origina dalle cellule endoteliali e ha una prognosi migliore.

 

Clinica
Clinicamente i sarcomi della tiroide hanno un comportamento simile al carcinoma anaplastico per la velocità di crescita, l’aggressività biologica, la capacità di metastatizzare precocemente e l’atteggiamento infiltrativo.
Il sintomo di presentazione più  comune è rappresentato da una tumefazione del collo a rapida crescita o dall'incremento di volume di un nodulo tiroideo pre-esistente.
Obiettivamente si presenta solitamente come una voluminosa massa di consistenza duro-elastica, poco mobile sui piani superficiali e/o su quelli profondi. Talora sono presenti linfonodi latero-cervicali aumentati di volume. Precocemente compaiono sintomi da compressione locale, quali disfagia, dispnea, emoftoe,  tosse, dolore locale ascrivibile all’effetto massa o al coinvolgimento delle strutture nervose. Ulteriori sintomi e segni possono manifestarsi in relazione alle sedi coinvolte da metastasi, rappresentate principalmente da polmoni e ossa (3).

 

Diagnosi
Il laboratorio non ha alcuna utilità nella diagnostica dei sarcomi tiroidei (4-6).
La diagnostica per immagini risulta fondamentale sia nelle fasi iniziali di diagnosi che nel follow-up.
L'esame ecografico permette di misurare le dimensioni della massa, i margini, ne evidenzia i rapporti con la capsula tiroidea e il suo eventuale superamento, ne definisce l'ecostruttura, rileva il coinvolgimento delle strutture circostanti, l’entità della vascolarizzazione.
L'agoaspirato con ago sottile della lesione non consente spesso una definizione diagnostica, per cui viene spesso integrato dalla biopsia con ago tranciante sotto controllo ecografico, che fornisce materiale sufficiente nella maggioranza dei casi.
La tomografia computerizzata, senza e con mezzo di contrasto (meglio se spirale con tecnica multifasica) e la RMN consentono di ottenere informazioni aggiuntive riguardanti l'invasione locale della neoplasia e il coinvolgimento  delle strutture vitali del collo, quali i vasi, l'esofago, le vie aeree (fig 1). Permettono inoltre di evidenziare la presenza di metastasi polmonari ed epatiche.

 

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Figura 1. TC (sezione assiale con mdc): voluminoso espanso solido del lobo sinistro con enhancement disomogeneo (freccia), dislocazione laterale dell’asse vascolare e controlaterale dell’asse tracheale, con fenomeni infiltrativi dell’esofago.

 


La scintigrafia ossea può essere utile nel dimostrare la presenza di metastasi a carico di vari segmenti scheletrici, mentre la fibrolaringoscopia e l'esofagoscopia documentano il grado di invasione delle vie aeree e digestive.

 

Terapia
Il trattamento di elezione nei sarcomi della tiroide è essenzialmente chirurgico e consiste nella tiroidectomia totale con asportazione completa della massa tumorale (fig 2).

 

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Figura 2. Paziente di anni 78, sottoposta ad intervento di tiroidectomia totale per angiosarcoma tiroideo. Tiroide in gran parte occupata da neoformazione a superficie irregolare, di colorito bianco-giallastro con aree brune, a margini mal definiti, di consistenza friabile

 

Per la pianificazione dell’intervento è indispensabile la stadiazione pre-operatoria condotta con TAC/RM del collo e mediastino ed esame endoscopico delle vie aeree e dell’esofago.Il precoce coinvolgimento di strutture vitali del collo rende frequentemente impossibile un intervento radicale, per cui spesso ci si limita ad interventi palliativi volti al salvataggio delle vie aeree e digestive.

La radioterapia nei sarcomi tiroidei svolge un ruolo complementare alla chirurgia e può essere utilizzata in fase pre-operatoria per rendere più facilmente aggredibile la massa neoplastica (terapia primaria o neoadiuvante) oppure in fase post-operatoria per cercare di ridurre il rischio di recidiva locale o a distanza. La bassa radiosensibilità dei sarcomi richiede la somministrazione di alte dosi, spesso frazionate nel tentativo di ridurre gli effetti collaterali. La radioterapia può rappresentare un trattamento esclusivo solo in pazienti le cui gravi condizioni generali controindichino l'approccio chirurgico ed assume una funzione funzione palliativa.
La chemioterapia è il trattamento di elezione nelle forme avanzate non operabili, nella malattia metastatica, nella recidiva di malattia già sottoposta a terapia chirurgica e radioterapica. Una precisa definizione dell'attivita della chemioterapia sui sarcomi tiroidei é purtroppo resa complessa dalla rarità della patologia, per la differente sensibilità dei diversi istotipi agli anti-blastici. I farmaci più attivi sono fondamentalmente gli stessi utilizzati nei sarcomi dei tessuti molli, ovvero le antracicline e l’ifosfamide, tuttavia le risposte obiettive hanno una percentuale bassa e sono di breve durata (4-6).

 

Prognosi
La sopravvivenza dei pazienti con sarcoma è correlata alle dimensioni del tumore e all’invasività locale, alla radicalità dell'intervento chirurgico, alla presenza di metastasi a distanza alla diagnosi.
La prognosi, nei pochi casi descritti in letteratura, è stata infausta.

 

Bibliografia

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Franco Angelini1, Filomena Graziano2
1
UOC di Oncologia ed Ematologia, 2UOC di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale (RM)

 

Introduzione
Le metastasi clinicamente evidenti della tiroide sono una condizione non comune, riscontrandosi solo nello 0.5% dei casi in studi autoptici non selezionati. Un coinvolgimento istologico della tiroide clinicamente non significativo è riscontrabile con frequenza più elevata nei pazienti deceduti per malattia metastatica diffusa (fino al 24% dei casi in alcune casistiche) (1,2, 4-8).
Il coinvolgimento della tiroide può avvenire per contiguità da neoplasie primitive, per lo più a cellule squamose, che colpiscono organi vicini, quali laringe, faringe, trachea ed esofago o, più frequentemente, per diffusione ematogena da sedi primitive lontane (le più frequenti sono rene, mammella, polmone e tratto gastrointestinale) (1,2,4,7).
La relativa rarità di metastasi tiroidee clinicamente evidenti, a dispetto dell'abbondante vascolarizzazione della ghiandola, potrebbe essere ricondotta alla velocità del flusso arterioso, che ostacolerebbe l'adesione delle cellule neoplastiche (come nella malattia di Graves), o agli effetti inibitori sulla proliferazione di cellule neoplastiche esercitati dall'elevata saturazione d'ossigeno e dall'elevato contenuto di iodio (3).
Estremamente rare appaiono le metastasi insorte su un tumore primitivo tiroideo, mentre relativamente più frequente (probabilmente per bias di selezione) sembra il loro riscontro in tiroidi patologiche (tiroiditi croniche) (9).
Le metastasi alla tiroide sono singole nel 40% circa dei casi.
Non è possibile dedurre dai dati della letteratura una prevalenza per sesso o individuare un'età media di incidenza. Il tempo che intercorre tra la diagnosi del tumore primitivo e l'insorgenza della metastasi tiroidea è spesso lungo (carcinoma renale), ma gli intervalli di tempo sono più brevi nelle neoplasie aggressive (tumori del polmone e melanomi).
Nei pazienti con un nuovo nodulo della tiroide, soprattutto se ad accrescimento progressivo, che abbiano anamnesi positiva per neoplasia maligna, anche se non recente, vanno sempre prese in considerazione le metastasi alla tiroide nella diagnosi differenziale.

 

Quadro clinico
Nei pazienti con malattia metastatica diffusa l'interessamento tiroideo è in genere clinicamente irrilevante. Solo raramente il riscontro di un nodulo della tiroide rappresenta il segno iniziale di un tumore primitivo in altra sede o la prima presentazione di recidiva di una malattia neoplastica curata anni prima. E’ comunque sempre necessario ricordare che la tiroide può essere coinvolta dall'estensione locale di tumori della regione del collo.
Un tumore metastatico alla tiroide può manifestarsi come un nodulo singolo o nell'ambito di un gozzo nodulare ad accrescimento progressivo. Sempre più frequentemente viene diagnosticata una lesione metastatica in seguito al riscontro occasionale (“incidentaloma”) di un nodulo tiroideo con l'esame ecografico, la PET o l'octreoscan eseguiti per varie patologie neoplastiche (3).
L'esame obiettivo documenta una tumefazione di consistenza aumentata, talora poco mobile con la deglutizione e gli atti del respiro. Solo in caso di neoplasie aggressive, possono comparire in breve tempo sintomi da compressione locale, quali disfagia, dispnea, tosse, dolore locale ascrivibile all'effetto massa o all'invasione locale (3). Nella maggioranza dei casi questi sintomi si associano a quelli dovuti al tumore primitivo e alla presenza di metastasi in altri organi.
Raramente le metastasi alla tiroide possono indurre una condizione di ipertiroidismo, a seguito della distruzione del tessuto tiroideo e al conseguente incremento di iodotironine in circolo (2,6).

 

Diagnosi
L'ecografia mette in evidenza una lesione tiroidea, spesso a carattere ipoecogeno e ben vascolarizzato, ma priva in genere di caratteri che consentano un preciso orientamento diagnostico. L’esame ecografico permette, inoltre, anche se in modo aspecifico, di evidenziare le dimensioni della massa, i margini,  i rapporti con la capsula tiroidea, il suo eventuale superamento e il coinvolgimento delle strutture circostanti

 

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Metastasi tiroidea da carcinoma renale a cellule chiare in paziente di anni 70
Ecografia del collo (scansione trasversa): lobo tiroideo destro completamente occupato da formazione nodulare solida ipoecogena a margini polilobulati ad ecostruttura disomogenea

 

L'agoaspirato della formazione nodulare è l'esame cardine per la diagnosi. La cellularità è in genere abbondante e in alcuni casi la morfologia delle cellule può già chiaramente orientare verso il tumore primitivo (presenza di cellule pigmentate in alcuni, ma non tutti, i casi di melanoma). Tuttavia, non sempre la sola citologia consente una diagnosi corretta (come nel caso di una possibile diagnosi citologica di lesione follicolare nelle metastasi da carcinoma renale a cellule chiare) (13). Orientano in genere verso una lesione secondaria la presenza di cellule fortemente atipiche, con nucleoli prominenti e marcato rapporto nucleo-citoplasmatico e la coesistenza di eventuale necrosi.
In caso di dubbio di metastasi tiroidea all’esame morfologico, è necessario eseguire l'immunoistochimica per tireoglobulina e calcitonina per confermare la genesi non tiroidea delle cellule in esame. La negatività per la tireoglobulina, tuttavia, non esclude un tumore primitivo della tiroide, quando la diagnosi differenziale comprende il carcinoma anaplastico tiroideo, che può essere tireoglobulina negativo (9,12-14).
L'esame citologico deve essere completato con le specifiche colorazioni immunocitochimiche per i tumori primitivi sospettati (tabella).

 

Colorazioni immunocitochimiche specifiche
Tumore Marcatore
Carcinoma renale CD-10
Carcinoma mammario recettori per estrogeni, progesterone e CGDFP 15
Carcinoma prostatico PSA
Carcinoma polmonare surfactante (non sempre positivo). Il TTF 1 è positivo nelle cellule tiroidee e non è dirimente
Melanoma HMB-45
Carcinoma ovarico CA-125
Carcinoma intestinale CDX-2, citocheratina-20
Carcinoma gastrico citocheratina-20
Tumori neuroendocrini cromogranina-A, CD-56, sinaptofisina
Linfoma CD-3, CD-20, CD 45

 

Dopo la diagnosi di metastasi tiroidea da tumore primitivo ad altra sede di origine, deve essere sempre condotta, prima della tiroidectomia, una stadiazione completa, che comprenda tomografia computerizzata (o RMN) e PET-TC finalizzate ad evidenziare la presenza di metastasi in altri organi e l’estensione ed operabilità del tumore primitivo.
Informazioni aggiuntive riguardanti l'invasione locale della neoplasia e il coinvolgimento  delle strutture del collo (vasi, esofago, vie aeree) sono ricavate dall’esecuzione di esami endoscopici dedicati.

 

Terapia
Le metastasi alla ghiandola tiroide sono spesso associate a malattia avanzata e prognosi infausta (2). Il tempo di sopravvivenza non è significativamente diverso nei pazienti oncologici con metastasi alla tiroide rispetto a quelli senza la loro evidenza clinica e il decorso è correlabile allo stadio e al tipo di tumore primitivo piuttosto che alla presenza di impegno tiroideo (7).
In presenza di metastasi multiple extra-tiroidee e in assenza di sintomi di invasione locale, non è  appropriato rimuovere la tiroide e la terapia resta quella della neoplasia primitiva. Al contrario, se un paziente con pregressa neoplasia maligna già trattata con intento curativo presenta un nodulo tiroideo metastatico e le indagini diagnostiche escludono ripetizioni in altri organi, l'approccio chirurgico consente la conferma diagnostica e un efficace provvedimento terapeutico (5,7).
Per i pazienti con linfoma si rimanda alla trattazione specifica.
L'estensione della chirurgia è dettata dalle circostanze locali e dallo stato generale del paziente. Comunemente viene raccomandata la lobectomia per le metastasi solitarie e la tiroidectomia per le metastasi bilaterali (9, 10, 11).
È comunque necessario pesare il ruolo del trattamento chirurgico e della sua estensione sulla base della prognosi del tumore primitivo e del reale beneficio atteso attraverso un consulto multidisciplinare con gli specialisti di area.

 

Bibliografia

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Nadia Cremonini (1) & Giovanni Tallini (2)
(1) Ambulatorio di Endocrinologia, Clinica Privata Villalba, Bologna
(2) Anatomia Patologica, Ospedale Bellaria, Azienda USL di Bologna

(aggiornato al 20 maggio 2018)

 

In ambito tiroideo le indagini genetiche sono di supporto alla diagnostica sia per la ricerca di alterazioni della linea germinale, correlate alla sindrome MEN-2 per il carcinoma midollare della tiroide (MTC), sia per l’individuazione di alterazioni tissutali indicative di trasformazione neoplastica maligna.

 

CARCINOMA MIDOLLARE
Nei pazienti con MTC la ricerca di mutazioni germinali del proto-oncogene RET è fondamentale, e deve essere effettuata anche in assenza di anamnesi familiare positiva per la patologia (circa il 7% dei pazienti con MTC apparentemente sporadico, risulta portatore di mutazione genetica RET). Anche la recente revisione delle linee guida dell’American Thyroid Association (ATA) (1) raccomanda di proporre il test genetico, previo counseling a:

  • tutti i pazienti con presunto MTC sporadico;
  • parenti di primo grado di pazienti con MTC ereditario;
  • genitori di bimbi con fenotipo classico MEN-2B;
  • pazienti con lichen cutaneo amiloidosico del dorso;
  • bambini con malattia di Hirschprung.

Il test RET deve includere gli esoni 10 e 11 (da effettuarsi per primi, per maggiore frequenza di mutazione dei codoni in questi esoni) e, se negativi, gli esoni 8, 13, 14, 15 e 16.
Per i pazienti con fenotipo MEN-2B, deve essere ricercata la mutazione del codone M918T (esone 16) e, se negativa, la mutazione del codone A883F (esone 15).
Se viene rilevata una mutazione germinale nel paziente, l’analisi genetica deve essere proposta ai familiari di primo grado, al fine di individuare i portatori della mutazione stessa, possibilmente prima dell’età raccomandata per la tiroidectomia profilattica.
I familiari non portatori di mutazione devono essere rassicurati e non devono essere sottoposti a screening biochimico per MTC, feocromocitoma o iperparatiroidismo.
In assenza di mutazioni RET, ma in presenza di sospetto elevato di MTC familiare, si deve verificare che sia stato effettuato uno screening genetico completo, prendere in considerazione la ricerca di nuove mutazioni e lo screening biochimico dei familiari a rischio dall’età di 5 anni.
Da anni è nota la stretta correlazione tra specifiche mutazioni germinali di RET, età di esordio e aggressività di MTC (2), e la correlazione genotipo-fenotipo nelle MEN-2A: l’identificazione di una specifica mutazione indica anche la tempistica per lo screening di feocromocitoma e iperparatiroidismo, poiché la loro incidenza ed età di esordio differisce in base alla mutazione (nei pazienti con mutazione RET C634 il feocromocitoma ha una incidenza del 50% nella V° decade di vita e del 90% nella VIII°, l’iperparatiroidismo è presente in circa il 30% dei pazienti, mentre è nettamente inferiore nei pazienti con altre mutazioni).
Le ultime linee guida ATA (1) hanno indicato di modificare la classificazione dei 4 livelli di rischio per MTC aggressivo (A,B,C,D, in ordine crescente di rischio) delle precedenti Linee Guida ATA (2009) (3), considerando 3 livelli di rischio:

  • categoria “rischio più alto” (ex livello D): include pazienti con MEN-2B e mutazione RET M918T; per questi bambini il test RET, l'ecografia (US) tiroidea, il dosaggio di calcitonina (CT) e la tiroidectomia profilattica devono essere effettuati il prima possibile, preferibilmente entro il primo anno di vita;
  • categoria “rischio alto” (ex livello C): include pazienti con mutazioni del codone C634 (MEN-2A) o mutazione del codone A883F (MEN-2B); il rischio di MTC aggressivo è inferiore, ma sempre elevato. La tiroidectomia profilattica è suggerita prima dei 5 anni o anticipata in caso di rilievo di livelli elevati di CT, con dissezione del comparto linfonodale centrale se CT > 40 pg/mL, o se evidenza di linfonodi metastatici;
  • categoria “rischio moderato” (ex livelli B e A): include pazienti con MTC ereditario e mutazioni diverse da M918T, C634 e A883F, che hanno un rischio inferiore rispetto alle altre due categorie; i bambini dovrebbero essere valutati clinicamente, con US del collo e dosaggio di CT a partire dai 5 anni; il timing della tiroidectomia andrebbe determinato in base a valori elevati di CT, o prima se il monitoraggio a lungo termine risulta impossibile.

Per i pazienti con mutazioni RET di categorie ATA di rischio alto e moderato è importante considerare i livelli basali e stimolati di calcitonina, al fine di proporre una maggiore personalizzazione del timing per la tiroidectomia nei portatori di mutazione: per tali categorie, si è dimostrato sicuro pianificare l’intervento nel momento in cui la CT stimolata diventa positiva, senza variazioni della percentuale di guarigione rispetto alla tiroidectomia profilattica classica (4,5). Requisito essenziale per questo approccio è la compliance del paziente e/o dei familiari.

 

Ricaduta clinica dello screening genetico per RET

  • Individua le forme ereditarie di MTC.
  • Guida il clinico nella strategia di follow-up dei pazienti.
  • Indica la tempistica di effettuazione di screening genetico nei familiari, con conseguente precoce identificazione dei soggetti portatori della mutazione di
  • Indica la tempistica della tiroidectomia totale profilattica nei portatori di mutazione

Ogni qualvolta si deve proporre un test genetico, si raccomandano incontri pre- e post-test tra clinico, genetista (ove possibile) e paziente e/o familiari da sottoporre al test stesso, per illustrare in modo semplice e comprensibile le motivazioni del test e le decisioni cliniche conseguenti al risultato.

 

 

NEOPLASIE DI ORIGINE FOLLICOLARE

Le problematiche maggiori in citologia tiroidea derivano da categorie a diagnosi “indeterminata”, che corrispondono a diagnosi di “atipia/non diagnostica, possibile neoplasia-Thy3a” e “neoplasia follicolare/sospetta neoplasia follicolare-Thy3f” secondo la classificazione Royal College of Pathologist (UK) (7), o a diagnosi di “lesione indeterminata a basso rischio – Tir3A” e “lesione indeterminata ad alto rischio - Tir3B” secondo la classificazione Italiana SIAPEC-IAP (8), che complessivamente interessano il 5-20% dei casi e non ci permettono di distinguere se il nodo è benigno o maligno, e in minor misura da quelle che corrispondono a una diagnosi di “sospetta neoplasia maligna - Tir4”.
Circa il 20% dei noduli a citologia indeterminata risulterà maligno all’istologia e pertanto molti di questi pazienti vengono sottoposti a chirurgia diagnostica.
La necessità di migliorare la performance diagnostica della citologia per le lesioni indeterminate ha portato all’introduzione di test molecolari su materiale citologico, atti a rilevare mutazioni o riarrangiamenti genetici somatici, per migliorare la sensibilità diagnostica della citologia nel differenziare i noduli benigni dai maligni, e quindi selezionare in modo più accurato i pazienti che devono essere sottoposti a terapia chirurgica terapeutica (permettendo l’indicazione a tiroidectomia totale in un tempo unico), e non diagnostica (emitiroidectomia, con radicalizzazione chirurgica in un secondo tempo se l’istologia è diagnostica per lesione maligna).
Per una diagnosi pre-operatoria di malignità, il test “Rule in” più sensibile e specifico è costituito da un pannello di mutazioni geniche multiple (BRAF, RAS, RET/PTC, PAX8/PPARgamma) (8-10). Mentre nelle varie casistiche viene riportata uniformemente elevata specificità (86-100%) e alto valore prognostico negativo (85-100%) del pannello mutazionale nelle categorie citologiche “atipie/lesioni follicolari ad incerto significato”, “neoplasia follicolare/sospetta neoplasia follicolare”, “indeterminata” (9-12), la sensibilità e il valore prognostico positivo risultano molto più variabili, rispettivamente 18-100% e 19-100%, per i bassi valori rilevati da Eszlinger et al (12) nella categoria citologica indeterminata di associazione di malignità per RAS (12%) e PAX8/ PPARgamma (50%), rispetto ad altri autori (9-11).

 

Schema della tumorigenesi nei carcinomi tiroidei ad eziologia follicolare (modificato da 6)

 

Mutazione BRAF-V600E. È il marcatore molecolare più studiato, presente nel 45-50% dei carcinomi papillari della tiroide (PTC), con percentuale variabile nei diversi istotipi: > 90% nella variante a cellule alte, 5-10% nella variante follicolare. Pertanto, nella variante follicolare del PTC, quella che pone i maggiori problemi alla citologia, la ricerca di BRAF riveste un limitato valore diagnostico. I dati della letteratura attestano che la positività della mutazione di BRAF su un campione citologico indeterminato (Tir3) o sospetto (Tir4) ha un valore predittivo positivo del 100% per la diagnosi di PTC.
Il ruolo prognostico della mutazione BRAF-V600E è invece controverso: l’associazione con un esito peggiore rilevata da alcuni studi (13-15) non è stata confermata da altri (16,17).
La revisione delle linee guida ATA inserisce i micro-carcinomi papillari intra-tiroidei, mono- o pluri-focali, nella categoria di basso rischio anche se BRAF-mutati, nella categoria di rischio intermedio se multi-focali con estensione extra-tiroidea e BRAF-mutati, e nella stessa categoria i PTC < 4 cm intra-tiroidei se BRAF-mutati (18).
La mutazione BRAF è un bersaglio terapeutico per inibitori chinasi-specifici, quali dabrafenib e vemurafenib, molecole che hanno indotto risposta clinica in pazienti con PTC avanzato iodio-refrattario esprimenti la mutazione, anche se la risposta è risultata inferiore rispetto a quella ottenuta in altri tumori.

Riarrangiamenti del gene RET (RET/PTC). Si rilevano nel 20-40% dei PTC. Le forme più frequenti sono RET/PTC1 e RET/PTC3, che rappresentano più del 90% dei casi. Tali riarrangiamenti sono associati a esposizione a radiazioni ionizzanti sia accidentali (come nel caso dei PTC post-Chernobyl), sia a scopo terapeutico, con prevalenza del 50-80% nei PTC insorti dopo esposizione alle radiazioni; si può rilevare anche nei PTC dei bambini e dei giovani adulti. È importante considerare che RET/PTC può essere presente a bassi livelli in lesioni non-neoplastiche (es. tiroidite di Hashimoto) o in alcuni noduli tiroidei non maligni.

Mutazioni di H-, K- ed N-RAS. Sono presenti nelle lesioni tiroidee a pattern follicolare: adenoma follicolare, carcinoma follicolare (FTC), variante follicolare del PTC e NIFTP (neoplasia follicolare non invasiva con caratteri nucleari papillari) (19) e la loro prevalenza è maggiore nelle aree con carenza iodica. Pur non essendo mutazioni specifiche per il FTC, data la presenza anche negli adenomi follicolari, la mutazione RAS su citologia è stata associata a diagnosi istologica di carcinoma nel 76% dei casi, con rischio maggiore di malignità per H-RAS rispetto ad N-RAS e K-RAS (20). Mutazioni di RAS sono state associate a un comportamento clinico più aggressivo nei carcinomi differenziati della tiroide, e sono di frequente riscontro nei carcinomi scarsamente differenziati.

Riarrangiamento PAX8/PPARγ. È presente nel 20-50% degli FTC e in circa il 10% degli adenomi follicolari. Nei FTC PAX8/PPARγ è stato associato a fenomeni di invasione vascolare e a pazienti più giovani, ma non a prognosi sfavorevole. Il riaarrangiamento è raramente presente nelle forme a scarsa differenziazione.

 

Altri biomarcatori
Lo studio del profilo di espressione genica (cDNA microarray) e di fattori regolatori dell’espressione genica (micro-RNA) è più recente; l’espressione di alcuni microRNA (miR-146b, miR-155, miR-221) su campione citologico risulta utile nel distinguere i noduli benigni dai PTC, ma presenta bassa sensibilità e specificità nei noduli con citologia indeterminata (21). È stata segnalata una diversa espressione di alcuni miRNA (miR-146b, miR-222, miR-34b, miR-130b) nelle forme aggressive di PTC rispetto alle forme meno aggressive, e una maggiore espressione di miR-146b nei PTC BRAF-positivi e più aggressivi (22), e in una metanalisi (23) i livelli di espressione di alcuni miRNA (21, 34b, 130b, 135b, 146b, 151, 181b, 199b-5p, 221, 222, 451, 623, 1271, 2861) è risultata correlata ad almeno un carattere aggressivo (grandi dimensioni tumorali, multi-focalità, estensione extra-tiroidea, invasione linfo-vascolare, metastasi linfonodali, metastasi a distanza, stadio avanzato).

Mutazione di TERT (promotore di telomerasi). La prevalenza è del 20-50% nei carcinomi scarsamente differenziati della tiroide e del 30-70% nei carcinomi anaplastici, mentre si riduce drasticamente nei PTC (circa 11%) e nei FTC (circa 17%). Promuove la progressione tumorale dei carcinomi tiroidei differenziati a tumore scarsamente differenziato e a carcinoma anaplastico. La presenza della mutazione nelle forme differenziate ne aumenta aggressività clinico-patologica, recidiva e mortalità, ulteriormente potenziate dalla coesistenza di mutazioni BRAF o RAS, in particolare nei pazienti con carcinomi differenziati della tiroide ad alto rischio ATA e secondo il sistema TNM (24-26). Va ricordato che la presenza di mutazione TERTBRAF) secondo le linee guida ATA 2015 (18) fa rientrare i PTC > 1 cm nella categoria ad alto rischio di recidiva strutturale (in assenza di evidenza di malattia strutturale dopo il trattamento iniziale).

GEC – Gene Expression Classifier. Utilizzando come test “rule-out” l’analisi di un profilo di espressione genica (valutazione di 167 geni) per identificare i noduli a basso rischio di malignità nonostante una citologia indeterminata, uno studio multicentrico condotto su 3789 pazienti e 4812 FNA di noduli tiroidei > 1 cm, ha rilevato che nei 265 casi di diagnosi citologica indeterminata, con riscontro istologico, è stato ottenuto un valore prognostico negativo rispettivamente del 95%, 94%, e 85% per le categorie citologiche “atipia di significato clinico indeterminato”, “neoplasia follicolare/sospetta neoplasia follicolare”, “sospetta neoplasia maligna” (27). Tali dati fecero indicare agli autori che in presenza di GEC test negativo si poteva tenere un approccio un approccio di tipo conservativo nella maggior parte dei pazienti con diagnosi citologica di “atipia di significato clinico indeterminato” e “neoplasia follicolare/sospetta neoplasia follicolare” (27). Infatti, la negatività del test genetico, pur in presenza di diagnosi citologica di “atipia di significato clinico indeterminato - Tir3a” o “neoplasia follicolare/sospetta neoplasia follicolare - Tir3f”, comporterebbe un rischio di malignità simile a quello di un nodulo con diagnosi citologica di lesione benigna. I rischi insiti in questo approccio sono rappresentati dalla probabilità di malignità nei noduli con diagnosi citologica Tir3a e Tir3f, compresa tra il 5 e il 10% anche se classificati come benigni con il GEC test, e dal rischio di malignità > 15% per i noduli con citologia sospetta per carcinoma (Tir4), pure in presenza di un test di espressione genica negativo. Poiché in questo e in successivi lavori il follow-up dei pazienti con citologia indeterminata, GEC-test negativo e non operati era < 1 anno, il GEC test non può essere ancora raccomandato nella routine clinica al fine di escludere la malignità in sostituzione della chirurgia o della stretta sorveglianza (28).

La biologia molecolare su citologia tiroidea ci aiuta nella decisione peri-operatoria?
La presenza di mutazioni con valore predittivo di malignità > 95% (BRAF-V600E, RET/PTC) può ridurre il numero di tiroidectomie in due tempi, mentre per mutazioni associate a un minore rischio di malignità (es RAS-N-H-K) non abbiamo ancora evidenze sufficienti per potere scegliere la tiroidectomia totale anziché la lobectomia (28). Va precisato che la performance di ogni test diagnostico (valore prognostico positivo e negativo) è fortemente influenzata dalla prevalenza di malignità per ogni specifica categoria citologica, prevalenza che varia nei diversi Centri. Pertanto, è necessario che i clinici conoscano la prevalenza di malignità per le categorie indeterminate della citologia tiroidea nei propri Centri.

 

CONSIDERAZIONI PRATICHE
L'analisi genetica per la ricerca di mutazioni germinali di RET è da anni parte integrante della gestione dei pazienti affetti da MTC.
Nei pazienti con neoplasie dell'epitelio follicolare, la ricerca di mutazioni somatiche (BRAF, RET-PTC, RAS) su citologia va presa in considerazione:

  • per completare la valutazione citologica nelle lesioni “indeterminate”,
  • se si ritiene che il suo risultato modifichi la gestione clinica,

mentre non va utilizzata nei noduli con caratteri citologici francamente benigni o maligni (29).
La ricerca di TERT va effettuata se si sospetta una forma poco differenziata in base a caratteri clinici, ultrasonografici e citologici.

 

COSTI
Dal nomenclatore SIAPEC (Nomenclatore 2006-Prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale) il costo per un'analisi mutazionale corrisponde a:

  • estrazione del DNA: € 45.45;
  • analisi del DNA: € 155.97 (riferito a ogni singola analisi di sequenza).

 

BIBLIOGRAFIA

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Mario Cappagli1 & Virginia Cappagli2
1Ex SSD Endocrinologia, Ospedale S. Andrea, La Spezia
2Endocrinologia e malattie del metabolismo, Università di Pisa

(aggiornato al 4 gennaio 2022)

 

La maggior parte dei tumori tiroidei di origine dall’epitelio follicolare ha prognosi eccellente e va incontro a remissione di malattia dopo il trattamento iniziale (chirurgia ± terapia radiometabolica con 131I). Tuttavia, è presente un rischio di recidiva di malattia a distanza di anni dalla remissione, seppur minimo, a seconda dalla coorte studiata 0.2-1.4%.
La recidiva è prevalentemente localizzata a livello del letto tiroideo e dei linfonodi loco-regionali o dei tessuti molli del collo. Inoltre, il 5-10% dei tumori tiroidei svilupperà metastasi a distanza nel corso del follow-up, prevalentemente localizzate a livello polmonare e osseo; di queste circa il 60% circa diventerà iodio-refrattario, con conseguente riduzione della sopravvivenza media a 3-5 anni.
Il monitoraggio dei pazienti nel tempo ha quindi lo scopo di identificare il più precocemente possibile l’eventuale recidiva e/o localizzazione a distanza di malattia, al fine di pianificare il trattamento più adeguato. La stadiazione di recidiva di malattia e di malattia avanzata si basa sia sulla valutazione dei marcatori tumorali che su metodiche di diagnostica per immagini.

 

VALUTAZIONE DEI MARCATORI TUMORALI
Il dosaggio della tireoglobulina (Tg) sierica circolante è uno strumento fondamentale per il monitoraggio dei pazienti con malattia residua o recidiva di malattia, specialmente se basato su metodiche ultra-sensibili e valutato longitudinalmente nello stesso laboratorio. Nei pazienti con tireopatia autoimmune, il dosaggio degli anticorpi anti-Tg viene utilizzato come marcatore surrogato di persistenza/recidiva di malattia.
Secondo le nuove linee guida (LG) internazionali ATA, il monitoraggio dei valori sierici di Tg circolante, in terapia con L-tiroxina, e degli anticorpi anti-Tg deve essere eseguito:

  • nei pazienti a rischio basso o intermedio, che ottengono una risposta eccellente dopo il primo trattamento iniziale, ogni 12-24 mesi;
  • nei pazienti ad alto rischio, indipendentemente dalla risposta al trattamento iniziale, e in tutti i pazienti con risposta biochimica o strutturale incompleta, ogni 6-12 mesi.

La valutazione longitudinale nel tempo di entrambi i marcatori permette sia di identificare precocemente una possibile recidiva di malattia, a volte molto prima delle metodiche di diagnostica per immagini, sia di valutare la rapidità di progressione di malattia nei pazienti con recidiva e/o malattia avanzata, orientando quindi il clinico sulla tempistica del follow-up e sulla necessità di eseguire ulteriori esami di imaging.

 

DIAGNOSTICA PER IMMAGINI

Ecografia del collo
Dal 2006 è raccomandata dalle LG ATA come metodica principale, più sensibile, insieme al dosaggio della Tg, per l’identificazione delle recidive loco-regionali di malattia, sostituendo il ruolo fino a quel momento avuto dalla scintigrafia totale corporea. La metodica è infatti in grado di identificare lesioni millimetriche (anche di 2-3 mm), sia nella loggia tiroidea che nei linfonodi cervicali, sedi più frequenti di persistenza/recidiva di malattia. Rispetto alla scintigrafia totale corporea, è inoltre in grado di identificare localizzazioni di malattia indipendentemente dalla loro iodio-avidità o iodio-refrattarietà.
Alcuni studi hanno dimostrato come i marcatori ecografici predittivi di malignità linfonodale con più elevata sensibilità/specificità siano, oltre all’assenza di visualizzazione dell’ilo, soprattutto l’aspetto cistico della lesione, le micro-calcificazioni e la vascolarizzazione peri-lesionale.
Limite dell’ecografia è la mancata esplorabilità delle sedi extra-cervicali, quali il mediastino superiore, o delle strutture cervicali a localizzazione profonda, in sede retro e/o para-faringea. Inoltre, è una metodica operatore-dipendente a volte poco specifica, che evidenzia in alcuni casi lesioni di aspetto indeterminato.
Tempistica: secondo le LG ATA, l’ecografia del collo è raccomandata a 6-12 mesi di distanza dal trattamento iniziale e poi periodicamente sulla base sia del rischio stimato di recidiva che dei valori e del trend della Tg.

 

TC e RM con mezzo di contrasto
La TC con mezzo di contrasto iodato consente una precisa localizzazione anatomica delle sedi di malattia, definendone non solo le esatte dimensioni ma anche i rapporti con le strutture adiacenti. Secondo le nuove LG ATA, l’esecuzione di TC e/o RM è indicata:

  • per lo studio di collo e torace in caso di pazienti:
    • con evidenza ecografica di estesa recidiva loco-regionale;
    • con ecografia negativa ma valori dosabili e incremento di Tg;
    • nei casi in cui sia necessario valutare pervietà e integrità delle vie aeree e digestive;
  • per lo studio di altri distretti nei pazienti ad alto rischio con elevati valori di Tg circolante (> 10 ng/mL) e nessuna evidenza di metastasi polmonari e/o linfonodali mediastiniche.

La tempistica di ripetizione della metodica nel tempo non è standardizzata: nella maggior parte dei casi si attesta tra i 6-12 mesi, ma dipende essenzialmente dal “carico” tumorale e dal trend di crescita del marcatore tumorale.
La TC è al momento l’unica metodica riconosciuta dalle LG per definire la progressione o stabilità di malattia, sia prima di avviare un’eventuale terapia sistemica sia in corso di terapia per valutarne l’efficacia. L’applicazione dei criteri RECIST consente di definire la variazione tra due valutazioni (ognuna basata sulla somma dei diametri massimi delle lesioni bersaglio parenchimali — > 1 cm — e dei diametri minimi delle lesioni bersaglio linfonodali — > 1.5 cm), come:

  • progressione di malattia: incremento > 20%;
  • risposta parziale: diminuzione di almeno il 30%;
  • stabilità di malattia: riduzione/aumento insufficiente per rientrare nelle altre categorie.

Recentemente alcuni autori hanno suggerito come il cambiamento di volume della lesione bersaglio possa essere un marcatore più affidabile rispetto alla valutazione mono-dimensionale dei criteri RECIST.
Il limite della TC è il rischio di tossicità da mezzo di contrasto iodato e/o il rischio di esposizione alle radiazioni.

La RM è la metodica per eccellenza per l’identificazione e lo studio delle metastasi ossee, soprattutto per definirne l’eventuale estensione ai tessuti molli circostanti, e per la caratterizzazione delle metastasi cerebrali e/o epatiche.

 

Scintigrafia totale corporea diagnostica con 131I
Sfruttando la capacità delle cellule tiroidee, anche tumorali, di captare lo iodio, la scintigrafia diagnostica totale corporea con 131I, mediante l’acquisizione di immagini planari o tridimensionali (SPECT/CT RAI), consente di identificare la persistenza/recidiva di malattia e anche di metastasi a distanza, con elevata specificità (91-100%), ma minor sensibilità (27-55%). In accordo con le LG ATA, tale procedura non è però ormai più routinariamente raccomandata per i pazienti a rischio basso-intermedio, ma solo per quelli a rischio intermedio-alto, preferendo l’acquisizione di immagini tridimensionali rispetto a quelle planari, o nei pazienti con positività degli anticorpi anti-Tg.

 

Tomografia ad emissione di positroni (PET)
Negli ultimi anni questa metodica ha trovato sempre più largo uso in campo oncologico, a scopo sia diagnostico che prognostico. Il tracciante più utilizzato è il 18F-FDG, analogo marcato del glucosio, che sfrutta l’elevato metabolismo glucidico delle cellule tumorali rispetto a quelle normali, secondario alla minor efficienza energetica della glicolisi anaerobia rispetto alla fosforilazione ossidativa.
Negli ultimi anni, l’utilizzo della metodica ibrida PET/TC ha notevolmente migliorato la localizzazione anatomica delle lesioni. Tuttavia, alcuni studi hanno dimostrato come la sua capacità diagnostica nell’identificare recidive locali o metastasi polmonari, soprattutto < 1 cm, sia inferiore rispetto a quella dell’ecografia del collo e della TC.
Le LG ATA raccomandano di utilizzare la PET/TC con 18F-FDG nei pazienti ad alto rischio con scintigrafia totale corporea con 131I negativa e valori elevati di Tg circolante, sia basale che stimolata (generalmente > 10 ng/mL). In tale categoria di pazienti la metodica raggiunge sensibilità delll’83% e specificità dell’84%. Inoltre, potrebbe essere utile anche come metodica di stadiazione iniziale nelle forme poco differenziate (scarsamente differenziate, variante a cellule alte o a cellule di Hürthle). Al momento, non c’è evidenza che la preparazione mediante stimolazione con rhTSH aumenti il valore prognostico della metodica e pertanto non è raccomandata nelle nuove LG ATA.
Sebbene la metodica abbia al momento prevalentemente un ruolo prognostico, alcuni autori ne hanno proposto l’utilizzo anche nella valutazione della risposta alle terapie sistemiche nei pazienti con malattia avanzata, mediante l’utilizzo dei criteri PERCIST basati su modificazioni dell’attività metabolica.

 

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Claudio Maurizio Pacella & Enrico Papini
Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale (RM)

(29/02/2012)

 

Questo capitolo è dedicato ad una trattazione generale dei principi e metodi delle tecniche ablative percutanee. Per il loro impiego clinico nelle lesioni focali tiroidee e nelle secondarietà linfonodali, epatiche o scheletriche delle neoplasie endocrine vedi i rispettivi capitoli.

*nel testo le tecniche sono menzionate con l’acronimo inglese; le terapie combinate non sono trattate estesamente in questo contesto perchè richiedono un capitolo a sé stante

 

INTRODUZIONE E CLASSIFICAZIONE

Le terapie mini-invasive guidate da imaging per la distruzione locale dei tumori (“ablazione”) possono essere suddivise in termiche e non-termiche.

  • Le termiche inducono un danno irreversibile delle cellule tumorali innalzando o abbassando la temperatura nell’area bersaglio. Sono:
    • ipertermiche quando generano calore mediante ultrasuoni o energia elettromagnetica (radiofrequenza, laser, microonde)*
    • ipotermiche quando producono basse temperature mediante la rapida espansione di gas (crioterapia)*.
  • Le non-termiche per indurre la morte delle cellule tumorali usano agenti fisici (con danno irreversibile della permeabilità delle membrane cellulari)* o agenti chimici (alcol o acido acetico)* (1).

Negli ultimi 25 anni le terapie loco-regionali sono state impiegate nel trattamento di tumori primitivi e metastatici del fegato, del rene, del polmone, dell’osso, della prostata e del cervello (2-21). Gli insuccessi, dovuti in alcuni casi al tipo, al grading e/o alle dimensioni del tumore, hanno portato all’impiego di strategie combinate associando alle terapie loco-regionali chemioterapia, radioterapia, terapia radiometabolica o trattamenti percutanei trans-arteriosi (22-28).
Il temine “image-guided (US, CT or MR) tumor ablation” sottolinea il ruolo dell’imaging nella pratica clinica. Queste terapie, talora eseguite in laparoscopia o laparotomia a cielo aperto, sono poste in atto con approccio percutaneo grazie alla guida ecografica, tomografica o con risonanza magnetica. L’imaging visualizza il tumore nella fase del centraggio e posizionamento degli aghi o elettrodi (targeting), durante il trattamento (controlling) e, infine, nella verifica dei risultati subito dopo la procedura o durante il follow-up (assessment). Le terapie percutanee mini-invasive inducono una distruzione completa (in situ) o una cito-riduzione della massa tumorale in tempi brevi, in maniera selettiva (distruzione del solo tumore o della lesione focale e di 0.5-1.0 cm di tessuto apparentemente sano circostante), con scarsa perdita di sangue, minore trauma dell’organo sede della lesione e assenza della morbilità peri- e post-operatoria.
Le tecniche mini-invasive sono poste in atto in sedazione cosciente, con minimo impatto della anestesia e minore stress psico-fisico del paziente. Sono pertanto eseguibili in regime di day-hospital anche in pazienti ad alto rischio chirurgico e, data la ripetibilità delle manovre percutanee nel tempo, possono essere trattati anche pazienti con lesioni chirurgicamente non resecabili.

 

TERAPIE NON TERMICHE

Ablazione con agenti chimici
Percutaneous Ethanol Injection (PEI). Questa metodica, interessante per il basso costo e la semplicità, consiste nella somministrazione di un agente chimico, usualmente l’etanolo e più raramente l’acido acetico, nell’area bersaglio attraverso aghi sottili con calibro inferiore al mm (21 G). L’etanolo induce disidratazione del citoplasma delle cellule e denaturazione delle proteine, con secondaria necrosi coagulativa del tessuto tumorale. L’alcool, inoltre, entrando nel circolo vascolare del tumore, induce necrosi endoteliale e trombosi seguite da necrosi tissutale ischemica.
La PEI è stata usata nel trattamento degli epatocarcinomi in pazienti cirrotici con buoni risultati (29, 30). L’acido acetico è stato proposto in alternativa all’alcol per la sua maggiore capacità di penetrazione e diffusione nella componente fibrosa del tessuto tumorale. La distribuzione non uniforme nelle lesioni sottoposte a trattamento, soprattutto in tessuti a contenuto fibroso o disomogenei come le metastasi, ha indotto ad abbandonare tale metodica.
Per l’uso di tale metodica in ambito endocrinologico si rimanda al capitolo sulla PEI nel trattamento delle lesioni cistiche benigne della tiroide e nel trattamento percutaneo delle metastasi linfonodali da carcinoma tiroideo papillifero (PTC) non responsive al trattamento con radioiodio.

 

Ablazione con agenti fisici
Irreversible Electroporation (IRE). Questa recente metodica non-termica provoca la morte delle cellule tumorali per apoptosi. Si basa sulla cessione di impulsi elettrici ad alta frequenza (micro- milli-secondi) che, generando campi elettrici focalizzati di varia intensità (fino a 3kV/cm), provocano un danno irreversibile della permeabilità delle membrane cellulari del tessuto tumorale (31). Poichè non c’è cessione di energia termica (32), l’IRE danneggia le cellule del parenchima, ma lascia integre le vie biliari, i vasi, il tessuto collagene e i nervi (33-35). Questi dati fanno intravedere un'applicazione di questa metodica a particolari tessuti ed organi, come prostata, mammella, rene o tumori cutanei(36, 37). La tecnica può usare aghi sottili, di solito multipli, con varia configurazione spaziale e con punte attive di diversa lunghezza. Sono in corso studi in vivo su animali per capire le variabili che determinano l’area di ablazione per sessione (33, 38).
Per quanto attiene la patologia tiroidea, studi in vitro dimostrerebbero che l'IRE produce un incremento della captazione del radioiodio in cellule tumorali tiroidee in coltura scarsamente recettive al radioiodio (39). Non ci sono valutazioni in vivo che confermino l’incremento dell’azione tumoricida del radioiodio nei carcinomi scarsamente differenziati pretrattati con questa tecnica.

 

TERAPIE TERMICHE

Ablazione Ipertermica. Quando le temperature che si generano intorno alla punta di un ago-elettrodo inserito in una lesione focale oscillano tra i 60° e i 100°C avviene una rapida denaturazione delle proteine (“necrosi coagulativa”), con danno irreversibile dell’apparato enzimatico mitocondriale cellulare e del DNA nucleare. Il danno causa la distruzione delle cellule entro alcuni giorni, ma non tutte le cellule comprese nella zona di coagulazione sono morte irreversibilmente. E’ questa la ragione per cui si preferisce chiamare l’area necrotica zona di coagulazione (coagulation zone).
Le temperature ottimali per l’ablazione sono comprese fra 50°C e 100°C, ma l’esatta temperatura a cui la cellula muore dipende da molti fattori ed è legata al tipo di tessuto sottoposto alla procedura termica e ai tempi di azione dell’insulto termico. La massima temperatura alla periferia della zona di ablazione, conosciuta come temperatura critica, varia da 30° a 77°C in un tessuto normale e da 41° a 64°c in vari tipi di tumore(40, 41). Questo significa che la dose richiesta per indurre la morte cellulare varia in maniera significativa da tessuto a tessuto(32). Per temperature al di sopra di 105-110°C si verifica vaporizzazione e carbonizzazione, che limitano la diffusione dell’energia termica nel tessuto, soprattutto quando si usa la radiofrequenza (RF) o la luce laser (LA), al contrario delle microonde (MW) in cui le alte temperature non interferiscono con la deposizione di energia.

 

Radiofrequency Ablation (RFA). Nel sistema di termoablazione con antenne a radiofrequenza il paziente è inserito in un circuito costituito dal generatore, l’elettrodo inserito all’interno del paziente nell’area bersaglio e una seconda larga antenna di riferimento applicata su una superficie esterna del paziente. In questo circuito il tessuto bersaglio è l’elemento di resistenza al passaggio del flusso di corrente alternata tra le due antenne. La discrepanza dimensionale tra la piccola superficie dell’antenna posizionata nel tessuto bersaglio e la larga antenna di riferimento (antenna di terra) esterna fa sì che il calore che si genera viene focalizzato e concentrato verso l’elettrodo più piccolo. Poiché il tessuto è un cattivo conduttore di elettricità (impedenza), il flusso di corrente tra le due antenne provoca agitazione degli ioni tissutali e quindi calore per effetto Joule. Calore si sviluppa rapidamente nelle aree ad alta densità di corrente e quindi nei tessuti più vicini agli elettrodi, per poi propagarsi ai tessuti più lontani per conduzione (42). Il processo di ablazione provoca disidratazione e vaporizzazione del tessuto, con conseguente incremento della resistenza del tessuto stesso al flusso di corrente (impedenza). Per controllare l’incremento di impedenza che inibisce il flusso di corrente dal generatore, si può espandere la superficie dell’elettrodo più piccolo, usare una corrente pulsata o iniettare soluzioni saline vicino all’elettrodo. Sulla base di questi dati sperimentali, si sono sviluppati diversi tipi di elettrodi, da quelli con più antenne sottili espandibili perfuse con soluzioni saline e non, con morfologia ad uncino, ad ombrello, ad albero di natale, a quelle senza antenne espandibili e perfuse con soluzioni saline raffreddate (1). Tale metodica attualmente è la più diffusa e la più testata, ma non sono ancora disponibili studi controllati che ne dimostrino la superiorità rispetto alle altre metodiche ipertermiche, anche se sono in corso RCT tra la RFA e la LA (7, 43).
Circa l’uso della RFA nella patologia benigna vedi il paragrafo relativo.

 

Laser Ablation (interstitial laser coagulation, interstitial laser therapy, interstitial laser phototherapy, laser-induced thermal therapy (LITT) o photothermal therapy). La luce laser è trasmessa al tessuto tumorale mediante fibre ottiche di quarzo flessibili, usualmente di calibro molto sottile (300-600 µm) direttamente inserite nel contesto dell’area bersaglio. Laser è l’acronimo di “light amplification by stimulated emission of radiation” e sta a significare la spontanea emissione di fotoni dagli atomi eccitati. La luce laser è coerente monocromatica e può essere collimata e focalizzata (il fascio di luce è composto da onde elettromagnetiche che hanno la stessa frequenza, la stessa fase e la stessa lunghezza d’onda). Per queste caratteristiche è possibile trasferire grandi quantità di energia a distanza senza significative perdite di energia (in caso di controlling della procedura con RM le fibre possono essere lunghe 10 metri).
La maggior parte dei laser in uso sono al Nd:YAG (ad onda continua di 1064 nm) o a diodo (con lunghezza d’onda di 800-980 nm), offrono maggiore penetrazione e assorbimento nei tessuti e operano con potenze comprese tra i 2 e i 40 W. Due sistemi sono in uso in clinica. Uno consiste nell’uso di aghi sottili (21G) e fibre a punta piatta di 300 µm (44), mentre l’altro usa diffusori cilindrici raffreddati, con calibro pari a 400-600 µm, in grado di depositare nel tessuto più di 30 W mediante una superficie emittente più larga in grado di ridurre il surriscaldamento e quindi la vaporizzazione e la carbonizzazione (45-47). Quest’ultima tecnica può essere controllata in tempo reale con la RM durante il trattamento, rendendo agevole la verifica dell’effettiva distruzione del tumore. In entrambi i cas,i i tempi della procedura sono brevissimi, variando da 3 a 6 minuti. La tecnica è diffusa in Germania, Italia e Regno Unito e recentemente è in studio clinico in USA (47).
Per le applicazioni in campo tiroideo vedi il capitolo relativo.  

 

Microwave Ablation (MW). La tecnica a micro-onde usa frequenze molto elevate uguali o superiori a 900 MHz. Quando si cede energia elettromagnetica ad un tessuto, parte di questa energia viene spesa per modificare la polarità delle molecole del tessuto, come quelle dell’acqua. Il passaggio delle micro-onde all’interno delle cellule provoca una rapida ed improvvisa rotazione delle molecole di acqua contenute nel tessuto e parte di questa energia viene dissipata in calore (isteresi termica). Il processo si arresta quando si arresta la cessione di energia (48). Le micro-onde, al contrario dell'energia a radiofrequenza, penetrano rapidamente in tutti i tessuti biologici, anche in quelli a bassa conduttività, come il polmone, l’osso o i tessuti disidratati, raggiungendo temperature molto elevate (> 150°C) con maggiore efficacia ablativa. Non necessita di una seconda antenna di terra come la radiofrequenza, perché non necessità di un circuito chiuso e quindi, al pari della energia laser, è possibile applicare più sorgenti simultaneamente per amplificare l’area di coagulazione (49). E' tuttavia difficile controllare la distribuzione dell’energia nel tessuto irradiato e i dispositivi non sono maneggevoli come per le altre metodiche (50). Inoltre, l’eccessiva potenza usata consente all’operatore di ottenere aree ablative più larghe, ma può condurre a danni in zone non selezionate per l’ablazione, come per esempio la cute. Sono in corso studi con sistemi di raffreddamento delle antenne, che tendono ad eliminarne il riscaldamento (51). La tecnica è molto diffusa in Cina e Giappone e attualmente non ci sono studi in campo tiroideo. 

 

Ultrasound Ablation-High-intensity focused ultrasound (HIFU). È possibile elevare la temperatura in una determinata area di tessuto mediante la cessione interstiziale mirata di energia ultrasonora. L’HIFU è una tecnica ablativa ipertermica non invasiva, basata sulla generazione di onde ultrasonore extra-corporee focalizzate su un'area bersaglio. L’energia si propaga attraverso la cute senza danneggiarla, fino a raggiungere un punto focale, dove la temperatura aumenta per frizione molecolare. Il fascio di ultrasuoni è focalizzato geometricamente o elettronicamente, in modo da ottenere un'alta concentrazione di energia che coagula in maniera precisa solo un’area di pochi millimetri senza danneggiare i tessuti contigui (52). L’area ablata è molto piccola (da uno a pochi mm3) e quindi sono necessari molti impulsi in sequenza continua per ottenere un volume di ablazione di rilievo clinico. Il tutto e’ controllato da un computer, avviene in anestesia generale e richiede alcune ore per ottenere un volume di ablazione significativo. Sono disponibili dati su lesioni renali, epatiche, prostatiche, pancreatiche e fibromi uterini.
In campo endocrino, dopo studi di fattibilità in vivo (53), sono stati riportati uno studio di fattibilità in noduli benigni di piccolo volume (54) e in pazienti con iperparatiroidismo primario (55). E’ una tecnica promettente, ma allo stato attuale risulta troppo complessa e costosa per la pratica clinica.

 

Cryoblation. L’argon è un gas che quando si espande si raffredda, mentre l’elio si scalda. I sistemi di cryoblation sfruttano l’effetto Joule-Thomson di questi gas per creare cicli di congelamento e di scongelamento e danneggiare in tal modo la membrana delle cellule. Con questa metodica, le dimensioni della zona di ablazione correlano con le dimensioni dei dispositivi usati per raggiungere le aree di trattamento. Una criosonda da 13-gauge (2.4 mm di diametro) produce un'area di ablazione di 2.5 cm di diametro massimo (56). La tecnica è stata testata su lesioni di diversi organi (polmone, reni, fegato, prostata)(20), ma non in campo tiroideo per ovvi motivi legati al critico e ristretto spazio del collo. Le sonde sono grandi e spesso è necessario l’uso di più sonde per ottenere significative aree di ablazione. I tempi di trattamento si aggirano intorno ai 45 min (per tumori esofitici di 2-3 cm del rene) e l’intera sessione, in anestesia profonda, può richiedere molti cicli di congelamento e scongelamento della durata di due o tre ore, con costi estremamente elevati rispetto alle altre metodiche.  

         

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Andrea Liverani, Tatiana Di Cesare, Francesco Cilurso, Carmelo Morano
UOC di Chirurgia Generale, Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale

 

INTRODUZIONE
Nel 5-20% circa dei pazienti con carcinoma differenziato della tiroide (DTC), dopo il trattamento iniziale si manifesta persistenza di malattia o recidiva loco-regionale. Nel 70-80% di questi casi la ripresa di malattia si localizza nei linfonodi. I due terzi dei casi si presentano nella prima decade di follow-up (1,2).
La recidiva locale, palpabile o visualizzabile con US, TC, RMN, trova nella exeresi chirurgica il trattamento elettivo e preferibile.
Per le recidive locali o linfonodali captanti, il solo trattamento radio-metabolico con 131I è efficace solo nelle lesioni di piccole dimensioni. Le recidive locali e linfonodali non captanti, così come le recidive non palpabili già trattate con 131I e visualizzabili con US o altra metodica ma non responsive al trattamento, devono essere trattate chirurgicamente.
Il re-intervento è un importante fattore di rischio per complicanze specifiche:

  • alterazione dei normali piani anatomici;
  • difficile dissociazione delle strutture anatomiche, spesso inglobate in cicatrice;
  • dimensioni della recidiva con ampie dissezioni.

L’aumento delle complicanze è di 3–5 volte.
Obiettivi primari delle metodiche chirurgiche assistite sono:

  • identificare la sede della recidiva neoplastica;
  • guidare l’asportazione radicale della recidiva;
  • confermare l’avvenuta asportazione;
  • limitare la dissezione dei tessuti al fine di una riduzione delle complicanze;
  • utilizzare accessi chirurgici anatomicamente vergini.

 

CHIRURGIA ECO-GUIDATA (IOUS)
La metodica identifica le recidive non palpabili, può suggerire variazioni dell’intervento, verifica la completa asportazione dei tessuti patologici (3,4).
Problemi e limiti della metodica sono (5,6):

  • l’eccessiva impedenza acustica dei tessuti cicatriziali, della fibrosi, delle calcificazioni, dei punti non riassorbiti, crea zone cieche e notevoli problemi d’interpretazione dell’immagine ecografica;
  • la metodica è operatore-sensibile e può aumentare i tempi operatori;
  • difficoltà operative in campo operatorio aperto;
  • bassa sensibilità e specificità nell’esplorazione del VI compartimento.

La chirurgia eco-guidata con repere metallico (fig 1) è una possibile variazione della metodica che comporta (7):

  • minimo rischio di lesione ricorrenziale;
  • buoni risultati;
  • discomfort del paziente;
  • possibile dislocazione del repere specie per lesioni superficiali o durante la dissezione tessutale;
  • difficoltà in presenza di cicatrici dense (tessuto cicatriziale);
  • rischioso posizionamento in prossimità dei grossi vasi;
  • supporto ecografico intra-operatorio per conferma radicalità.

 

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Figura 1
Posizionamento sotto guida ecografica di repere metallico per successiva resezione

 

 

EXERESI CROMO-GUIDATA
Tale metodica consiste nell’iniezione eco-guidata all’interno della lesione di colorante vitale; ciò consente buona visualizzazione intra-operatoria (fig 2) e riduzione della dissezione tessutale, ma necessita di assoluta precisione dell’inoculo, può provocare reazione allergica al colorante e tossicità locale (necrosi cutanea, neurotossicità)(8). La verifica della radicalità è esclusivamente visiva o ecografica.

 

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Figura 2
Iniezione di colorante vitale sotto guida ecografica (a sinistra) per facilitare il riconoscimento intra-operatorio della lesione (a destra)

 

 

CHIRURGIA RADIO-GUIDATA
Il principio su cui si basa è l’accumulo di uno specifico tracciante radioattivo all’interno di un tessuto bersaglio. Il tessuto così marcato viene identificato attraverso l’uso di una gamma-sonda intra-operatoria.

Recidive iodocaptanti
Il primo radio-farmaco utilizzato per la chirurgia della tiroide è stato ovviamente lo iodio-131 (9-10). In una casistica di 31 pazienti, il 41% di 184 foci metastatici asportati erano stati visti solo dalla scintigrafia intra-operatoria (11).
Vantaggi della metodica sono:

  • localizzazione della recidiva con elevata specificità e sensibilità;
  • localizzazione della recidiva anche in tessuto cicatriziale o in sedi anatomiche “sfavorevoli” (retro-vascolari o mediastiniche);
  • rilevazione di foci non visualizzati alla scintigrafia pre-operatoria;
  • conferma dell’asportazione radicale della lesione.

I problemi sono:

  • esposizione del paziente e degli operatori ad alte dosi di radiazioni;
  • protocollo di lunga durata (8 giorni). È stato però proposto l’uso di 123I alla dose di 2 mCi, la cui breve emivita (13 ore) consente l’intervento lo stesso giorno o il giorno successivo (12).

 

Recidive non iodio-captanti
Solo una parte dei DTC recidivi captano iodio (50-60% dei PTC e 64-67% dei FTC). In quelli che non lo captano viene utilizzato come radiofarmaco il 99mTc-MIBI ev, che ha dimostrato alta sensibilità nell’individuare recidive cervicali e mediastiniche di DTC (il 60-70% dei casi capta il tracciante)(13,14). Iniettando alcuni minuti prima dell’intervento il tracciante (da 1 a 20 mCi) diluito in soluzione salina, si è ottenuta l’asportazione del 16% di 147 foci metastatici non rilevati dalle metodiche di localizzazione pre-operatoria (15,16).
Questo tipo di procedura è stato adottato anche nel carcinoma midollare (MTC): combinando 111Indio-pentetreotide e 99mTc-DMSA è stata riportata una sensibilità del tumore del 97% (17,18).
È recente la comparsa in letteratura (19) dell’uso di sonda PET intra-operatoria con l’utilizzo di 18F-FDG come radio-farmaco per le recidive non captanti di DTC in 12 pazienti: attenzione ai falsi positivi nel II livello (per l’alta captazione fisiologica delle ghiandole sotto-mandibolari).

 

ROLL (localizzazione radioguidata di lesioni non palpabili)
La tecnica è nata per l’asportazione di neoplasie mammarie non palpabili e consiste nell’iniezione eco-guidata intra-tumorale (nel tumore individuato in precedenza con metodica d’immagine) il giorno prima o lo stesso giorno dell’intervento di un radio-farmaco a base di 99mTc coniugato (a colloide di albumina umana, nano-colloide, macro-aggregato di albumina, destrano), con l’utilizzo di una gamma-sonda intra-operatoria per la ricerca e rimozione della lesione inoculata senza danno al tessuto circostante. Esistono alcune segnalazioni sull’uso della tecnica nelle recidive di DTC (20-23).
Nella nostra esperienza dal 2010 abbiamo trattato 38 pazienti (età media 47 anni, con range 18-85 anni, 26 donne e 12 uomini), con recidiva di carcinoma tiroideo (3 MTC, 34 PTC, 1 FTC+PTC), precedente tiroidectomia totale e linfoadenectomia compartimentale, conferma della recidiva (linfonodale in 32 e parenchimale in 6) con esame citologico su FNA-US. Da 1 a 2 ore prima dell’intervento sono stati sottoposti a inoculazione eco-guidata nella/e recidive con ago sottile 21G di 0.1 mL di nano-colloide marcato con 10 MBq di 99mTc. I pazienti sono poi stati divisi in 2 gruppi: gruppo 1 (n = 19, F14-M5) sottoposto a trattamento chirurgico tradizionale (eco-guidato o dissezione anatomica), gruppo 2 (n = 19, F12-M7) a chirurgia radio-guidata.

 

 

 

 

 

La durata dell’intervento è risultata pari a 100±45 min nel gruppo 1 vs 113±37 min nel gruppo 2 (p = 0.9). Nessuna complicanza si è verificata nei 2 gruppi. Il numero di linfonodi asportati è stato pari a 171 nel gruppo 1 vs 153 nel gruppo 2, ma nel gruppo 1 l'istologia ha confermato una positività di 38 linfonodi (22% circa), mentre nel gruppo 2 la positività istologica si è avuta per 54 linfonodi (circa il 35%). Nel gruppo 2 il chirurgo ha modificato l'accesso chirurgico in 2 casi.

In conclusione la metodica

  • è di facile riproducibilità;
  • consente la precisa localizzazione intra-operatoria della recidiva, limitando il rimaneggiamento tissutale;
  • non necessita di professionalità specifica nell’uso dello strumento di rilevazione;
  • consente di mantenere gli stessi tempi operatori;
  • è di guida per l’utilizzo di piani di dissezione non convenzionali;
  • dà la certezza dell’asportazione di tutto il tessuto inoculato;
  • il tempo di apprendimento è rapido (2-3 casi);
  • consente il risparmio in termini di utilizzo di sala operatoria e degenza post-operatoria (dimissione in 2° giornata post-op).

Nella nostra esperienza la metodica è sempre consigliabile e potrebbe essere ritenuta obbligatoria in caso di pluri-recidiva, collo fisicamente/anatomicamente “difficile”, sede retro-vascolare, IV e VI compartimento.

 

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Marco Boniardi
SC di Chirurgia Generale Oncologica e Mininvasiva, Ospedale Niguarda Ca’ Granda, Milano

 

Le vie aeree possono essere interessate, per contiguità, dall’infiltrazione di un carcinoma tiroideo. Questa eventualità è piuttosto frequente nei carcinomi anaplastici, in più del 25% dei casi, mentre più raro è il loro coinvolgimento da parte dei carcinomi ben differenziati (6-8% dei casi). Ancora più raro, solo nel 3% dei casi, è l’interessamento delle vie digestive superiori (faringe-esofago), quasi sempre in associazione ad un’infiltrazione delle vie aeree (1-3).
Si tratta più spesso di malati anziani, nei quali il carcinoma della tiroide presenta un andamento più aggressivo.
L’interessamento delle vie aeree da parte del tumore tiroideo comporta un significativo peggioramento della prognosi, con aumento della morbilità e della mortalità, soprattutto quando lo sviluppo del tumore coinvolge tutta la parete del viscere con estensione intra-luminale. Sono infatti possibili, in questi casi, episodi di soffocamento, per stenosi del lume o per paralisi ricorrenziale bilaterale, o di asfissia per imponenti emorragie all’interno dell’albero respiratorio.

 

Diagnosi
La diagnosi di infiltrazione delle vie aeree/digestive da parte del tumore tiroideo viene posta sulla base di segni clinici e con l’ausilio di indagini strumentali.
La consistenza lignea del tumore e la sua fissità sui piani profondi costituiscono segni indiretti di interessamento delle strutture viscerali del collo; così pure la comparsa di disfonia può indurre al sospetto di una paralisi ricorrenziale per coinvolgimento diretto del nervo ricorrente o per infiltrazione dei muscoli laringei. L’interessamento della trachea può però presentarsi anche in assenza di paralisi ricorrenziale.
L’emoftoe è invece sempre il riflesso di uno sviluppo intraluminale del tumore.
La laringoscopia indiretta o la fibroscopia laringea possono evidenziare una paralisi delle corde vocali o, nelle forme più avanzate, consentono di rilevare focolai emorragici nelle aree infiltrate.
La TC e la RM rappresentano al momento le indagini più accurate per il riconoscimento di un coinvolgimento delle vie aeree e digestive da parte del tumore: esse consentono inoltre di valutare l’estensione della malattia e di pianificare una corretta strategia di trattamento.
Di scarso rilievo, ai fini diagnostici, sono l’ecotomografia, più indicata per lo studio delle lesioni focali tiroidee o delle linfoadenopatie satelliti, e la PET, utile nell’evidenziare la presenza di tessuto neoplastico, ma priva di definizione anatomica.

 

Trattamento
Nei carcinomi anaplastici il coinvolgimento delle vie aeree è nella maggior parte dei casi già presente all’esordio della malattia: spesso risulta interessata anche la via digestiva e possono essere presenti metastasi a distanza. La prognosi è severa e non sono in questi casi giustificati comportamenti chirurgici aggressivi.
La terapia chirurgica può invece presentare un ruolo fondamentale  nel trattamento delle forme avanzate di carcinomi ben differenziati.
Nei casi di infiltrazione superficiale della trachea o della laringe da parte del tumore prevale un atteggiamento chirurgico conservativo. Viene attuata la cosiddetta “shaving resection”, che consiste nel distacco del tumore dal piano cartilagineo delle vie aeree. Il residuo di malattia, in genere di piccola entità, viene successivamente trattato con radioterapia esterna o con iodio-131. I risultati di questo approccio, in letteratura, vengono riferiti  sovrapponibili in termini di sopravvivenza ad interventi più radicali.
Interventi chirurgici demolitivi con conservazione della funzione respiratoria possono trovare indicazione nei carcinomi ben differenziati a lenta evoluzione, in cui la neoplasia infiltri la parete laringea o tracheale “a tutto spessore”. Lo scopo di queste procedure è radicalizzare, quando possibile, l’exeresi della neoplasia, ma soprattutto di impedire l’instaurarsi di una stenosi delle vie aeree e di prevenire il rischio di morte da asfissia per emorragia nell’albero respiratorio.
Si tratta di interventi chirurgici che richiedono grande competenza e una notevole esperienza da parte del chirurgo, che risulta decisiva nel garantire radicalità all’intervento e nel contenere, in limiti accettabili, la percentuale di complicanze. L’indicazione ad una resezione laringea o tracheale, anche in considerazione della morbilità non trascurabile di queste procedure, non può prescindere da un’attenta valutazione del rischio operatorio (età del paziente, condizioni generali, comorbilità presenti), dell’ estensione e dell’aggressività della malattia, dell’assenza di altri focolai metastatici non suscettibili di trattamento.
Gli interventi demolitivi con salvataggio delle vie aeree e della funzione vocale più comunemente utilizzati sono (2,3):

  • l’emilaringectomia verticale, che prevede un’asportazione della porzione di laringe infiltrata dal tumore;
  • la resezione circonferenzale di uno o più anelli tracheali, con ricostruzione diretta della continuità del lume tracheale (4);
  • resezioni parziali della parete tracheale (“fenestrazioni”) e ricostruzione della parete mediante copertura con fibre o aponeurosi dei muscoli pre-tiroidei.

Il coinvolgimento delle vie digestive consente una più limitata possibilità di intervento (5). Solo nel caso in cui il carcinoma si estende posteriormente alla faringe, coinvolgendo il seno piriforme, anche con sviluppo intra-luminale, è possibile eseguire l’exeresi monolaterale del seno piriforme mediante una faringectomia laterale: questo intervento può garantire una radicalità oncologica senza sacrificare la funzione fonatoria e il meccanismo della deglutizione.
Più difficoltosa è la preservazione delle vie digestive in caso di interessamento dell’esofago, associato, quasi costantemente, a un coinvolgimento della trachea da parte della neoplasia. Se la parete del viscere è infiltrata solo parzialmente, nella porzione più esterna, è possibile asportare la tonaca muscolare salvaguardando l’integrità della sottomucosa e della mucosa. Se l’esofago è invece coinvolto a tutto spessore, si rende necessaria una esofagectomia totale (approccio cervico-toraco-addominale) con ripristino della continuità del tratto digestivo mediante anastomosi tra faringe e stomaco tubulizzato o, più raramente, con il colon destro escluso dal transito intestinale. L’esofagectomia è un intervento gravato da una significativa morbilità e mortalità: l’indicazione ad una procedura così demolitiva deve essere pertanto commisurata a una concreta prospettiva di radicalità oncologica e ad una ragionevole convinzione di poter incidere favorevolmente sulla prognosi della malattia.
I trattamenti adiuvanti con radioterapia o con terapia radiometabolica devono essere considerati, in ogni caso, parte integrante anche di queste procedure chirurgiche, per garantire un migliore controllo locale della malattia e per ridurre in modo significativo la percentuale di recidive.

 

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Alessandro Gasbarrini1, Michele Cappuccio2
1Chirurgia vertebrale oncologica e degenerativa, Istituto Ortopedico Rizzoli, Bologna
2Ortopedia e traumatologia – Chirurgia vertebrale, Ospedale Maggiore, Bologna

(aggiornato al 25 novembre 2015)

 

SOMMARIO

Il numero di pazienti con metastasi ossea sintomatica che giunge all’osservazione del chirurgo ortopedico è in costante aumento. L’individuazione del trattamento più idoneo è di fondamentale importanza per questi pazienti, in quanto una corretta scelta terapeutica ha notevoli implicazioni sulla qualità di vita residua. Viene proposto un algoritmo di trattamento multi-disciplinare del paziente con metastasi ossee centrato sul paziente, nel quale sono coinvolte diverse figure professionali, quali l’oncologo, il radioterapista, l’anestesista e il chirurgo ortopedico.

 

INTRODUZIONE

L’incidenza di metastasi scheletriche in corso di malattia neoplastica viscerale è inferiore solo alla localizzazione polmonare ed epatica. La scelta del trattamento più idoneo assume importanza cruciale per il paziente, che può essere gravemente inabilitato dalla presenza di una metastasi ossea non trattata.
Trattandosi della manifestazione di una malattia sistemica, le metastasi scheletriche necessitano di un trattamento multi-disciplinare, in cui radioterapia, terapia farmacologica e chirurgia devono integrarsi, al fine di ottenere il miglior controllo locale possibile della lesione (1).
I capisaldi del trattamento chirurgico di una lesione metastatica sono stati esaurientemente indicati in quattro punti da Sherry e coll nel 1982 (2):

  1. poiché la prima procedura è quella che ha la migliore probabilità di successo, bisogna cercare di ridurre al minimo il rischio di recidiva locale o di progressione di malattia e quindi di un secondo intervento;
  2. si deve ricostituire quanto più è possibile del difetto osseo; la sostituzione protesica è spesso un’opzione migliore della riduzione e sintesi;
  3. si deve cercare di rendere più breve possibile l’ospedalizzazione, tenendo sempre in mente la ridotta aspettativa di vita del paziente;
  4. si deve mirare al più rapido ritorno a uno stato funzionale autonomo, eliminando lunghi periodi di immobilizzazione.

A livello vertebrale il trattamento di un paziente con malattia metastatica deve anche mirare a evitare un deterioramento della funzione neurologica, oltre a dare stabilità alla colonna vertebrale e ripristinare un corretto allineamento sagittale. In pratica il trattamento chirurgico deve mirare ad ottenere un buon controllo locale, riducendo al minimo la possibilità di recidiva locale, ed eliminare il dolore oncologico e/o neurologico con una bassa morbilità peri-operatoria e post-operatoria.

 

APPROCCIO AL TRATTAMENTO CHIRURGICO DEL PAZIENTE CON METASTASI OSSEA

La valutazione del trattamento da eseguire in un paziente affetto da metastasi ossea dipende da numerosi fattori e coinvolge come si è detto figure professionali diverse, facenti parte di un vero team multi-disciplinare. Oltre al chirurgo ortopedico oncologico, le altre figure coinvolte sono l’anestesista, che deve partecipare all’eventuale intervento chirurgico, l’oncologo, il radioterapista, il terapista del dolore e di volta in volta il chirurgo generale e/o toracico in caso di presenza di metastasi viscerali o il neurochirurgo per metastasi encefaliche.
Vi sono alcune differenze per quanto riguarda la localizzazione metastatica alle ossa lunghe degli arti rispetto alle localizzazioni vertebrali, anche se i principi oncologici rimangono i medesimi. Di seguito vengono riportati i vari fattori determinanti il tipo di trattamento da eseguire.

 

Operabilità (ASA score)
L’operabilità, da valutarsi ad opera dell’anestesista, è il primo fattore determinante e discriminante sul tipo di trattamento da eseguire. L’anestesista va anche informato sul tipo di intervento chirurgico al quale il paziente dovrebbe essere sottoposto, la durata prevista e il sanguinamento intra-operatorio. A tal proposito, l’anestesista deve sapere che interventi ritenuti di chirurgia maggiore, possono risultare meno “impegnativi” di interventi minori e di minor durata ma che possono produrre sanguinamenti intra-operatori notevoli (3), soprattutto in tumori intensamente vascolarizzati nei quali non si è riusciti ad effettuare una completa embolizzazione delle afferenze vascolari della lesione. L’ASA score è un parametro fondamentale, anche per la sua correlazione con la sopravvivenza a breve e medio termine nei pazienti metastatici sottoposti a trattamento chirurgico (4).

 

Tabella 1
Valutazione dello stato del paziente secondo la American Society of Anestesiology (ASA)
ASA 1 Paziente in buona salute
ASA 2 Presenza di una malattia sistemica minore senza alcuna limitazione funzionale
ASA 3 Presenza di una malattia sistemica grave con moderata limitazione funzionale
ASA 4 Presenza di una malattia sistemica grave con costante pericolo per la sopravvivenza
ASA 5 Paziente prossimo al decesso, che si prevede non possa sopravvivere senza l’intervento

 

 

Valutazione del rischio di frattura patologica (FP)
Tale valutazione deve essere effettuata dall’ortopedico o dal chirurgo vertebrale. Vi è differenza tra il rischio di frattura di una metastasi localizzata agli arti, rispetto al rischio di frattura di una osteolisi vertebrale.

Metastasi delle ossa lunghe
I parametri tradizionalmente proposti come indicatori di rischio di frattura degli arti sono una lesione di dimensioni > 25 mm, una lesione interessante più del 50% della circonferenza o del diametro dell’osso, l’aspetto osteolitico, il dolore ingravescente, in particolare se successivo anche al trattamento radioterapico.
Il sistema di valutazione del rischio di frattura più noto, per quanto riguarda lo scheletro appendicolare, è quello proposto da Mirels nel 1989 (5), con un sistema a punti che tiene conto della sede anatomica, del grado del dolore, dell’aspetto radiografico (litico, misto, addensante) e delle dimensioni della lesione rispetto al diametro del segmento osseo. Altri autori hanno proposto l’aggiunta di ulteriori parametri al sistema proposto da Mirels, in particolare suggerendo come criteri di rischio aggiuntivo la localizzazione al femore prossimalmente al piccolo trocantere e nella metà prossimale dell’omero, il fatto che il paziente non sia in trattamento con bisfosfonati, la presenza di osteoporosi primaria o secondaria.
Van Der Linden nel 2004 (6) ha presentato un interessante studio in cui in 102 pazienti è stata valutata la correlazione tra frattura e presenza della maggior parte tra i fattori di rischio: l’unico criterio che risultava statisticamente significativo era l’interessamento longitudinale della corticale > 30 mm.
Il femore è il segmento osseo più a rischio per frattura patologica per le notevoli sollecitazioni meccaniche in flessione e torsione. Le regioni più a rischio in tale segmento sono il collo, la regione sotto-trocanterica e sovra-condiloidea.

Metastasi vertebrali
Il rischio di frattura in una lesione metastatica vertebrale è stato definito da un gruppo di autori facenti parte del “Spine Oncology Study Group” e prende il nome di SINS (Spinal Instability Neoplastic Score) (7). È un sistema a punteggio che prende in considerazione vari fattori, dalla localizzazione della lesione, al dolore, al tipo di lesione ossea e al suo coinvolgimento all’interno della vertebra, alla presenza o meno di collasso vertebrale. Il punteggio totale è quindi individuato da 6 elementi e può variare da 0 a 18:

  • da 0 a 6: lesione stabile;
  • da 13 a 18: lesione instabile e quindi suscettibile di trattamento chirurgico;
  • da 7 a 12: gli autori raccomandano una consulenza del chirurgo vertebrale per rischio di FP.

 

Tabella 2
Punteggio per l’instabilità spinale neoplastica
(Spinal Instability Neoplastic Score – SINS)
Elementi Punteggio
Localizzazione
Giunzionale (occipite-C2, C7-T2, T11-L1, L5-S1) 3
Rachide mobile (C3-C6, L2-L4) 2
Rachide semi-rigido (T3-T10) 1
Rachide rigido (S2-S5) 0
Dolore che recede in posizione supina e/o dolore sotto carico/movimento
3
No (dolore occasionale, non meccanico) 1
Lesione asintomatica 0
Lesione ossea
Litica 2
Mista (litica/addensante) 1
Addensante 0
Allineamento radiografico del rachide
Presenza di sublussazione/traslazione 4
Presenza di cifosi/scoliosi di nuova insorgenza 2
Allineamento normale 0
Cuneizzazione vertebrale
Cuneizzazione > 50% 3
Cuneizzazione < 50% 2
Non cuneizzazione, con coinvolgimento del corpo > 50% 1
Nessuna delle precedenti 0
Coinvolgimento degli elementi vertebrali posteriori
Bilaterale 3
Unilaterale 1
Nessuna delle precedenti 0

 

 

Sensibilità dell’istotipo tumorale alle terapie non chirurgiche
Questa valutazione deve essere effettuata da oncologi e radioterapisti in rapporto all’istotipo tumorale della lesione metastatica da trattare.
È necessario avere una diagnosi istologica della lesione, soprattutto in presenza di lesione solitaria con anamnesi negativa per tumore. L’istotipo della lesione tumorale è fondamentale non solo per la determinazione della prognosi quoad vitam del paziente, ma anche per valutare l’eventuale sensibilità alle terapie non chirurgiche. Come risposta prevista alle terapie adiuvanti, deve essere considerata la potenzialità della lesione ossea di riparare e ossificare dopo trattamento locale (radioterapia) o sistemico (chemioterapia, terapia ormonale, radioiodio, immunoterapia, ecc).
La sensibilità dell’istotipo tumorale alle terapie adiuvanti non è solo importante per i pazienti che non possono essere operati, ma assume valore cruciale anche a livello chirurgico. In caso di lesione non sensibile ad alcuna terapia, bisognerà prendere in considerazione la terapia chirurgica escissionale. Al contrario, in caso di lesioni rispondenti alle terapie adiuvanti, la chirurgia ortopedica può essere di supporto per un eventuale rischio di FP ed è di tipo funzionale.

 

Prognosi del paziente: istotipo e numero di metastasi ossee e/o viscerali e loro trattabilità
Esistono controversie sul trattamento di una metastasi ossea isolata, soprattutto in assenza di FP. In molti casi si tende a trattare una metastasi isolata, come un tumore primitivo, in maniera curativa (8), con una resezione ampia, senza dare importanza ad altri fattori. La resezione tumorale in una malattia metastatica determina sicuramente un miglior controllo locale della malattia (9), ma non è assolutamente dimostrato che aumenti la sopravvivenza del paziente. In realtà, anche in questi casi è molto importante la sensibilità alle terapie adiuvanti.
Al momento attuale le lesioni metastatiche che si giovano di un trattamento aggressivo di resezione in blocco a margini ampi, sono le metastasi da carcinoma renale a cellule chiare, sia in termini di sanguinamento intra-operatorio, sia in termini di controllo locale. Attualmente, infatti, non esistono terapie non chirurgiche in grado di controllare adeguatamente tale istotipo tumorale. Per quanto riguarda le metastasi uniche da tiroide, alcuni autori sostengono che l’asportazione del tumore permette una maggior efficacia della terapia con radioiodio. L’asportazione con margini ampi garantisce un minor sanguinamento.
La presenza di metastasi viscerali, polmonari ed epatiche, soprattutto se non operabili, è tra i fattori prognostici “quoad vitam” più negativi (10,11).

 

Sede ossea nelle metastasi degli arti
Molta importanza assume anche la localizzazione della lesione all’interno del segmento scheletrico interessato. Le ossa lunghe si possono suddividere in una parte diafisaria e nelle estremità articolari meta-epifisarie. A livello biomeccanico e ricostruttivo esistono differenze fondamentali nel trattamento di lesioni metastatiche diafisarie o meta-epifisarie (3). È sempre utile eseguire, oltre alle radiografie standard nelle 2 proiezioni del segmento scheletrico interessato, anche RM e TC. La RM è attualmente la metodica migliore nel determinare l’estensione della lesione metastatica all’interno del segmento scheletrico interessato ed è anche molto utile nel determinare la presenza di eventuali “skip metastases”, mentre con la TC si riesce a studiare meglio la struttura ossea e la qualità del coinvolgimento a livello corticale o spongioso.

 

 

ALGORITMO di TRATTAMENTO

In base alla valutazione dei parametri suddetti, viene proposto un algoritmo di trattamento delle metastasi dello scheletro appendicolare (fig. 1), e uno per il trattamento delle metastasi vertebrali (fig. 2) (12-14).
L’algoritmo di trattamento proposto è centrato sul paziente, è multi-disciplinare perché coinvolge figure professionali diverse, è dinamico e in costante aggiornamento. Non è un sistema statico a punteggio, nel quale la somma di diversi parametri determina il tipo di trattamento da eseguire. I diversi istotipi tumorali vengono presi in considerazione solo in base alla loro sensibilità o resistenza alle terapie adiuvanti. La sensibilità alle terapie non chirurgiche, ad esempio, è un parametro molto importante che tende a cambiare nel corso degli anni in rapporto alla scoperta di nuovi farmaci e/o protocolli terapeutici. In questi casi il percorso all’interno della flow-chart tende a cambiare in rapporto all’evoluzione e al progresso scientifico.
È centrato sul paziente in quanto più che la malattia si prende in considerazione il malato, pianificando per lo stesso l’iter più idoneo. Esistono 4 output per questo algoritmo: la chirurgia escissionale, la chirurgia palliativa, la terapia del dolore e le terapie adiuvanti (chemio, radioterapia, terapia ormonale e immunoterapia).

 

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CONCLUSIONI

L’algoritmo di trattamento delle metastasi dello scheletro appendicolare rappresenta uno strumento per la valutazione del tipo di trattamento più idoneo nel paziente con metastasi ossee. Le caratteristiche principali sono:

  • è semplice da applicare e intuitivo;
  • è multi-disciplinare, in quanto non sono previste solo opzioni chirurgiche e sono coinvolte figure professionali diverse;
  • è individualizzato e centrato sul paziente e non sulla malattia metastatica e le sue caratteristiche;
  • è sempre attuale e aggiornato in rapporto alla scoperta di nuovi farmaci e protocolli terapeutici.

 

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Mattia Falchetto Osti, Linda Agolli
Cattedra di Radioterapia, Università “La Sapienza”, Roma, Facoltà di Medicina e Psicologia

 

PREMESSE E RAZIONALE

Le neoplasie della tiroide sono un gruppo eterogeneo di malattie per quanto riguarda l’incidenza, la storia naturale, la prognosi e la terapia: mentre solo una minoranza (5-7%) di pazienti con carcinoma tiroideo differenziato (DTC) presenta una malattia caratterizzata da uno stadio avanzato con estensione tale di malattia da richiedere l’intervento di un trattamento radioterapico aggiunto alla chirurgia e al trattamento medico, l’approccio multidisciplinare è richiesto in una quota maggiore di pazienti con carcinoma midollare (MTC) e di fatto nella quasi totalità dei pazienti con carcinoma anaplastico.
Le forme differenziate, come il carcinoma follicolare e quello papillare, hanno una buona prognosi, con sopravvivenza libera da malattia di circa il 90% a 20 anni. Il DTC e l’MTC hanno una crescita lenta, ma possono beneficiare di un trattamento locale in caso di malattia localmente avanzata o di recidiva regionale o presenza di sintomi locali quali disfonia, disfagia e dispnea dovuti alla diffusione di malattia nei tessuti adiacenti. Le forme indifferenziate (ITC) hanno un decorso sfavorevole, con scarsa risposta al trattamento e in casi selezionati possono essere avviati ad una terapia locale come la radioterapia, sia per una palliazione dei sintomi locali che per una non responsività ad altri tipi di trattamento. Pertanto, è necessario un approccio integrato multidisciplinare per migliorare la sopravvivenza e il controllo della malattia.

 

UTILIZZO DELLA RADIOTERAPIA

La radioterapia a fasci esterni (EBRT- external beam radiotherapy) è un'opzione nel trattamento dei carcinomi tiroidei localmente avanzati o delle recidive locoregionali, ma attualmente mancano studi prospettici randomizzati controllati che definiscano linee guida riguardanti il ruolo, la dose e la tempistica dell’EBRT nei carcinomi tiroidei. In letteratura esistono solo studi retrospettivi effettuati su casistiche eterogenee e su piccoli numeri di pazienti arruolati.

 

Carcinomi differenziati
Nelle forme differenziate le recidive locoregionali si verificano più frequentemente a livello dei linfonodi cervicali (90% dei casi) e le ricadute a distanza riguardano solo il 20% dei pazienti. Il trattamento radioterapico può essere adottato  in questi pazienti, soprattutto se le lesioni sono non iodio-captanti. Nei carcinomi differenziati è stato dimostrato che la radioterapia a fasci esterni è vantaggiosa in termini di sopravvivenza e controllo locale di malattia in pazienti con età > 45 anni, residuo post-operatorio macroscopico ed estensione massiva extra-tiroidea (T4) o linfonodi positivi (N+) [1].
In uno studio retrospettivo condotto su 729 pazienti con DTC è stato dimostrato che la radioterapia aumenta l’intervallo libero da malattia e la sopravvivenza cancro-correlata nei pazienti ad alto rischio di recidiva (massiva estensione extra-tiroidea, età > 45 anni) [2]. Altri studi retrospettivi eseguiti su un minore numero di pazienti confermano l’efficacia dell’EBRT solo nei pazienti ad alto rischio. Negli ultimi 40 anni, sono stati pubblicati diversi studi retrospettivi che riportano risultati contrastanti, probabilmente dovuti ai bias riguardanti la selezione di pazienti con caratteristiche disomogenee [3]. In alcuni studi retrospettivi viene riportato solo un beneficio sul controllo locale dopo EBRT adiuvante in pazienti con malattia avanzata (pT4/N+) o residuo macroscopico post-operatorio (R2) o recidiva loco regionale [4-7], in assenza di beneficio evidente sulla sopravvivenza globale [6]. I limiti di questi studi sono abbastanza evidenti: mancanza di gruppi di confronto o presenza di controlli con diverse caratteristiche cliniche, mancata esclusione di fattori di confondimento, assenza di outcome primari a causa della lunga storia naturale della malattia. I risultati migliori (nel controllo locale e nell'arresto della progressione a distanza dei pazienti a rischio trattati con RT) si hanno nei pazienti con istologia papillare classica [8].
Per garantire un controllo adeguato, deve essere erogata al target una dose totale ≥ 50 Gy con frazionamento convenzionale [9] in frazioni da 2 Gy/die sui linfonodi sovra-claveari, latero-cervicali e mediastinici superiori. Un sovradosaggio fino a 60-70 Gy può essere erogato alle zone a rischio (residuo macroscopico, linfonodi positivi, letto chirurgico).

 

Carcinoma midollare
Il trattamento principale del MTC è quello chirurgico e la radioterapia adiuvante viene impiegata in pazienti con malattia localmente avanzata, linfonodi positivi o con livelli di calcitonina elevati dopo l’intervento chirurgico. In letteratura sono disponibili pochi studi con casistiche che prendono in considerazione esclusivamente il MTC. È stato riportato solo un lieve miglioramento del controllo locale in pazienti selezionati sottoposti a EBRT adiuvante, come in quelli in stadio avanzato T4/N+ con estensione extra-capsulare e con margini chirurgici positivi R1/R2 [10-11].
Generalmente vengono somministrati 40 Gy in 20 frazioni da 2 Gy/die per 5 giorni a settimana ai linfonodi latero-cervicali, sovra-claveari e mediastinici superiori, con un sovradosaggio di 10 Gy a livello del letto chirurgico [12]. L’EBRT può essere presa in considerazione anche per masse inoperabili o recidive locoregionali, ma in assenza di metastasi a distanza.

 

Neoplasie indifferenziate
Questi tumori sono a rapida progressione locale, spesso inoperabili alla diagnosi, con presenza di sintomi locali importanti per la rapida crescita tumorale con infiltrazione dei tessuti circostanti. A conferma del carattere aggressivo locale, la causa  più frequente di morte è per soffocamento o asfissia secondaria ad ostruzione delle vie aree superiori. Quindi in questo gruppo di pazienti potrebbe essere utilizzato un trattamento locale come l’EBRT a fini palliativi [13-14]. Tali neoplasie necessitano di un approccio multidisciplinare per aumentare la sopravvivenza e le possibilità di cura. I tassi di risposta dopo EBRT come terapia neoadiuvante sono di circa 45% con dosi di 50-60 Gy, e quindi bisogna valutare il rapporto rischio/beneficio prima di decidere sul trattamento [15].
Nelle forma indifferenziate sono preferibili trattamenti ipofrazionati (50 Gy in 20 frazioni o 40 Gy in 15 frazioni), che aumentano il tempo mediano di sopravvivenza, oppure anche trattamenti RT iperfrazionati con dose totale di 60 Gy erogata in due frazioni giornaliere da 1.5 Gy ciascuna a distanza di 6 ore [13]. La radioterapia si utilizza con modalità palliative anche per le metastasi a distanza (ossee, encefaliche, polmonari).

 

TECNICA

Il trattamento viene pianificato utilizzando una tecnica tridimensionale conformazionale sulla base della TC di centraggio pre-trattamento. Per l’immobilizzazione del paziente durante le sedute di radioterapia viene utilizzata una maschera personalizzata, che permette di effettuare un trattamento ad alta precisione. Per verificare il posizionamento e garantire una terapia efficace vengono eseguiti periodicamente controlli attraverso immagini portali digitali.

 

EFFETTI COLLATERALI

Possibili effetti acuti possono essere: reazioni cutanee, mucositi, esofagiti, laringiti, xerostomia e disgeusia.
Possibili effetti tardivi possono essere: fibrosi cutanea, stenosi esofagea, carie dentali, xerostomia, linfedema sotto-mentoniero. Il trattamento radioterapico aumenta anche il rischio di secondi tumori, con un picco dopo 15-20 anni dal trattamento. Per questo motivo le indicazioni alla EBRT sono legate ad una categoria di pazienti con età > 45 anni.
Per ridurre i tassi di tossicità sono state utilizzate nuove tecniche come la IMRT, ma i risultati disponibili al momento non sono univoci.

 

CONCLUSIONI

Non esistono ad oggi studi basati sulle evidenze cliniche che dimostrino i benefici della radioterapia nel carcinoma della tiroide.
L’EBRT viene presa in considerazione:

  • in tutte le istologie con modalità post-operatoria nei pazienti a rischio (malattia avanzata T4/N+, residuo macroscopico, età > 45 anni);
  • nel caso di pazienti inoperabili dopo valutazione rischio/beneficio;
  • nel trattamento delle recidive locoregionali;
  • come palliazione dei sintomi locali o delle metastasi ossee.

 

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  15. Tennvall J, Lundell G, Wahlberg P, et al. Anaplastic thyroid carcinoma: three protocols combining doxorubicine, radiotherapy and surgery. Br J Cancer 2002, 86: 1848-53.
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Laura Rizza, Valerio Renzelli*, Francesca Rota, Paola Di Giacinto, Paolo Zuppi, Roberto Baldelli
UOSD di Endocrinologia, AO S. Camillo-Forlanini, Roma
*
UOC di Endocrinologia, Università Sapienza - AO S. Andrea, Roma

(aggiornato al 16 maggio 2019)

 

Introduzione
Nei paesi occidentali l’incidenza del carcinoma tiroideo negli ultimi 20 anni è notevolmente aumentata grazie al perfezionamento delle procedure diagnostiche che hanno permesso di evidenziare forme tumorali allo stadio iniziale. Infatti, i micro-carcinomi tiroidei differenziati rappresentano ormai circa il 40% dei casi e hanno una prognosi eccellente solo con l’utilizzo di un trattamento chirurgico standard. Esistono inoltre forme tumorali indifferenziate, quali il carcinoma anaplastico (ATC), che si manifesta con una frequenza < 5%, caratterizzato da una frequente metastatizzazione e con prognosi infausta entro i primi 3-6 mesi dalla diagnosi (1, 2). Dalle cellule parafollicolari, cellule C, della ghiandola deriva invece il carcinoma midollare della tiroide (MTC), che rappresenta circa il 5-8% di tutti i carcinomi tiroidei e ha una prognosi intermedia tra i due istotipi precedentemente elencati.
È importante sottolineare che in circa un terzo dei casi i tumori tendono a perdere la classica differenziazione, che corrisponde a una concomitante perdita della capacità di captare il radioiodio. In questi pazienti, come pure in quelli con MTC metastatico e ATC, non esistono a oggi cure efficaci standardizzate: la chemioterapia o la radioterapia esterna hanno infatti dimostrato scarsa efficacia, con una risposta < 25% dei casi trattati (3). Pertanto, i pazienti con malattia di grado avanzato rapidamente progressiva e non rispondenti a terapia con radioiodio sono stati sottoposti, fino a questo momento, a schemi di chemioterapia con risposte scarse, transitorie e parziali. A tale scopo sono state utilizzate associazioni di agenti citotossici, come doxorubicina, 5-fluorouracile, cisplatino e taxani, trattando tutti i tipi istologici di carcinoma tiroideo avanzato, sia esso differenziato, midollare o anaplastico. Tali farmaci hanno dimostrato scarsa efficacia e il loro utilizzo è stato pressoché abbandonato.
Grazie a diversi studi che hanno permesso la scoperta delle diverse tappe della carcinogenesi tiroidea, è oggi possibile un nuovo approccio terapeutico ai tumori con istotipo particolarmente aggressivo e/o con un grado avanzato di malattia non rispondente agli schemi terapeutici standard (4). In particolare, è stato dimostrato che:

  • l’insorgenza dei carcinomi papilliferi (PTC) è dovuta in circa l’80% dei casi a una singola mutazione attivante uno degli oncogeni, quali BRAF e RAS, oppure a riarrangiamenti del proto-oncogene RET (RET/PTC), che codificano tutti per alcune chinasi che attivano la via intra-cellulare delle MAPK (unità regolatrice della crescita cellulare)(4);
  • nel carcinoma follicolare della tiroide (FTC) si ritrovano mutazioni del gene RAS in circa il 20% dei casi, mentre nel 30% circa si riscontrano riarrangiamenti di PAX8/PPARγ (4);
  • per quanto riguarda il carcinoma midollare, si ritrovano mutazioni puntiformi attivanti di RET nel 95% circa delle forme ereditarie e in circa il 50% dei casi sporadici (4).

La conoscenza dei diversi meccanismi molecolari coinvolti nel processo di oncogenesi ha permesso lo sviluppo di nuove molecole che hanno come bersaglio tappe chiave nel processo di sviluppo di una neoplasia. Sono generalmente molecole strutturalmente piccole, che hanno la capacità di inibire la funzione enzimatica tirosin-chinasica (TK) o anticorpi in grado di bloccare l’attività biologica di molecole specifiche. Le tirosin-chinasi intervengono anche nel processo di neo-angiogenesi tumorale, che viene attivato in seguito all’interazione tra fattori di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF) e specifici recettori TK. Altri recettori TK e i rispettivi ligandi, tra cui il fattore di crescita epidermico EGF e il suo recettore EGF-R, possono rappresentare un bersaglio per farmaci inibitori della TK (TKI).
Negli ultimi anni sono partiti studi sperimentali con nuove molecole terapeutiche aventi come bersaglio diretto specifiche proteine codificate da proto-oncogeni attivati costitutivamente o da geni che intervengono come fattori di crescita cellulare e/o vascolare. Tali farmaci sono in grado di bloccare o rallentare lo stimolo cronico della crescita e diffusione tumorale e sono alla base della ormai definita target therapy. I limiti attuali di queste molecole utilizzate in monoterapia sono la stabilizzazione di malattia ottenuta tra il 30 e il 70% dei casi e la risposta oggettiva di riduzione della massa tumorale in misura ancora minore.
Come per altre patologie oncologiche, l’immunoterapia inizia a essere utilizzata anche nel campo dei tumori della tiroide.
Il trattamento con TKI nel carcinoma della tiroide è prerogativa di pazienti con una malattia localmente avanzata o metastatica, che non risponde a trattamenti convenzionali quali chirurgia e radioiodio (4-10).

 

Target therapy nei confronti di chinasi correlate ad oncogeni (5-10)
L’FDA ha recentemente approvato l’utilizzo di un inibitore di MEK (trametinib) in associazione a un inibitore di BRAF V600E-mutato, il vemurafenib, come terapia combinata per le forme di ATC portatrici della mutazione BRAF V600E, a seguito di uno studio di fase 2 e di uno studio “real-world”, che hanno dimostrato risposte modeste, ma incoraggianti, a questo tipo di terapia. Gli effetti collaterali degli inibitori di BRAF sono principalmente astenia, febbre, artralgia, anemia, diarrea e complicanze dermatologiche, incluso carcinomi della cute, quest’ultima prevenibile con l’ associazione con inibitore di MEK.
L’attivazione di HER2 (ErbB2) ed HER3 (ErbB3) si traduce in un’attivazione della via di segnale sia della MAPK che della PI3K, che rappresenta uno dei meccanismi di fuga delle cellule BRAF-mutanti resistenti a vemurafenib. Su questa base è in corso uno studio di fase I, nei pazienti affetti da DTC e ATC, sull’utilizzo combinato di lapatinib (bloccante HER 2/3) e dabrafenib (inibitore di BRAF); inoltre è in corso uno studio in cui pazienti affetti da tumori solidi con mutazioni di HER, incluso quello tiroideo, sono in trattamento con neratinib (inibitore di ERBB).
In alcuni carcinomi della tiroide sono stati anche identificati geni di fusione STRN-ALK (fino al 4% degli ATC e al 9% degli scarsamente differenziati) ed è stato riportato il caso di una paziente con ATC e iperespressione di ALK, con regressione del 90% di metastasi polmonari dopo trattamento con crizotinib (inibitore di ALK).
Nei carcinomi mediati principalmente da mutazioni sul gene RET, come PTC, MTC e ATC e negli scarsamente differenziati di derivazione papillare, sono stati condotti due studi con due inibitori selettivi di RET, BLU-667 e LOXO-292, con discreti risultati e buona tollerabilità dei farmaci. Tra gli effetti collaterali astenia e stipsi per entrambi, ipertensione e ipertransaminasemia per il primo, nausea, xerostomia e dispnea nel secondo.

 

Target therapy a valle della cascata di escape tumorale (5-10)
Nei carcinomi della tiroide iodio-refrattari sono in corso di valutazione gli inibitori di mTOR (temsirolimus ed everolimus), sia da soli che in associazione con altri farmaci (sorafenib); inoltre, nell’ATC è in studio un inibitore di mTOR di seconda generazione, MLN0128, i cui effetti collaterali più frequenti sono stati mucositi, anoressia, iperglicemia, alterazioni delle transaminasi, pancitopenia.

 

Target therapy nei confronti del segnale correlato alle chinasi (5-10)
Sono attualmente approvati quattro inibitori di chinasi multiple per i carcinomi avanzati tiroidei, a seguito di studi di validazione che hanno mostrato un vantaggio nella sopravvivenza libera da progressione statisticamente significativo rispetto al placebo: sorafenib e lenvatinib per i carcinomi differenziati e scarsamente differenziati della tiroide (rispettivamente con gli studi DECISION e SELECT), vandetanib e cabozantinib per MTC metastatico o recidivante (studi ZETA ed EXAM). Altre molecole, non attualmente approvate nel trattamento dei carcinomi tiroidei, sono axitinib, sunitinib, pazopanib, motesanib, imatinib e gefitinib. La maggior parte di questi agenti ha in comune la proprietà di inibire i recettori del VEGF a concentrazioni nanomolari, avendo come principale bersaglio l’angio-genesi tumorale e, viste le analogie strutturali tra le chinasi del RET e del VEGF-R, queste molecole hanno un duplice bersaglio d’azione. Anche in questo caso gli effetti collaterali più frequenti sono eruzioni cutanee, diarrea, astenia, ipertensione arteriosa e prolungamento del QT. Questi farmaci prevedono una somministrazione per via orale ed è ormai abbastanza evidente la loro capacità di ridurre/stabilizzare le lesioni metastatiche in una percentuale significativa di casi.

 

Immunoterapia nei carcinomi della tiroide (6,7,9)
I recenti risultati in immunoterapia in oncologia, in particolare nel campo del melanoma, con l’utilizzo di ipilimumab (antagonista di CTLA-4), nivolumab, pembrolizumab e spartalizumab (antagonisti di PD-1) ed atezolizumab (antagonista di PD-L1), hanno spinto la valutazione di questo approccio anche nei tumori avanzati della tiroide, considerate le evidenze pre-cliniche della produzione di citochine e chemochine da parte del carcinoma tiroideo; inoltre PD-L1 è espresso nei DTC e ATC. Sono attualmente in corso alcuni studi su tumori solidi con inclusa una coorte di carcinomi tiroidei; tuttavia, sono ancora pochi i dati su questo tipo di terapia. Sono anche in corso studi di immunoterapia in combinazione sia con altri farmaci immunoterapici (nivolumab ed ipilimumab) che di atezolizumab con altre target therapy.

 

Re-differenziazione dei carcinomi tiroidei iodio-refrattari (6,8)
L’utilizzo di inibitori di MEK o BRAF, isolatamente, nei carcinomi iodio-refrattari, associati in più del 40% dei PTC alla mutazione BRAF V600E e a una ridotta espressione di NIS (symporter sodio-iodio), ha portato in alcuni casi al ripristino della captazione di iodio. Si aprirebbe quindi la possibilità di poter trattare nuovamente con 131I i carcinomi refrattari.

 

Conclusioni (1-10)
È importante sottolineare che tutti i protocolli sperimentali hanno valutato la risposta del farmaco tramite le modificazioni dimensionali delle lesioni metastatiche (quelle considerate come target), valutate secondo i classici criteri RECIST (Response Evaluation Criteria in Solid Tumors), in base ai quali una risposta parziale è definita come una riduzione > 30% delle lesioni target, una progressione di malattia corrisponde a un aumento del 20% e la stabilità è uno stato intermedio tra le due condizioni. La migliore compliance al trattamento è legata sicuramente alla somministrazione orale. Complessivamente i farmaci sono abbastanza ben tollerati e l’adesione dei pazienti agli schemi terapeutici è eccellente, anche se la presenza di effetti collaterali può a volte richiedere la riduzione della dose giornaliera del farmaco. Inoltre, la validazione degli inibitori di chinasi multiple ha permesso di espandere l’utilizzo a un numero sempre maggiore di pazienti, con risultati soddisfacenti. Sebbene la maggior parte dei pazienti abbia presentato almeno uno tra gli effetti avversi “comuni”, questi risultano di solito di grado lieve-moderato e comunque non richiedono un’interruzione definitiva della terapia.
Dato importante è che lo studio genetico di questi pazienti permette una maggiore selezione dei possibili candidati a un trattamento specifico e diretto; ne sono un esempio i già citati basket trial, in cui i pazienti sono inclusi nello studio non in base al tipo di tumore solido, ma al gene ed al tipo di mutazione riscontrato nello stesso.

 

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Annibale Versari e Angelina Filice
Struttura Complessa di Medicina Nucleare, Arcispedale Santa Maria Nuova, Reggio Emilia

(aggiornato al 10 ottobre 2017)

 

 

ASPETTI GENERALI
In pazienti con neoplasia tiroidea, metastatica e in progressione, la terapia radiorecettoriale (Peptide Receptor Radionuclide Therapy, PRRT) rappresenta una valida alternativa dopo il fallimento dei trattamenti convenzionali.
Pre-requisito fondamentale per la PRRT è sempre la dimostrazione di una chiara positività delle lesioni neoplastiche all'imaging medico-nucleare basato sugli analoghi della somatostatina. Le indagini disponibili in quest’ambito sono la scintigrafia con 111In-pentetreotide (Octreoscan) e la PET/TC con 68Ga-DOTATOC/DOTANOC/DOTATATE. Deve essere sottolineato che, anche se l’avvento di macchine ibride SPECT/TC ha migliorato l’accuratezza della scintigrafia con 111In-pentetreotide, la PET/TC con analoghi della somatostatina radio-marcati con 68Ga ha una maggiore sensibilità e capacità di risoluzione spaziale rispetto alla scintigrafia (figura 1).

 

Figura 1. Metastasi scheletriche multiple rilevate da PET-TC con 68Ga-DOTATOC in una paziente 61enne con carcinoma tiroideo follicolare in progressione, non iodocaptante

 

La PRRT viene attualmente eseguita esclusivamente presso centri specializzati nell’ambito di protocolli di ricerca e l'indicazione al trattamento deve essere condivisa nel corso di una valutazione collegiale multi-specialistica e deve sempre prevedere un’attenta e bilanciata valutazione delle altre eventuali opzioni terapeutiche disponibili per il paziente.
La PRRT ha il vantaggio di poter usare lo stesso ligando impiegato per la diagnostica (DOTA-peptide), sostituendo l’isotopo 68Ga con 90Y o 177Lu e questo rappresenta un ottimo esempio di medicina personalizzata e di teranostica.
I radiofarmaci impiegati in PRRT sono attualmente 90Y-DOTATOC e 177Lu-DOTATOC/DOTATATE. Si tratta di radiofarmaci dotati di diverse proprietà fisiche, che si traducono in una diversa capacità di penetrazione nei tessuti (tabella).

 

Proprietà fisiche dei radiofarmaci impiegati nella terapia radiorecettoriale
 
β (Mev)
γ (Kev)
T½ (giorni)
Penetrazione nei tessuti (mm)
177Lu
0.49 110-210 6.7 0.5-2
90Y
2.27   2.7 3-11

 

Pertanto:

  • in caso di lesioni di maggiori dimensioni (es. > 2 cm) trova indicazione preferenziale l'impiego di radiofarmaci marcati con 90Y (al tempo stesso più aggressivi dal punto di vista protezionistico);
  • in caso di lesioni di minori dimensioni (es. < 2 cm) è più appropriato il ricorso a preparati marcati con 177Lu.

Il trattamento completo si compone in genere di 4-6 cicli, distanziati di 2 mesi circa l’uno dall’altro e intervallati da periodiche rivalutazioni degli esami ematochimici e della funzionalità renale. La valutazione della risposta al trattamento, infine, viene fatta mediante esami morfologici e funzionali (TC e/o RM e PET/TC con 68Ga-DOTA-peptide).

 

CARCINOMA DIFFERENZIATO DELLA TIROIDE
Il tumore differenziato della tiroide (differentiated thyroid carcinoma, DTC) è la neoplasia maligna più frequente dell’apparato endocrino e, nella maggior parte dei casi ha un’ottima prognosi, con un tasso di sopravvivenza a 10 anni > 85% (1,2). Tuttavia, in circa il 20% dei pazienti si verificano recidive tumorali, a volte anche decenni dopo la terapia iniziale.
La medicina nucleare gioca da sempre un ruolo importante nell’ambito di tale neoplasia, sia nella diagnostica che nel trattamento. Lo iodio radioattivo viene utilizzato, infatti, per la diagnosi (123I, 131I) e per il trattamento (131I) del DTC. La prognosi dei pazienti con DTC è di solito favorevole quando la malattia metastatica è avida di 131I, che viene considerato il gold standard nel trattamento della malattia metastatica. Tuttavia, il 20-30% dei tumori recidivanti non capta il radioiodio (3,4) e pazienti affetti da DTC con malattia avanzata possono presentare forme più aggressive, che non rispondono o diventano refrattarie alla terapia, spesso in relazione alla perdita parziale o completa della capacità di concentrazione dello 131I, dovuta a processi di de-differenziazione della neoplasia. La perdita della capacità iodocaptante si associa, quindi, a una prognosi peggiore (5): solo il 50% dei pazienti con carcinoma tiroideo de-differenziato, infatti, è in grado di conseguire una guarigione dalla malattia con i trattamenti tradizionali (6). In questi casi, inoltre, l'utilità diagnostica della scintigrafia corporea post-dose (whole body scan, WBS) con 131I, per rilevare la presenza di residuo e/o recidiva di neoplasia, è decisamente ridotta. Pertanto, nei pazienti con 131I-WBS negativo e livelli sierici di tireoglobulina (Tg) persistentemente elevati, il percorso diagnostico prevede l'impiego della PET/TC con 18F-FDG (7).
Oltre a rendere necessario l'impiego di tecniche di imaging alternative alla 131I-WBS, l'incapacità del tessuto tumorale di concentrare lo 131I pone, quindi, il problema di ricercare approcci terapeutici alternativi. A tale proposito sono stati effettuati tentativi di re-induzione del trasporto, organificazione e ritenzione di 131I da parte delle cellule tiroidee neoplastiche (8), con risultati a tutt'oggi nel complesso deludenti (9). L'impiego terapeutico di agenti biologici (inibitori della tirosin-chinasi ad esempio), è attualmente oggetto di valutazione clinica, con risultati incoraggianti (10). Di recente, inoltre, è stata autorizzata la commercializzazione del lenvatinib, potente inibitore angiogenetico, per il trattamento del carcinoma tiroideo in stadio avanzato refrattario allo iodio radioattivo. Gli studi eseguiti hanno dimostrato un miglioramento significativo della risposta complessiva nei pazienti trattati con lenvatinib rispetto al placebo (11).
Quando un paziente con DTC è classificato come refrattario allo 131I, non vi è alcuna indicazione per un ulteriore trattamento con radioiodio e le opzioni terapeutiche sono limitate. La positiva esperienza della PRRT nei tumori neuroendocrini gastro-entero-pancreatici ha portato a valutarne la possibilità di impiego clinico anche nei tumori tiroidei de-differenziati, metastatici, in progressione. Diversi studi in passato hanno dimostrato il coinvolgimento dei recettori per la somatostatina (SSTR) nella regolazione della proliferazione delle cellule tiroidee normali e tumorali. Vi è una tendenza per i carcinomi meno differenziati a esprimere una più ampia varietà di sottotipi dei SSTR e le linee cellulari del tumore tiroideo hanno dimostrato di esprimere SSTR (12,13). È già noto, inoltre, da studi risalenti a circa vent’anni fa che è possibile la visualizzazione di localizzazioni di DTC non 131I-avido mediante scintigrafia con analoghi della somatostatina radiomarcati (14,15) e questo può offrire una nuova prospettiva di trattamento con PRRT per questi pazienti (15-19).

 

Esperienze cliniche
Già nei primi anni 2000 sono state riportate in letteratura varie esperienze preliminari su singoli casi o casistiche comunque molto limitate: in totale, dal 2001 al 2004 sono stati riportati 58 casi (15,19,20-25), con risultati difficilmente confrontabili per l’impiego di radiofarmaci e criteri di valutazione diversi. In tali esperienze, veniva riportata una risposta clinica parziale o di stabilizzazione in circa il 46% dei casi.
Già nel 2005 Teunissen riporta risultati importanti sul trattamento con 177Lu-DOTATATE in 5 pazienti, ottenendo 2 risposte parziali, 2 stabilizzazioni e 1 progressione (26). Più recentemente Iten et al hanno descritto un'altra esperienza con 90Y-DOTA-TOC in PPRT, fornendo risultati incoraggianti sulla sopravvivenza mediana, risultata più lunga nei pazienti responder rispetto ai non-responder (27).
Sulla base di tali dati della letteratura, sono stati suggeriti diversi analoghi della somatostatina radiomarcati per scopi terapeutici e diagnostici nella gestione dei pazienti con DTC non 131I avido. È stata infatti studiata in alcune casistiche l'efficacia terapeutica di 111In-octreotide, 90Y-DOTATOC, 90Y-DOTA-lanreotide e 177Lu-DOTATATE (28,29) ed è stata suggerita la PET/TC con 68Ga-DOTA-peptidi come modalità alternativa di imaging (30,31). In un'analisi retrospettiva, Czepczyński et al (32) hanno valutato la sicurezza e l'efficacia della PRRT in 11 pazienti con DTC non 131I avido e con una storia di cicli multipli di terapia radiometabolica con 131I, aumento della Tg e WBS post-dose negativa. Nove pazienti presentavano metastasi polmonari, 3 metastasi scheletriche, 4 recidiva locale o linfonodale. 5/11 pazienti sono deceduti prima di completare il trattamento, mentre nei restanti 6 la risposta morfologica, valutata 3 mesi dopo l'ultimo ciclo utilizzando i criteri RECIST, ha mostrato 1 risposta parziale (PR), 2 stabilizzazioni (SD) e 3 progressioni (PD). La risposta biochimica, basata sulle misure di Tg prima e dopo la PRRT, ha mostrato 1 PR, 4 SD e 1 PD. La sopravvivenza media è stata di 21 mesi dal primo ciclo di PRRT. In alcuni pazienti è stata osservata solo tossicità ematologica lieve e transitoria. Gli autori hanno concluso che la PRRT è generalmente ben tollerata e può essere un'opzione preziosa per alcuni pazienti con DTC non 131I avido (32).
In una serie di 41 pazienti con DTC in progressione, non 131I-avido, abbiamo eseguito PET/TC con 68Ga-DOTATOC, al fine di selezionare quelli con buona espressione recettoriale, candidabili a PRRT (33). In tutti è stata eseguita una valutazione dosimetrica, mediante scintigrafia con 111In-DOTATOC. In tutti i pazienti trattati sono state eseguite anche le scansioni PET/TC con 68Ga-DOTATOC per valutare la risposta al trattamento (figura 2). I parametri forniti dalla PET/TC con 68Ga-DOTATOC sono stati analizzati come potenziali predittori terapeutici, per differenziare i pazienti responsivi dai non responsivi. La PET/TC con 68Ga-DOTATOC è risultata positiva in 24/41 pazienti. Sulla base dell'elevata espressione dei SSTR rilevata alla PET/CT con 68Ga-DOTATOC, 11 pazienti sono stati candidati a PRRT con 90Y-DOTATOC. In 7/11 pazienti è stato ottenuto controllo di malattia (2 PR, 5 SD), con una durata di risposta di 3.5-11.5 mesi. Il volume funzionale (FV) nel tempo ottenuto da 68Ga-DOTATOC PET/CT è stato l'unico parametro che ha dimostrato una differenza significativa tra le lesioni che rispondono e non rispondono alla PRRT (p = 0.001). Gli eventi avversi principali sono stati nausea, astenia e tossicità ematologica transitoria; un paziente ha avuto una tossicità renale permanente. In questo studio l'imaging con traccianti radiorecettoriali ha fornito risultati positivi in più della metà dei casi e circa un terzo dei pazienti era risultato candidabile alla PRRT. La PET/TC con 68Ga-DOTATOC è risultata essere uno strumento affidabile, sia per la selezione del paziente che per la valutazione della risposta al trattamento. La determinazione del FV nel tempo sembra rappresentare un parametro affidabile per determinare la risposta del tumore al PRRT (33).

 

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Figura 2. PET-TC con 68Ga-DOTATOC prima e dopo 4 cicli di trattamento con 90Y-DOTATOC (dose cumulativa 268 mCi) in un paziente 74enne con carcinoma a cellule di Hürtle diffusamente metastatico. Il trattamento ha determinato una marcata riduzione dell'attività del tessuto metastatico, associata sul piano clinico a un transitorio miglioramento delle condizioni generali.

 

 

CARCINOMA MIDOLLARE DELLA TIROIDE
Il carcinoma midollare tiroide (Medullary Thyroid Carcinoma, MTC) è un tumore non epiteliale, abbastanza raro, che produce calcitonina (CT) e origina dalle cellule C o para-follicolari, che deriverebbero embriologicamente dalla cresta neurale. Nel 20-30% dei casi è familiare ereditario o associato a neoplasie endocrine multiple (MEN-2). Ha una sopravvivenza a 10 anni che varia dal 50% all'80%, con prognosi peggiore rispetto al DTC. Si comporta solitamente in modo relativamente indolente, ma circa il 20% dei pazienti ha un decorso più aggressivo e le opzioni diagnostiche e terapeutiche disponibili in questi casi sono limitate.
Alcuni autori hanno dimostrato che il MTC metastatico può esprimere i recettori per la somatostatina all’imaging PET-TC con 68Ga-DOTA-peptidi. La PRRT nei MTC può quindi essere un'opportunità dopo il fallimento del trattamento standard, ma l'esperienza in quest’ambito è ancora molto limitata.
Iten et al (34), in un'analisi retrospettiva su 21 pazienti trattati con 90Y-DOTATOC a dosi di 7.5-19.2 GBq in 2-8 cicli, hanno ottenuto 2 risposte complete (CR), 12 SD e 7 PD. Avevano risposta migliore i pazienti con lesioni di piccole dimensioni e maggiore intensità di captazione del radiofarmaco. Gli stessi autori, in uno studio di fase II, hanno valutato la PRRT con 90Y-DOTATOC in 31 pazienti con MTC. Solo il 30% dei pazienti è stato classificato come responsivo, basandosi sulla riduzione dei livelli di CT, mostrando anche un miglioramento in termini di progressione libera da malattia (PFS) rispetto ai non-responder (74 mesi vs 11 mesi).
Salavati et al (35) hanno valutato la risposta, la sopravvivenza e la sicurezza a lungo termine del trattamento con 90Y-DOTATOC in uno studio clinico di fase II in pazienti con MTC avanzato, aumentati livelli sierici di CT e positività alla scintigrafia con 111In-Octreoscan. Su 31 pazienti, 18 (58.1%) hanno avuto un prolungamento post-terapeutico del tempo di raddoppio della CT sierica di almeno il 100%. Solo in 9/31 (29%) si è avuta una riduzione dei livelli di CT, che li ha fatti definire come responder. Questi pazienti avevano una sopravvivenza mediana significativamente più lunga dal momento del trattamento rispetto ai non-responder (74.5 mesi - range 15.7-107 – vs 10.8 mesi - range 1.4-85 mesi; p = 0.02). Il 13% dei pazienti ha sviluppato tossicità ematologica e il 23% tossicità renale. L’intensità di captazione alla scintigrafia con 111In-Octreoscan non è stata associata alla risposta o al miglioramento della sopravvivenza.
Budiawan et al (36) hanno riportato la loro esperienza in 16 pazienti di una casistica mista: MTC (n = 8), carcinoma follicolare (n = 4), carcinoma a cellule di Hürthle (n = 3) e carcinoma misto (n = 1). I pazienti sono stati sottoposti a PRRT utilizzando analoghi della somatostatina marcati con 90Yttrio e/o 177Lutezio. La PET/TC con 68Ga-DOTA-peptide è stata utilizzata sia in fase iniziale per valutare l’espressione recettoriale della malattia, sia per valutare la risposta al trattamento. Sono state osservate solo tossicità lievi e reversibili, ematologica (grado 1) e/o nefrologica (grado 1). La valutazione della risposta (utilizzando i criteri EORTC) è stata possibile solo su 11 pazienti trattati con 2 o più cicli di PRRT (massimo 5): stabilizzazione in 4 (36.4%), remissione parziale in 2 (18.2%), progressione nei restanti 5 (45.5%). L'analisi di Kaplan-Meier ha evidenziato una sopravvivenza media dopo il primo ciclo di PRRT di 4.2 anni (IC95% 2.9-5.5) e una PFS mediana di 25 mesi.

 

CONCLUSIONI
Gli analoghi della somatostatina radiomarcati rappresentano un’interessante prospettiva diagnostica e terapeutica per i pazienti con DTC che presentano metastasi non 131I-avide ed evidenza di progressione di malattia. Circa il 50% di questi pazienti presenta, infatti, una positività all’imaging medico-nucleare con analoghi della somatostatina, premessa essenziale per la selezione dei pazienti che possono avvalersi del trattamento con PRRT. I dati della letteratura, in linea con la nostra esperienza, documentano una risposta al trattamento in circa il 50-60% dei casi. Anche nel MTC avanzato le opzioni terapeutiche sono limitate e associate spesso a tossicità significativa. La PRRT con analoghi della somatostatina marcati con 177Lu o 90Y può avere un ruolo significativo nella gestione di questi pazienti.
Sono comunque necessari ulteriori studi per meglio chiarire benefici e limiti di tale opzione terapeutica e valutare il ruolo del PRRT nelle neoplasie della tiroide. In particolare, sarà indispensabile definire le indicazioni della PRRT nel contesto della più ampia strategia multimodale di trattamento, che deve prevedere l'associazione combinata o sequenziale di trattamenti farmacologici, radiometabolici e/o radioterapici, chirurgici ed eco-interventistici.

 

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Michele Zini
Endocrinologia, Arcispedale S. Maria Nuova, Reggio Emilia

 

Le tiroiditi sono malattie caratterizzate da flogosi del tessuto tiroideo. Possono essere classificate in base all'eziologia (es. infettive, autoimmuni, da farmaci), alla sintomatologia (es. con o senza dolore), o in base alla espressione funzionale (eu-, ipo- o ipertiroidismo). Una delle classificazioni più diffuse è però quella basata sull’andamento clinico e sulla durata della malattia, distinguendosi in questo modo forme acute, subacute e croniche.

 

Classificazione delle tiroiditi
Acute infezioni batteriche
infezioni fungine
forme da radiazioni (compreso radioiodio)
Subacute virale (o granulomatosa, o di De Quervain)
linfocitica o “silente” o “senza dolore” (painless) sporadica
post-partum
Croniche autoimmune di Hashimoto
atrofica
fibrosa di Riedel
da parassiti

 

Vengono ricomprese nelle tiroiditi le forme di disfunzione tiroidea che si verificano durante alcune terapie farmacologiche:

  • amiodarone
  • litio
  • interferone
  • interleuchina-2, aldesleuchina
  • inibitori del recettore della tirosin-kinasi

 

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Michele Zini
Endocrinologia, Arcispedale S. Maria Nuova, Reggio Emilia

 

La tiroidite subacuta viene denominata anche tiroidite di De Quervain (Fritz de Quervain fu un chirurgo svizzero che, partendo da precedenti osservazioni sue e di altri, descrisse in modo compiuto questa patologia nel 1936), tiroidite granulomatosa, o tiroidite virale.
Più frequente nel sesso femminile, sembra esserci un picco di incidenza fra la terza e la quinta decade.

 

Eziologia
I virus più frequentemente responsabili sono: il virus dell'influenza, gli adenovirus, i coxsackie ed il virus della parotite.  Tuttavia, la identificazione dell’agente patogeno nel singolo individuo non ricopre particolare rilevanza, perché il trattamento non ne viene influenzato.

 

Patologia
Il tessuto tiroideo mostra un infiltrato flogistico con rottura dei follicoli tiroidei. Sono presenti cellule giganti plurinucleate e si rilevano granulomi. Il reperto patologico, che quasi mai comunque viene valutato per la rarità della esecuzione di esami citologici ed istologici, rientra nella norma dopo parecchi mesi dall’esordio.

 

Quadro clinico
L’esordio è spesso preceduto da un prodromo simil-influenzale, a volte scambiato od associato ad una flogosi delle alte vie aeree. La palpazione in regione tiroidea evoca viva dolorabilità, pur in assenza di segni cutanei di flogosi. Il dolore, che può essere spontaneo, è di solito lateralizzato, in quanto la tiroidite subacuta colpisce focalmente alcune aree di tessuto, per poi migrare con interessamento in tempi successivi di diverse zone di parenchima, spostandosi nell’ambito dello stesso lobo e al lobo controlaterale. Il dolore può essere irradiato lungo il collo verso l’alto, fino alla mandibola e alle orecchie.
Ci può essere aumento dimensionale della tiroide, con ghiandola che alla palpazione si presenta di consistenza soffice-parenchimatosa. Se la tireotossicosi è significativa, si rilevano i relativi segni clinici. E’ spesso presente febbre.
Il decorso dura alcuni mesi, è caratterizzato da possibili fasi di riacutizzazione, e sono possibili forme a decorso protratto. Rara è la recidiva a distanza di tempo.

 

Laboratorio
Invariabilmente elevati, anche marcatamente, sono gli indici aspecifici di flogosi, come VES e PCR. Questi possono essere utilizzati per seguire l’andamento della patologia e la risposta alla terapia.
Gli indici di funzione tiroidea consentono a volte di suddividere il decorso funzionale della tiroidite subacuta in 3 fasi: fase tireotossica, fase ipotiroidea, fase di recupero. Non sempre però le tre fasi vengono tutte espresse. Gli anticorpi anti-perossidasi tiroidea sono di solito negativi.

 

Altre indagini
L’esame ecografico della tiroide può rilevare la presenza di aree sfumatamente ipoecogene, a carattere non nodulare, nella parte di parenchima interessata dal processo tiroiditico.  A volte è possibile seguire l’andamento migratorio della malattia seguendo l’andamento delle zolle ipoecogene focali.
La iodocaptazione è ridotta o assente, anche se il ricorso a tale esame è raramente necessario.

 

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L’esame citologico è indicato solo in caso di concomitante patologia nodulare. Talora la flogosi determina aree pseudonodulari a carattere focale; nelle forme con minor interessamento sistemico i caratteri ecografici e clinici possono essere dubbi e richiedere un accertamento citologico. La diagnosi citologica è in genere piuttosto agevole per la tipicità del quadro.

 

Diagnosi
La diagnosi della tiroidite subacuta è primariamente clinica, e viene confermata dal laboratorio.
La diagnosi differenziale va posta con la flogosi delle alte vie aeree, dato che questa può richiedere l’uso di antibiotici, non necessari nella tiroidite subacuta. A volte una tiroidite cronica può avere esordio brusco, che può essere scambiato per una tiroidite subacuta.

 

Decorso
La rottura dei follicoli presente all’esordio clinico provoca la dismissione in circolo di tireoglobulina e di ormoni tiroidei preformati, con possibilità di tireotossicosi, di solito di entità lieve-moderata. Durante questa fase distruttiva, la iodocaptazione è bassa o assente. Nell’arco di un tempo variabile da 4 a 8 settimane la flogosi si riduce, e contestualmente la situazione funzionale tende a normalizzarsi. Non è infrequente la comparsa di un ipotiroidismo subclinico di solito transitorio, ma che può essere permanente. Terminata la fase di ressi follicolare, la iodocaptazione ricompare.

 

Terapia
Se l'intensità della tiroidite è lieve, può essere sufficiente il ricorso agli anti-infiammatori non steroidei. Se questi non controllano a sufficienza il quadro clinico e il paziente ha sintomatologia locale o sistemica importante, si ricorre ai cortisonici. Si inizia con 25-50 mg/die di prednisone (a seconda dell'intensità del quadro clinico), per ridurlo progressivamente ogni 2-4 settimane in base ai sintomi e ai dati di laboratorio (principalmente PCR, VES e TSH reflex). Se dopo avere ridotto la posologia del cortisonico la sintomatologia si riacutizza, si torna alla dose precedente, e si procede più cautamente.
In caso di tireotossicosi, in attesa dell’effetto terapeutico del cortisonico, si può ricorrere ai beta-bloccanti. Il ricorso agli anti-tiroidei non è indicato, così come l’uso di antibiotici. Nella maggior parte dei casi, la terapia cortisonica può essere interrotta, dopo la progressiva riduzione posologica, in 3-4 mesi, anche se sono possibili forme a decorso protratto.

 

Prognosi
La prognosi di solito è buona poichè nella maggior parte dei casi si ha la restitutio ad integrum della ghiandola. Può essere utile un controllo ematochimico ogni  2-6 settimane a seconda dell'andamento clinico, al fine di valutare la persistenza dell'ipertiroidismo, della flogosi e  dell'eventuale insorgenza di ipotiroidismo.
Qualora venga evidenziato un ipotiroidismo lieve non è necessaria terapia sostitutiva, perchè molto spesso si tratta di una fase transitoria.

 

Bibliografia 
Non riesco ad assegnare ogni voce bibliografica ad una specifica parte di testo 

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Michele Zini1 & Antonella Franchi2
1Endocrinologia, Arcispedale S. Maria Nuova, Reggio Emilia

2UO Endocrinologia, Atri (TE)

 

Definizione ed epidemiologia
Per tiroidite acuta si intende un processo infiammatorio acuto della tiroide dovuto ad un’infezione suppurativa. E’ una patologia rara, con un incidenza dello 0.1–0.7% di tutte le malattie tiroidee. La rarità di questo quadro clinico è correlata a fattori trofici e a caratteristiche anatomiche della ghiandola tiroidea, quali la sua capsula protettiva, la ricca vascolarizzazione, l’elevato contenuto di Iodio ed un efficiente sistema di drenaggio, che limitano la diffusione del processo infettivo. Spesso l’evoluzione di questa patologia è verso la suppurazione. Tende a colpire più frequentemente bambini o adulti debilitati o immunodepressi.

 

Eziopatogenesi
Colpisce più frequentemente soggetti giovani o addirittura molto giovani in cui, per la presenza di tiroiditi recidivanti, va sospettata la presenza di un residuo del dotto tireoglosso o la presenza di una fistola tra il seno piriforme (sinistro nel 90% dei casi) e la regione del polo superiore del lobo tiroideo (fig. 1).

 

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Questa anomalia congenita della quarta tasca branchiale sembra, infatti, svolgere un ruolo importante nella patogenesi della tiroidite acuta in età pediatrica, più raramente in età adulta. Negli adulti, la tiroidite acuta è più frequentemente associata ad uno stato di immuno-compromissione, anche se può manifestarsi in soggetti apparentemente sani.
Il processo infettivo si propaga piu’ frequentemente per contiguità (faringiti, tonsilliti, parotiti, mastoiditi), per via ematogena (erisipela, infezioni pleuro-polmonari, genito-urinarie e gastrointestinali) o, raramente, tramite ferite del collo; fattori di rischio possono essere un gozzo di vecchia data o la degenerazione da un cancro tiroideo. Particolare rilevanza ricoprono le possibili porte di ingresso di batteri in regione tiroidea: in particolare agoaspirati, biopsie, e manovre ecointerventistiche.
Gli agenti infettivi più frequentemente coinvolti sono: Staphylococcus Aureus, Streptococcus Pyogenes, Streptococcus Epidermis, Streptococcus Pneumoniae e più raramente Streptococcus Viridans, Klebsiella spp., Pseudomonas Aeruginosa, Haemophilus Influenzae, Eikenella Corrodens, Salmonella spp., Enterobacteriaceae, batteri anaerobi (più frequenti nelle tiroiditi acute secondarie a fistola del seno piriforme), funghi, tra cui vanno menzionati Aspergillus, Candida, Coccidioides, Histoplasma e Pneumocystis (frequente in pazienti con AIDS o comunque immunocompromessi).

 

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Quadro clinico
La tiroidite acuta esordisce con l’improvvisa comparsa di una tumefazione della ghiandola tiroidea, spesso monolaterale, con febbre alta e dolore a livello tiroideo, irradiato alla regione cervicale, alla mandibola ed alla regione auricolare. Possono associarsi disfagia e disfonia, linfoadenopatia latero-cervicale e sovra-claveare ipsilaterale. La cute sovrastante la tumefazione appare calda ed arrossata. Frequentemente la flogosi si estende verso la regione sovra-claveare, con possibile compressione dei muscoli del collo e limitazione dell’estensione cervicale.

 

Diagnosi
Clinicamente va posta diagnosi differenziale con tiroidite subacuta, linfoadenite latero-cervicale, flemmone cervicale extra-tiroideo, emorragia in una cisti tiroidea, carcinoma tiroideo (compreso il linfoma), angina di Ludwig, pericondrite della cartilagine tiroidea; tuttavia, l’esordio improvviso e le caratteristiche cliniche della tiroidite acuta raramente danno luogo a dubbi diagnostici. Al fine di un adeguato inquadramento di questa patologia è molto utile l’individuazione di fattori predisponenti, quali: gozzo, adenoma, cisti del dotto tireoglosso, condizioni di immunodepressione (HIV, leucemie, trattamento chemioterapico).
Gli esami ematochimici mostrano un marcato aumento degli indici di flogosi (VES e PCR) con leucocitosi neutrofila; invece, gli ormoni tiroidei sono in genere nella norma, anche se talvolta può esserci un transitorio stato di tireotossicosi, dovuto alla distruzione dei follicoli tiroidei. Raramente può verificarsi una marcata distruzione del parenchima tiroideo, con conseguente instaurarsi di uno stato di ipotiroidismo permanente, come può verificarsi nei pazienti con infezione da P. Carinii.
L’ecografia e la TC della regione cervicale rappresentano le indagini principali per la diagnosi differenziale. L’ecografia può riscontrare un’area anecogena in corrispondenza della raccolta ascessuale. L’esofagografia con bario, associata a laringoscopia, è molto utile per la diagnosi di un’eventuale fistola tra seno piriforme e lobo tiroideo. L’interessamento del lobo tiroideo sinistro deve indurre il sospetto di una fistola del seno piriforme.
La citologia su agoaspirato evidenzia infiltrazione di leucociti polimorfonucleati ed è utile nell'identificazione dell’agente eziologico e, dunque, per l’esecuzione dell’esame colturale e dell’antibiogramma, oltre che per escludere altre patologie tiroidee, quali una neoplasia tiroidea maligna, che può giocare un ruolo causale o può manifestarsi clinicamente come una tiroidite acuta suppurativa.

 

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Terapia
E’ importante iniziare il trattamento tempestivamente, per evitare la diffusione del processo infiammatorio. La terapia d’elezione è rappresentata dall’utilizzo di antibiotici a largo spettro o specifici in base all’antibiogramma del germe isolato dalla ghiandola: nell'attesa dell'antibiogramma è opportuno iniziare con antibiotico a largo spettro; in fase iniziale è preferibile intervenire con terapia antibiotica per via endovenosa,  seguita poi dalla terapia per via orale per almeno 14 giorni o, comunque, fino alla risoluzione del problema.
Quando possibile e sicuro è utile il drenaggio della raccolta ascessuale.
Inoltre, la presenza di una fistola tra il seno piriforme e il polo superiore del lobo tiroideo, impone, oltre alla terapia antibiotica, anche una terapia chirurgica, con drenaggio dell’ascesso peri-tiroideo, se presente, e asportazione completa della fistola. Il mancato riconoscimento della fistola e/o la sua ablazione non radicale sono responsabili delle recidive della malattia.

 

Complicanze
Se la tiroidite acuta suppurativa viene trattata tempestivamente, in genere non residua nessuna alterazione permanente della funzione tiroidea. Le complicanze tardive di una tiroidite acuta sono rare e solo le forme infiammatorie severe o diffuse possono determinare un’ampia distruzione del parenchima tiroideo, con conseguente ipotiroidismo permanente e necessità di terapia sostitutiva con levotiroxina. Tra le rare complicanze locali, vanno ricordate: paralisi della corda vocale, rottura della raccolta asessuale o estensione del materiale purulento alle strutture adiacenti (mediastino anteriore, trachea, esofago), trombosi della vena giugulare interna e compressione estrinseca della trachea. L’estensione dell’infezione può essere sia locale che sistemica.
L’esito della tiroidite acuta suppurativa può essere letale, soprattutto se il trattamento non è tempestivo oppure è inappropriato. La morte può essere causata da: polmonite, ostruzione o perforazione tracheale, infezione metastatica, mediastinite, pericardite, sepsi, rottura di un ascesso tiroideo.

 

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